07 maggio 2021

ARTE E VITA DIVORATE DAI FOLLOWERS

 


Riprendo dal sito https://www.minimaetmoralia.it/ questo bel pezzo

CONTRO LA MENTALITÀ ARMONICA. SATANA, CAMUS E LE MITOLOGIE DI DESTRA E SINISTRA


Conservare nella violenza il suo carattere di rottura, di delitto-cioè non ammetterla se non legata a una responsabilità personale. Altrimenti è per ordine, è nell’ordine-o la legge o la metafisica. Non è più rottura. Elude la contraddizione. Costituisce paradossalmente un salto nella comodità. Hanno resa comoda la violenza.
Camus, Taccuini

I. In Cielo

Mentre sta volando a corrompere Adamo ed Eva nell’Eden, il Satana di Milton viene colto da un momento di fatica e incertezza. Tutto il peso della ribellione e della condanna gli piomba nuovamente addosso, ed egli vacilla straziato dalla nostalgia per l’universo di luce da cui si è strappato con la sua rivolta.

Il dubbio e l’orrore sconvolgono
i suoi pensieri turbati, e dal profondo in lui
si agita l’inferno, che egli si porta l’inferno dentro di sé
e attorno…La coscienza risveglia la disperazione
fino allora assopita, risveglia l’amara memoria
di ciò che fu, che è, che dovrà essere
anche peggiore di questo, se azioni peggiori inducono
peggiori sofferenze.

Da questa incrinatura egli si riscuote abbracciando per l’ennesima volta il suo fato, accettando la strada sbarrata alle sue spalle e chiamando bene il male. È un momento persino canonico nella traiettoria di tutti gli eroi, la notte oscura, il monte degli Ulivi per Cristo o Giovanna d’Arco che ritratta, il momento di fragilità e solitudine in cui si dubita del proprio destino di straordinaria elezione per poi compiere l’ultimo atto decisivo. Sarebbe così facile, così riposante rientrare nell’abbraccio d’un cammino comune, invece che remare in direzione contraria e guastare l’armonia con la propria nota dissonnante. Ma è proprio questa la questione decisiva. Che Milton fosse o meno del partito del diavolo, come scrivevano Blake o i Romantici, l’intuizione poetica di innestare questa notazione psicologica nella traiettoria del reietto per eccellenza (il cui fascino perenne è presente non poco nella pars destruens di tutte le rivoluzioni, da Spartaco a Guevara, e può facilmente sclerotizzarsi nell’autonarrazione d’un prometeismo a buon mercato), mostra a caratteri cubitali una dinamica interiore: in questa prospettiva Dio e Satana sono due realtà esistenti in tutti e ciascuno, la gloria di un sistema perfettamente gerarchico di valori dove c’è un posto per ogni cosa e ogni cosa è al suo posto, illuminato dalla luce rassicurante di un’autorità verticale, incontestabile, e la pulsione dolorosa, persino tragica ma necessaria a distaccarsi e contestare tutto questo in nome di una propria particolare visione.

Persino una prospettiva scientifica come quella dell’evoluzione, in questo senso, dà ragione al racconto biblico del peccato originale. Il progresso dall’innocente fusione col tutto è al tempo stesso una vittoria e una ferita, e a quel trauma originale si reagisce in vari modi, quasi sempre cercando di ricostruire un universo perduto, nuove ipotesi di senso in cui ordinare la vita e noi stessi. Una verità che, come scrive Dante alla fine del Paradiso con una meravigliosa immagine da legatoria medievale, consenta di cogliere i fogli staccati dell’universo come un volume unico.

Questo perché la mentalità armonica e la mentalità dissonante sono sempre dentro di noi, e la seconda resta faticosamente necessaria per sottrarci al perenne incanto della prima, tutte le volte che trasformiamo le case delle nostre identità parziali e condizionate in nuove chiese. La parola armonia in noi evoca quasi di per sé qualcosa di positivo, ma occorre ricordare che tutte le armonie autentiche sono sempre temporanee, da quelle di un’orchestra o un concerto a una scoperta scientifica o una vittoria politica.  Protrarle o estenderle implica sempre una violenza su altri aspetti della vita e la sua natura contradditoria. Non c’è bisogno di credere in Dio per vivere religiosamente, con riti, gloriose connessioni, libri sacri, verità rivelate, processi per stregoneria e condanne agli eretici.

II. Sulla Terra

È un’ovvietà. Il 2020-21è stato e tuttora resta il biennio de LaPeste di Camus (e di quella raccontata e analizzata da Manzoni in pagine di una forza e lucidità troppo poco rimarcate, ma questo è tutt’altro discorso). La commistione di caso naturale e ottusità umana, il tergiversare delle autorità e poi le chiusure forzate, la ricerca affannosa di un orizzonte di senso in cui iscrivere l’evento e le proprie reazioni, l’ottundimento progressivo per cui tutti pensano alle stesse cose nelle stesse ore, e la vigliaccheria e l’eroismo faticoso e il desiderio di provare comunque a tenersi stretti l’amore e l’amicizia e poi, a piaga forse conclusa, la corsa immediata delle masse a dimenticarsi tutto, a rimuovere il turbamento e gli interrogativi suscitati dalla morte. Tutto questo lo conosciamo bene. Eppure, nella comunità globale resa possibile dai social media e nel polarizzarsi in essa di dibattiti sempre più vetriolici sono stati gli interventi pubblici di Camus dal ‘37 al ‘58 (Conferenze e discorsi, Bompiani) che per quanto mi riguarda hanno costituito un appiglio cui continuo costantemente a tornare quando si tratta di questioni come cancel culture, patriarcato, libertà di espressione, differenze tra destra e sinistra, in questi giorni rilanciate dal dibattito intorno al nuovo libro di Walter Siti, Contro l’impegno, un testo di cui non mi occupo direttamente in questo articolo ma che per la questione che pone giudico importante e necessario.

È francamente impressionante come le riflessioni di Camus non siano meno attuali del suo romanzo rispetto alla crisi che stiamo affrontando, alle sue radici e implicazioni, e al pari di esso facciano risuonare una nota che costituisce un antidoto salutare contro le rispettive mitologie autorappresentative di destra e sinistra. Sono la testimonianza appassionata di un intellettuale profondamente impegnato e schierato ma che ha sempre cercato di “vederci chiaro”, e di non smettere di farlo anche quando ciò sfida le sue stesse convinzioni, e per questo è stato ai suoi tempi accusato di estetismo disimpegnato o di favorire oggettivamente la reazione. Il tutto da parte di chi allora si credeva l’avvocato difensore dell’ultima onda del progressismo rivoluzionario e in nome di questo arrivava a giustificare la Russia di Stalin.

III. L’Occidente brucia e La macchia umana

La cultura di destra è costantemente percorsa da un complottismo passivo-aggressivo. Nel solo mondo Occidentale i governi di destra estrema o centro-destra superano di gran lunga quelli di sinistra, eppure politici, intellettuali e simpatizzanti conservatori – di ideologia religiosa o no – dichiarano continuamente di essere una minoranza nelle catacombe, cui la tirannia ideologica della sinistra non consentirebbe più di esprimersi in alcun modo. A ondate e con nomi diversi, facilmente sovrapponibili, un nuovo colonialismo post-umano minaccerebbe la famiglia, la differenza sessuale, la cultura, il feticcio della tradizione. Femminismo aggressivo, multiculturalismo, ecologismo, gender, cancel culture, sarebbero facce diverso di un unico prisma e un unico disegno delle élite del nuovo ordine globalista, magari segretamente seguaci del Demonio) per cui l’Occidente brucia. È il grido lanciato da Denethor, il Sovrintendente di Gondor che vorrebbe solo che “tutto fosse com’era prima” prima di darsi fuoco come “un re barbaro del passato”. Un suicidio rituale che in qualche modo abbraccia l’ultima scelta di tanti intellettuali conservatori, grandi e piccoli per levatura, da Mishima a Drieu de la Rochelle a Dominique Venner, che si è sparato – significativamente –nella cattedrale di Notre-Dame nel 2013. Le ragioni per questa cornice persecutoria sono molteplici e ben indagate da La Q di Qomplotto di Wu Ming 1: qui mi limito a rimarcare l’ovvio, ossia che pressoché a nessuno piace ammettere di essere l’Impero di Star Wars, tutti desiderano sentirsi la Resistenza, i Carbonari, il resto d’Israele, i fedeli dell’Apocalisse perseguitati dalla Bestia. Ciò conferisce dignità e peso ulteriore alle proprie convinzioni, le rende una causa con l’aura del martirio, mitologizza al contempo sé stessi e l’avversario. Nonostante domini de facto gran parte dello scacchiere, la destra accusa la sinistra di tenere un potere de iure che le consente di braccare e imbavagliare qualunque visione alternativa su società, economia, cultura. Episodi disparati vengono connessi ad altri e distorti, le statue degli schiavisti appaiate a chi si può insegnare all’università o alla questione dei bagni per le persone trans.

Tuttavia, il semplice ventaglio dei suicidi sopracitati dovrebbe essere sufficiente a non derubricare tale accusa semplicemente all’ultimo disperato rifugio d’una visione ideologica che si inventa un avversario titanico per ammantare di gloria le proprie sconfitte e la propria incapacità.  Molti intellettuali di destra hanno additato nella società tecnologica rischi che la sinistra ha acriticamente cavalcato. Ma c’è di più. Difatti se la mentalità di destra tende a difendere sistemi armonici già esistenti, quella di sinistra, per il manicheismo divorante che si annida nella psicologia umana, facilmente ne erige di nuovi e trasforma le case delle battaglie sociali e identitarie in altrettante nuove chiese. Si erge a impartire lezioni da un podio precettistico poggiato sull’assunto non di essere nel giusto, ma di essere giusti. Certamente si elogiano pensatori di matrice ideologica opposta che però quasi sempre sono stati ormai digeriti da un pezzo nell’ammirazione collettiva: Céline, Mishima appunto, Tate, Bernanos. E quando a reagire sulla libertà di espressione non sono banali provocatori come Milos Yiannopoulos o celebri misantropi come Ellis e Houellebecq (di tutt’altra grandezza) ma scrittori civilmente impegnati come Salman Rushdie, Tom Stoppard, Margaret Atwood, J. K. Rowling, svilirne moniti e distinguo facendone dei privilegiati di mezz’età diventati conservatori nei loro superattici non è affatto diverso dalle campagne di svilimento cui furono sottoposti in passato Orwell, Pasternak, Pasolini. Come scrisse AzarNafisi, che da una teocrazia è fuggita davvero, gli scrittori sono il canarino nelle miniere dell’umanità, i primi ad additare quando manca l’ossigeno per tutti.

Soprattutto, come già notava lo stesso Pasolini, la nuova civiltà consumistica, che non tollera che ci siano l’esistenza di fette di acquirenti che non possa raggiungere con delle proposte specifiche, sposa e spesso contribuisce al trionfo delle battaglie civili, trasformandole in logo, e al tempo stesso le dissangua con una cascata di prodotti facili ed edificanti, che a loro volta però condizionano la domanda stessa.

Si richiede sempre e solo ciò che già si sottoscrive e apprezza, si reagisce con stizza feroce a tutto ciò che lo contraddice. Come ha scritto Irene Graziosi, ricordata recentemente da Loredana Lipperini: “È bizzarro come il termine attivismo abbia perso la componente di attività insita nella parola stessa. Basta postare un quadrato nero o delle elaborate infografiche su uno sfondo arcobaleno e immediatamente si diventa attivisti di una causa. Anzi, di varie cause, perché l’intersezionalità – cornice accademica utile per analizzare le intersezioni di diverse dimensioni sociali e identitarie applicandole ai grandi numeri – sui social trova terreno fertile per abbracciare con le infografiche qualunque causa esistente. Per il clima, contro il catcalling, contro l’omotransfobia, contro l’utilizzo di parole offensive, contro il razzismo, contro la feticizzazione dei corpi, per il body positive, contro la plastica. Grazie all’intersezionalità applicata agli individui è sia possibile calcolare la percentuale di handicap che ognuno di noi si porta dietro, 60% acqua, 40% categoria discriminata, sia essere attivisti per una causa qualunque che viene dissezionata fino all’ultimo atomo di modo da produrre più post, nutrire l’algoritmo e, incidentalmente, guadagnare follower. L’attivismo, un tempo collettivo, è diventato appannaggio dei singoli svuotando di significato gli -ista che lo descrivono. Ogni lotta è declinata sul sé, ognuno la intende a proprio modo, e nessuno è in grado di non personalizzare l’ideale a cui sostiene di credere”. Il testimonial diventa martire.

Come la destra mitologizza la sinistra, così a loro volta fascisti, neocon e persino riformisti dalle vedute diverse diventano Orchi irredimibili, come nell’Alexander Nevskij di Ejzenstejn dove i Cavalieri Teutonici medievali (ossia i tedeschi invasori del ’39) sono tutti nascosti sotto elmi con la visiera a croce sottile, mentre di ogni russo si intravede l’umanissima faccia. Una contrapposizione che sarà ripresa dal Lucas di Star Wars per i suoi Stormtrooper. E nell’attivismo da social dove postare un hashtag è già una medaglia al valore civile, un lurido tweet antisemita, la battuta di cattivo gusto e un pamphlet complesso diventano a loro volta la stessa identica cosa.

Che le due mitologie si sostengano e alimentino a vicenda è raccontato da par suo già negli anni ’90 ne La macchia umana di Philip Roth, dove uno stimato insegnate viene cacciato per aver usato una parola dal possibile significato razzista a proposito di due studenti assenteisti (che non aveva mai visto) per poi scoprire che non si trattava di un ebreo bianco ma di un afroamericano che si era fatto operare per celare la sua identità e assumerne un’altra. Il razzismo introiettato e quello falsamente braccato dal neo-puritanesimo riformista, la cancel culture interna ed esterna costituiscono qui un unico groviglio serrato sulle luci e ombre della natura umana. Ed è proprio per fissare meglio questa spirale che possiamo rivolgerci alle conferenze di Camus.

IV. Occhi aperti sulla destra

Si tratta di interviste, contributi a tavole rotonde, inaugurazioni di case della cultura, saluti in sostegno alla lotta spagnola contro il franchismo, ringraziamenti per premi come il Nobel stesso. E a dispetto di tanti mutamenti del contesto colpisce come vi siano contenuti ed enucleati tutti i poli del dibattito politico di questi nostri anni. A partire dal dominio della tecnologia e dalla sua capacità di alterare completamente i nostri rapporti: L’universo della tecnica non è di per sé negativo, e sono assolutamente contrario a tutte le forme di pensiero che auspicano un ritorno all’arcolaio o all’aratro a mano. Ma la ragione tecnica posta al centro dell’universo, considerata il motore più importante di una civiltà, finisce con il provocare una specie di degenerazione, tanto nelle intelligenze quanto nella condotta delle persone, la quale rischia di portare alla sconfitta di cui abbiamo parlato. Sarebbe interessante scoprire come. Noi lo stiamo facendo, in modo dolorosamente empirico.

Tanto per sgombrare il campo da possibili equivoci, Camus è profondamente consapevole dei riti sanguinosi e monotoni della religione totalitaria che trova sempre nel populismo di destra il suo braccio armato, ieri come oggi, e che vediamo trionfare nei partiti xenofobi, capitalistici e machisti alimentati da un clima di aggressività qualunquista. Tutto ciò va combattuto, e basta, nelle strade e col fucile, se necessario. Questa parola, sovranità, ha da tempo messo i bastoni tra le ruote a tutta la storia internazionale, scrive, e le parole che egli dedica ai governi di destra dell’immediato dopoguerra sono perfettamente calzanti per amministrazioni devastanti come quelle di Trump, Johnson, Salvini, Orban o Bolsonaro: È l’aristocrazia di una gang, la sovranità del crimine, la crudele signoria della mediocrità. Per quel che mi riguarda, conosco soltanto due generi di aristocrazia, quella dell’intelligenza e quella del lavoro…Mai nel mondo hanno regnato dèi tanto meschini. Vedendoli sulle prime pagine dei giornali o sugli schermi dei cinema, non c’è da stupirsi se le loro chiese sono innanzitutto delle polizie.

A questo si aggiungano le ipocrisie dei governi liberali o blandamente riformisti che al pari di quelli smaccatamente reazionari sono capaci di sbandierare come proprie le grandi battaglie umanitarie e citare Don Milani e Gramsci, svuotandole di ogni efficacia e valore effettivo: Finché arriva il giorno in cui un pugno di militari e di industriali può dire “noi” parlando di Molière e di Voltaire o stampare, snaturandole, le opere del poeta previamente fucilato. Quel giorno, che è quello in cui siamo, dovrebbe ispirarci almeno un pensiero di compassione per il povero Hitler. Anziché uccidersi per eccesso di romanticismo, gli sarebbe bastato imitare il suo amico Franco e avere un po’ di pazienza. Oggi sarebbe delegato dell’Unescoper l’istruzione dell’Alto Niger, mentre Mussolini contribuirebbe a innalzare il livello culturale dei bambini etiopi di cui non molto tempo fa massacrò un po’ i padri. Allora, in un’Europa finalmente riconciliata, assisteremmo al trionfo definitivo della cultura, in occasione di un immenso banchetto di generali e di marescialli serviti da una truppa di ministri democratici, ma risolutamente realisti.

Quando le categorie oppresse manifestano le loro sofferenze e protestano anche duramente, ecco gli editorialisti disgustati dalle rozzezze della destra aprire un fuoco di fila di “se, ma, però”: Ma queste calunnie, in fondo, come le cautele verbali che vediamo dispiegare anche in Francia dai nostri uomini del progresso, ci dicono qualcosa che sapevamo già. Ci dicono che i reazionari, oggi, sono anche a sinistra. Convintamente internazionalista, già agli albori della Comunità Europea Camus non si faceva illusioni sulla sua riduzione a fantoccio riverito all’ombra del quale portare avanti un burocraticismo oppressivo: L’Europa è sempre stata grande solo nella tensione che ha saputo introdurre fra i suoi popoli, i suoi valori e le sue dottrine. Non è altro, l’Europa, che questo equilibrio e questa tensione. Ogni volta che vi ha rinunciato, e ha voluto imporre attraverso la violenza l’unità astratta di una dottrina, si è fatta esangue, è diventata questa madre stremata che mette al mondo solo creature avare e malevole. E forse è giusto che simili creature finiscano con l’avventarsi una sull’altra per trovare infine una pace impossibile in una morte disperata.

In questa sazietà stanca, nella quale si è abbandonato il vecchio rapporto col mondo delle società contadine (con i loro limiti violenti ma anche le loro saggezze) in favore di un mondo di pura efficienza tecnologica e produttiva senza più le forze della natura e dell’amicizia si annuncia già il principale malanno delle società occidentali, cui non è affatto esente la sinistra, che tra i tanti suoi sintomi comprende anche la ferocia processuale riservata a tutto ciò che contrasta con la propria visione del mondo, costantemente proiettata a verità universale, una sorta di parzialità astratta in netto contrasto con l’autentica capacità di dedizione per qualcosa o qualcuno:

Giunti così al colmo dell’insensatezza, possiamo almeno denunciare l’inganno di questo secolo, che finge di perseguire il dominio della ragione quando ciò che cerca sono soltanto le ragioni di amare che ha perduto. E lo sanno bene i nostri scrittori, che finiscono tutti per invocare quel povero, derelitto surrogato dell’amore che è la morale.

V. Arte e vita divorate dai followers

No, l’idolatria non è cultura[,] per Camus. Egli vedeva già che paradossalmente bigottismo, egoismo e razzismo da una parte e moralismo progressista dall’altra sono due modi convergenti per mutilare e ignorare la realtà: L’accademismo di destra ignora una miseria che l’accademismo di sinistra sfrutta. Ma, in entrambi i casi, la miseria è rafforzata mentre l’arte è negata. Anche tante prese di posizione rispetto al pamphlet di Siti lo riconfermano, per cui l’impegno civile pare doversi necessariamente fare semplificazione banale e il richiamo alla verità “immorale” dell’arte un mero elitarismo qualunquista: Avremo così una produzione di intrattenitori o di puristi della forma, che darà luogo in entrambi i casi a un’arte separata dalla realtà viva. E decenni prima che nascessero i social media, Camus palesa il salto quantico di un mondo dove il potere e il successo non coincidono nemmeno più con la ricchezza materiale ma con la loro traduzione in visibilità e influenza: Da circa un secolo viviamo in una società che non è neppure la società del denaro (il denaro o l’oro possono suscitare passioni viscerali), ma quella dei simboli astratti del denaro. La società mercantile può essere definita come una società in cui le cose spariscono a vantaggio dei segni.

Come scrisse il Collettivo Wu Ming, sempre ricordato da Loredana Lipperini, la questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. È la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto”. Facebook, dunque, si basa sul pluslavoro degli utenti: “Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no. L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. È forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.

La rappresentazione e condivisione della propria vita, dalle riflessioni esistenziali ai dettagli materiali, diventa così per Camus la prima merce fondamentale, con la quale predichi, insegni, sei approvato. La condivisione della propria colazione, di quindici secondi di un brano musicale in lavorazione, un appello civile si fondono in un flusso inestricabile: Milioni di uomini avranno così la sensazione di conoscere questo o quel grande artista della nostra epoca perché hanno saputo dai giornali che alleva canarini o che i suoi matrimoni non durano più di sei mesi. Il massimo della celebrità consiste oggi nell’essere ammirato o detestato senza essere stato letto. Qualunque artista che nella nostra epoca si picca di essere famoso deve sapere che famoso non sarà lui, ma qualcun altro a nome suo che finirà per sfuggirgli di mano e forse, un giorno, per uccidere in lui il vero artista.

In questa cascata tutto acquista lo stesso (non)peso, dal saggio allo sfogo, e la natura così facilmente manichea della nostra immaginazione non fa che inasprirsi. Tutto ciò che la contrasta deve essere spazzato via e gli insulti luridi di un omofobo o un razzista o le contorsioni dialettiche di qualche pennivendolo filo-reazionario diventano identiche alla battuta di un film, a un personaggio di un libro o alle domande in un saggio. E che si parta da convinzioni reazionarie o riformiste, ogni testimonianza più complessa del mero schieramento previo viene a sua volta banalizzata per essere rigettata o digerita senza troppi problemi.

VI. Le dottrine implacabili e i giudici-penitenti della sinistra

Rispetto agli intellettuali conniventi e fautori delle violenze fasciste, Camus avrebbe definito la medesima tendenza violenta a sinistra: quella dei “giudici penitenti.” Nella sintesi di Michel Onfray Camus prevede quindi con una certa precisione la civiltà in cui abbiamo cominciato a vivere nel mezzo secolo che ci separa dalla sua morte: un’epoca di odio nei confronti di se stessi, di sensi di colpa e di mea culpa generalizzati, il tempo dei giudici-penitenti, i quali, pur essendo atei, moralizzano usando categorie cristiane. Il secolo della morte di Dio e della fine della religione cattolica è dovuto fin troppo spesso ricorrere ai dispositivi cristiani per pensarsi. E per impedirsi di agire: le confessioni, le ammissioni, le contrizioni, i sensi di colpa, i pentimenti, le penitenze, le espiazioni, i ravvedimenti, le riparazioni e le assoluzioni contaminano e incancreniscono questo mondo di pura immanenza… il giudice-penitente comincia rallegrandosi d’un mea culpa altisonante e pubblico; proclama in ginocchio le proprie colpe, estendendole all’intero Occidente; poi, dopo aver confessato i propri peccati di uomo bianco, cristiano, occidentale, colonizzatore e sfruttatore, si considera sufficientemente puro da costringere anche gli altri a confessare le loro, di colpe; se la confessione tarda, ecco che contro i recalcitranti ricorre immediatamente alla violenza.

Ed è qui che si pone la sfida per l’intellettuale e l’artista che crede nelle battaglie progressiste ma non vuole trasformarle in una nuova dottrina rivelata. L’adorazione del proprio schieramento (e oggi la sua brandizzazione) di chi crede solo nel progresso – come scrisse Camus in una celebre risposta al giornale di Sartre che lo accusava di estetismo e complicità con la destra – consente di tagliar corto e di disprezzare, mentre altri approcci, fra cui il suo, si fanno un dovere di comprendere e presuppongono uno sforzo costante su sé stessi. Da ciò il prestigio di cui godono le prime presso alcuni intellettuali, amici della legge del minimo sforzo. L’intelligenza priva di carattere è, alla fine, molto peggiore della serena imbecillità. In mancanza di una volontà salda, si attrezza di una dottrina implacabile, ed è così che abbiamo visto nascere quella specie così tipica dei nostri tempi: l’intellettuale inflessibile pronto a giustificare qualsiasi terrore in nome del solo realismo. È una ipocrisia che la destra, ieri e oggi, declina minimizzando la propria violenza (i problemi del paese sono sempre altri…) laddove la sinistra nega la mera esistenza di problemi per la cui risoluzione la destra ha risposte altrettanto pericolose, se non più.

VII Dio rientra dalla finestra

Come notava Nietzsche, che per Camus fu un modello fondamentale, il vero fondamentale discrimine è se siamo platonici o meno, ovvero se crediamo che l’essere preceda l’esistenza. Si può essere laici e progressisti quanto si vuole ma se in fondo si ritiene che ci sia un bene “in sé” a cui la nostra vita quotidiana deve conformarsi e accostarsi per tappe, e non che giusto e sbagliato siano categorie empiriche che chiedono un loro costruzione e ricostruzione costante e sempre parziale, allora in fondo saremo sempre dei precettori e dei censori che in nome di una categoria superiore e assoluta (che può essere la giustizia sociale, il femminismo, i diritti delle minoranze oppresse, l’ecologismo) giudicano la vita personale e collettiva con un ottimismo sociologico che costituisce solo l’ennesima contraffazione del vecchio messianesimo religioso. Invece, in una prospettiva atea ed evoluzionistica, le categorie di bene e di male sono come le leggi della fisica: non sono vere in assoluto, ma via via più calzanti man mano che ci si accosta a determinati oggetti o ambienti, come la gravità. E una delle colpe principali degli intellettuali di sinistra è proprio questo platonismo, che Camus fiutava anche nell’arte realista sovietica e nei suoi sostenitori occidentali: mostrare le cose non come sono, ma come dovrebbero essere.

In tutto questo, davanti al fuoco di sbarramento incrociato dell’ottusità reazionaria e del fanatismo di sinistra, dato per scontato che il fascismo si combatte armi in pugno, qual è la vocazione specifica della scrittura e del pensiero? Creare oggi significa creare a proprio rischio e pericolo. Ogni pubblicazione è un atto e quell’atto espone alle passioni di un secolo che non perdona nulla. Il problema non è quindi sapere quanto questo sia dannoso per l’arte. Il problema, per tutti coloro che non possono vivere senza l’arte e ciò che essa significa, è solo sapere come, fra i gendarmi di tante ideologie (quante chiese, quanta solitudine!), sia ancora possibile la strana libertà della creazione.

Il platonismo si traduce sempre in uno Stato Etico e Religioso, di matrice confessionale o no, che riscrive il passato e violenta il presente sul letto di Procuste delle proprie convinzioni, e questo infetta la vita, la scrittura e la riflessione critiche che si colorano d’una patina di attivismo: L’Europa non guarirà se non negheremo alle filosofie politiche il diritto di risolvere ogni cosa. Non si tratta infatti di dare a questo mondo un catechismo politico o morale. La grande iattura della nostra epoca è proprio che la politica pretende di fornirci insieme un catechismo, una filosofia completa e persino, a volte, un’arte d’amare. Ma il ruolo della politica è far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro, per quel che mi riguarda, se esiste un assoluto. Ma so che non è di ordine politico. L’assoluto non è una questione che concerne tutti: concerne ciascuno di noi individualmente. E occorre impostare i rapporti reciproci affinché ciascuno abbia per sé l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto. La nostra vita può anche appartenere agli altri, ed è giusto donarla quando è necessario. Ma la nostra morte appartiene solo a noi. Ed è questa la mia definizione di libertà.

L’altro esiste

La cartina di tornasole d’uno sguardo autenticamente impegnato con la vita e i suoi urti sta proprio nella capacità dell’artista di non appiattire il mondo a quanto egli vorrebbe che fosse, a non cancellare le obiezioni e le domande suscitate da ciò che è diverso da lui. È qui che per Camus possiamo davvero scoprire se siamo degli autentici rivoluzionari, capaci di sfidare le tendenze tiranniche dentro e fuori di noi: Poiché quel che cerca il conquistatore di destra o di sinistra non è l’unità, che è innanzitutto l’armonia dei contrari, bensì la totalità, che è la soppressione delle differenze. L’artista distingue, là dove il conquistatore livella. L’artista che vive e crea nella carne e nella passione sa che nulla è semplice e che l’altro esiste. Il conquistatore vuole che l’altro non esista, il suo è un mondo di padroni e di schiavi, come quello in cui viviamo. Il mondo dell’artista è quello della contestazione vivente e della comprensione. Non conosco una sola grande opera che sia stata edificata esclusivamente sull’odio, mentre conosciamo bene gli imperi dell’odio. In un’epoca in cui il conquistatore, per la logica stessa del suo atteggiamento, diventa carnefice e gendarme, l’artista è costretto a essere un disertore.

Una delle obiezioni più frequenti è che questa sarebbe una comoda posizione estetica, da radical-chic che si rifugerebbero in una sorta di terzietà tanto raffinata e ricca di sfumature, ma che non costa davvero niente e tiene lontani dalle barricate. Per Camus questo invece fa della vita tutta una barricata, perché l’artista si sforza di non distogliere mai lo sguardo anche dalla sopraffazione in agguato nelle sue convinzioni più intense: Per questa ragione è inutile e ridicolo chiederci giustificazione e impegno. Impegnati lo siamo comunque, seppur involontariamente. E per finire, non è la lotta a fare di noi degli artisti, semmai è l’arte che ci costringe a essere in lotta. Per il suo stesso ruolo, l’artista è il testimone della libertà, ed è una giustificazione che paga talora a caro prezzo. Per il suo stesso ruolo, è calato nelle profondità più inestricabili della storia, dove soffoca la carne stessa dell’uomo. Siamo calati in questo mondo, che lo vogliamo o no, e siamo per natura nemici degli idoli astratti che oggi vi trionfano, siano essi nazionali o di partito.

Il dolore dell’altro

La grande arte è più vasta di tutte le nostre battaglie, pur giuste e necessarie, perché, pur sostenendoci a combattere per esse, a bruciare di furia, indignazione e persino odio talvolta, ci chiede anche di abbracciare l’evidenza che nel mondo non ci sono mostri e demoni, ma solo antagonisti, segretamente tormentati dai nostri sogni spezzati di amore e comprensione: I veri artisti non hanno mai un grande successo in politica, poiché non sono in grado di accettare alla leggera, io lo so bene, la morte dell’avversario! Stanno dalla parte della vita, non della morte. Sono i testimoni della carne, non della legge. Per vocazione sono condannati a comprendere anche ciò che gli è nemico. Questo non significa affatto che non siano in grado di giudicare il bene e il male. Ma, anche nel peggior criminale, la capacità che hanno di vivere la vita altrui permette loro di riconoscere la costante giustificazione degli uomini che è il dolore.

Anche nel peggior criminale. Chiediamocelo. Davvero? È così facile dirlo oggi dell’inquisitore spagnolo, del monarchico bonapartista, del principe borbonico, del raffinato ufficiale nazista, del gangster durante il proibizionismo. Riusciamo a ripetere quella frase quando si tratta del pedofilo, del trumpiano negazionista, del leghista omofobo, del fanatico religioso, del neofascista? Personalmente ci sono dottrine e atteggiamenti al cui solo pensiero vorrei che i loro rappresentanti vengano schiacciati, fatti a pezzi, umiliati. Come tenersi stretta questa rabbia e tradurla in azione, senza smettere che sullo sfondo ci sia anche quella scomoda verità, è una domanda che cerco di pormi tutti i giorni. Dove trovare un modello? Per Camus, ancora una volta, occorreva tornare in Grecia, a quella spiaggia dell’Asia Minore dove il massacratore di un figlio e il padre di chi aveva ucciso il grande amore di quello stesso assassino piangono insieme.

Se le mie conoscenze non mi ingannano, nella civiltà ellenica la misura è sempre stata la presa d’atto della contraddizione e la decisione di restarvi, nella contraddizione, qualunque cosa accada. Un approccio di questo genere non è solo un ammirevole approccio razionale e umanista. Presuppone in realtà un atto di eroismo.

 

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