29 maggio 2021

CON MONTAIGNE NASCE L' INDIVIDUO MODERNO

 




Con Montaigne nasce l'occidente moderno

di Alfonso Berardinelli


E’ sempre esistito l’individuo?

A prima vista e proiettando nel passato noi stessi, sembrerebbe di sì. In realtà ogni cultura e epoca ha creato la sua idea dell’io e del suo rapporto con la società. La stessa idea di società è nata in occidente solo con la modernità sette-ottocentesca, quando individui e popolo si sono dissociati dallo stato assoluto e ne hanno contestato la legittimità. E’ solo allora che comincia a profilarsi una nuova disciplina, la sociologia, termine inventato da Auguste Comte negli anni che precedettero le rivoluzioni del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto di Marx e Engels.

Quanto all’individuo isolato e dissociato dall’insieme sociale, sembra nascere con alcuni celebri personaggi letterari, veri e propri “miti dell’individualismo moderno”, come ha spiegato nel suo libro omonimo il critico Ian Watt. Questi personaggi e miti sarebbero Faust, don Chisciotte, don Giovanni e Robinson Crusoe, ai quali andrebbero aggiunti almeno l’Amleto shakespeariano e Alceste, il “misantropo” di Molière, al quale gli “equilibristi del vivere sociale” ripugnano. Ma in queste ultime incarnazioni originarie dell’individuo isolato in sé, lo sfondo antagonistico non è la società in senso generale, è la vita di corte. In filosofia si dice che l’“io penso dunque sono” di Cartesio segna la nascita dell’autonomia individuale: basta pensare per esistere, il resto non conta. Una cosa, questa, che ai filosofi piace molto, perché è molto radicale e molto astratta.

Ma chi è più precisamente, empiricamente, questo “io”? L’individuo è tale perché presenta delle singolarità che non vanno taciute ma espresse e descritte. Mezzo secolo prima di Cartesio questa impresa era stata compiuta da Michel De Montaigne con la sua unica opera, i Saggi, usciti per la prima volta nel 1580. E Montaigne, vero inventore dell’individuo occidentale moderno, si presentava così: “Questo, caro lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che con esso non mi sono proposto alcun fine, se non privato e domestico. Non ho tenuto in considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non bastano a tali propositi. L’ho dedicato all’utilità privata dei miei parenti e amici (…) Se lo avessi scritto per procurarmi il favore della gente, mi sarei migliorato e presentato in atteggiamenti più studiati. Voglio che mi si veda qui nel mio semplice modo di essere, naturale e consueto, senza pose né artifici: perché è me stesso che ritraggo (…) sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione perché tu spenda il tuo tempo con un argomento così frivolo e vano”.

Molta naturalezza, a cui lo stile di Montaigne resterà fedele. Ma l’artificio, come si capisce dalla frase finale, non è del tutto escluso. Non ci si presenta al lettore incoraggiandolo a non leggere. Questa esibizione di umiltà è ovviamente un’astuzia retorica e una provocazione preliminare. Come dire: gli individui reali, per come sono e basta, non hanno finora meritato di essere il solo tema di un’opera letteraria o filosofica. Quello che ho fatto sfida le convenzioni culturali, dà importanza a ciò che non importa e scopre un mondo, prossimo e accessibile, ma in precedenza ignorato.

La rivoluzione individualista di Montaigne comincia da qui.

Senza il suo autoritratto non ci sarebbero stati i monologhi autodenigratori di Amleto, il suo annoiarsi a morte di fronte al dovere politico della vendetta. Rousseau non avrebbe scritto, due secoli dopo, le sue Confessioni e le tecniche introspettive del romanzo moderno sarebbero state inconcepibili. Chiuso nella torre del suo castello, di fronte alla sua biblioteca di classici, con le pareti tappezzate di sentenze e di aforismi, mentre fuori infuriavano le guerre di religione fra cattolici e protestanti, Montaigne studia se stesso. Ma più si insegue e più si convince che l’io è mobile, l’identità è multipla, la conoscenza oscilla fra certezze solo momentanee.

Nato il 28 febbraio 1533 nel segno dei Pesci da padre cattolico e madre di origine ebraica, in un castello nelle vicinanze di Bordeaux, Michel Eyquem De Montaigne ricevette dal suo amato e tollerante padre un’educazione di stile italiano, senza rigidezze e severità. Il suo precettore tedesco, Horstanus, non conosceva il francese e insegnò al bambino a parlare il latino. Dopo gli anni di collegio in Guyenne, a poco più di vent’anni, Montaigne, che aveva studiato diritto, ebbe la nomina di consigliere nell’amministrazione pubblica di Périgueux, poi entrò nel parlamento di Bordeaux e conobbe quello che sarà il grande amico della sua vita, quell’Etienne de la Boétie autore del famoso scritto sulla Servitù volontaria, di cui curò, dopo la sua morte, l’edizione delle opere.

La perdita precoce di questo amico fu uno degli eventi più dolorosi e decisivi nella vita di Montaigne. Più tardi, sollecitato da Enrico III, fu sindaco di Bordeaux quando aveva già pubblicato la prima edizione dei suoi saggi in due libri, ai quali nel 1588 se ne aggiunse un terzo. Già da quando aveva trentotto anni aveva deciso di ritirarsi a vita privata per riflettere, leggere e scrivere. Grande lettore di classici soprattutto latini (continuamente citati e ruminati sono Catullo e Virgilio, Orazio, Ovidio, i satirici Marziale e Giovenale, i filosofi morali Cicerone e Seneca), Montaigne passa dal commento all’autoritratto. Come lettore, più che un erudito è un individuo che scopre, misura e saggia se stesso. La pratica della solitudine riflessiva non ha in lui niente di ascetico, induce piuttosto all’onesta descrizione della propria vita quotidiana e alla valorizzazione del puro e semplice vivere. Impresa d’altra parte niente affatto tranquilla e lineare: “Quando recentemente mi sono ritirato a casa mia, deciso a occuparmi il più possibile di nient’altro che di trascorrere in pace e appartato quel tanto di vita che mi resta, mi sembrava di non fare al mio spirito favore più grande che lasciarlo nell’ozio più completo a conversare con se stesso e soffermarsi e riposarsi in se medesimo (…) Ma trovo che invece, come un cavallo che rompe il freno, il mio spirito mi procura cento volte più preoccupazioni da solo di quante se ne facesse per gli altri. E genera in me tante chimere e mostri fantastici uno sull’altro, senza ordine e senza motivo, che per contemplarne a mio agio la balordaggine e la stravaganza, ho cominciato a registrarli nella speranza che col tempo mi vergogni di me stesso” (Libro I, capitolo ?.

E’ la mossa tipica di Montaigne: abbassare invece che nobilitare. L’eroe autobiografico è in realtà un moderno antieroe. E questa pratica dispone di un metodo infallibile: la considerazione della stretta convivenza di corpo e anima. Come ha osservato Erich Auerbach, uno dei suoi più acuti e simpatetici studiosi, l’avversione di Montaigne va “a tutti i sistemi pedanteschi di filosofia morale, ai quali rimprovera l’astrattezza dei metodi che travestono la realtà della vita con la gonfiezza della loro terminologia, cose che si possono ricondurre al fatto che, in parte nella teoria e in parte nell’insegnamento pratico, vengono separati l’anima e il corpo, impedendo a quest’ultimo di dire la sua”.

Il corpo ha le sue pigrizie e le sue lentezze. Anche la mente ne è condizionata e i suoi movimenti possono essere descritti e messi in scena come movimenti corporei. Parlando per esempio dell’educazione (Libro I, capitolo 26), Montaigne comincia con l’esibire la propria renitenza a sfinirsi sui libri: “Insomma, io so che esiste la medicina, la giurisprudenza, la matematica divisa in quattro parti. E so all’ingrosso di che cosa trattano (…) Ma andare più a fondo e logorarmi sui libri studiando Aristotele, sovrano del sapere, o intestardirmi su qualche scienza, questo non l’ho mai fatto; e non c’è arte di cui sarei capace di delineare i principi (…) I miei pensieri e il mio giudizio procedono a tentoni, esitano, vacillano e inciampano; e quando sono andato più avanti che ho potuto, non mi sono sentito per niente soddisfatto; ho visto altre terre davanti a me, ma confusamente, e come in una nebbia che non riuscivo a penetrare”.

Esistere non è pensare, ma cercare di farlo. In questo senso e con l’invenzione di questo stile non enfatico, non astratto e antieroico, si potrebbe dire che Montaigne è il primo filosofo “esistenzialista”, il primo indagatore dell’esistenza come singolarità reale. Anche il mondo è visto da lui attraverso la lente dell’autoanalisi. Quanto alla società, alla politica, alle guerre di religione e alle ambizioni di potere, il suo è uno “sguardo da fuori”, lo sguardo di un uomo che si allontana, si autoesclude, si ausculta per capire di quale insieme molecolare di impulsi, paure, desideri, abitudini e inerzie è fatta la vita di ogni giorno ai suoi livelli elementari. Il moralismo di Montaigne è materialistico e scettico. Descrittivo, non normativo. La realtà è quanto l’io è in grado di vedere e di capire, senza illudersi di conoscere davvero ciò di cui non può fare esperienza: “Vorrei che ognuno scrivesse quello che sa, e quanto ne sa (…) Poiché uno può anche avere qualche particolare cognizione o esperienza della natura di un corso d’acqua o di una sorgente e per il resto sapere solo cose che sanno tutti. Eppure, pur di mettere in circolazione questa sua minuscola conoscenza si mette a scrivere su tutta la fisica. E’ da questo vizio che nascono tanti grandi inconvenienti” (Libro I, capitolo 31).

Prendendo sul serio e coerentemente il socratico “conosci te stesso”, Montaigne si trova di fronte un’entità polimorfa e porta l’umanistica esaltazione dell’uomo dal cielo delle idee generali alla terra dei fenomeni minimi personalmente osservabili: “Negli uomini io credo più difficilmente alla loro costanza che a ogni altra cosa, e a niente credo più facilmente che alla loro incostanza (…) Di solito non facciamo che andare dietro alle inclinazioni del nostro desiderio, a sinistra, a destra, in su e in giù, secondo che il vento delle occasioni ci trascina. Pensiamo a quello che vogliamo solo nel momento in cui lo vogliamo e cambiamo come quell’animale che prende il colore del luogo in cui lo si mette” (Libro II, capitolo 1).

Con questo siamo ben lontani, al di là, o al di qua, del grandioso umanesimo antropocentrico italiano, fondato sull’idea di rispecchiamento fra quel microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo universale. Montaigne sa bene di non avere in sé tutto l’universo. La sola idea lo spaventerebbe. Cita spesso Platone, ma il suo filosofo è piuttosto Epicuro. I piaceri e i dubbi ragionevoli sono il sale della sua riflessione. Niente è stabile e certo. Ogni punto di vista ha una sua legittimità e tutto ciò che è piacevole è preferibile a ciò che è sgradevole e scomodo. La stessa grandezza degli uomini famosi la considera “incomoda” e sospetta, perché altera la naturalezza e la misura.

Anche lo stile saggistico di Montaigne, prototipo della prosa letteraria di pensiero che trionfò nel Settecento illuministico (con Addison, Rousseau, Diderot, Lichtenberg, Chamfort, Pietro Verri), risponde agli stessi criteri di sinuosa duttilità. Esprime l’etica dello scrittore, il suo ideale di vita, i suoi propositi, i ritmi della sua vita mentale: “Sentii di aver raggiunto il vero stile quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro”. Questo culto della semplicità e della naturalezza ha anch’esso una radice epicurea: non è un sapere per le élite, ma per chiunque.

Montaigne condanna l’oscurità di linguaggio, la paura immaginaria e la tristezza, da cui dice di essere immune. Nel saggio sulla “vanità delle parole” (Libro I, capitolo 51) osserva che il retore è come un calzolaio che faccia scarpe più grandi di quanto sono i piedi, e fa sembrare grandi cose che non lo sono. Vano è tutto ciò che supera le proprie reali possibilità. Vivere ritirato e indulgere a una certa pigrizia non lo giudica spregevole. E tuttavia ritiene che “la più onorevole occupazione sia giovare alla gente e essere utile a molti” (Libro III, capitolo 9).

Dunque realismo, autocoscienza, moderazione, accettazione dei propri limiti e delle opinioni diverse dalle proprie. Fanatismi e enfasi gli ripugnavano. Va riconosciuto che leggere Montaigne è più calmante che eccitante, se gli si sente dire che ciò che è grandioso corre maggiori rischi, mentre “tutto ciò che vacilla non cade”.

Se si confronta questo umanesimo del secondo Cinquecento con quello italiano che va da Marsilio Ficino e Giovanni Pico Della Mirandola, fino alle statue equestri di Donatello e Verrocchio, fino al Mosè e al Davide di Michelangelo, si nota un deciso rovesciamento e abbassamento di tono, di propositi e di ideali. L’interesse di Montaigne per gli altri è costante, ma egli nutre una certa sfiducia negli storici perché tendono a presentare gli uomini solo in situazioni eroiche e straordinarie e si preoccupano troppo di attribuire agli individui un’identità univoca e rigida quale appare nei pochi momenti culminanti della vita. “Per giudicare un uomo”, scrive Montaigne, “bisogna stargli dietro a lungo, seguirlo con curiosità nella quotidiana vita privata”, poiché in quella pubblica si indossano più facilmente delle maschere.

In questa ottica è l’individuo solo e privato che giudica il “grande uomo”, non viceversa. Quotidianità e singolarità hanno perciò qualcosa di antisociale e delimitano uno spazio di anti-Storia. L’uomo di Montaigne è un io che non somiglia ai modelli del principe di Machiavelli o del cortigiano di Castiglione, somiglia piuttosto agli autoritratti di Rembrandt: “Altri modellano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento un esemplare molto malformato e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è. Ma ormai è fatto. I tratti della mia pittura sono sempre fedeli, anche se cambiano e variano. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, sia per oscillazione generale che per oscillazione propria. Anche la costanza è solo un’oscillazione più debole. Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante (…) Non descrivo l’essere. Racconto il passaggio: non il passaggio da un’epoca a un’altra, ma da un giorno all’altro, di minuto in minuto (…) Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi deciderei. Invece è sempre in tirocinio e in prova (…) Tutta la filosofia morale si applica altrettanto bene a una vita comune e privata che a una vita di stoffa più ricca. Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione” (Libro III, capitolo 2).

Dato il suo oggetto, dato il suo metodo e stile, Montaigne propone due cose che in termini di filosofia possiamo chiamare: a) una gnoseologia scettica che dubita continuamente di certezze e conoscenze raggiunte; e b) un’ontologia pluralistica che isola individui, circostanze e casi, evitando di definire concettualmente entità generali. Invece di cercare di afferrare l’essere al di là delle apparenze mutevoli, segue il mutamento, il divenire, la sola cosa di cui umanamente si può fare esperienza. Prima di David Hume e di Giacomo Leopardi, contro l’ontologia novecentesca restaurata dalla scuola di Heidegger, quello di Montaigne è un pensiero antimetafisico che evita la conoscenza dei “principi primi” come non umana. Supermentale, più che mentale.

In una vita sociale e politica che si costruisce, si tiene insieme e opera dividendosi in feroci e permanenti conflitti fondati su convinzioni dogmatiche, Montaigne si tira indietro, si allontana. Vede sfumature dove altri impugnano fedi. Vivendo in una Francia devastata dallo scontro fra Lega cattolica e Ugonotti, questo benestante signore altoborghese sceglie di dedicarsi alla lettura e a un suo particolare genere di filosofia autobiografica.

L’idea della morte lo assillava e non senza ragione. Nel 1563, quando aveva trent’anni, era morto di peste il suo migliore amico Etienne de la Boétie. Cinque anni dopo morì suo padre. L’anno successivo il suo fratello minore fu vittima di un mortale incidente sportivo. Il suo primo figlio morì a due anni. In seguito, dei suoi cinque figli ne sopravvisse uno. La Francia pullulava di banditi, tra una guerra civile e un’altra. Lui stesso ebbe un grave incidente andando a cavallo e fu per qualche ora in pericolo di vita. Nel corso degli anni passerà dall’idea del filosofare come un “imparare a morire” a una diversa saggezza: “non preoccuparsi della morte”, ci penserà la natura a fare tutto.

Possiamo forse dire che nell’opera di Montaigne troviamo la meno astrattamente ambiziosa, la più liberale, la più democratica, moderatamente anarchica, realista e socievole delle filosofie. I suoi Saggi si concludono con queste parole: “E’ una perfezione assoluta, quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere (…) abbiamo un bel montare sui trampoli, anche sui trampoli dobbiamo camminare sulle nostre gambe. E sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo. Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al comune modello umano, con ordine: ma senza eccezionalità e senza stravaganza”.

Il primo dei moderni avrebbe condannato grande parte della futura modernità.


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