CRAXI, IL PROFESSOR VERENI E LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE. NOTE A MARGINE DI UN’INTERROGAZIONE PARLAMENTARE DI RENZI, NENCINI E FARAONE.
di Federico Bonadonna
È appena uscito il libro di Filippo Facci 30 aprile 1993. Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica, sulla durissima contestazione (conclusa con lancio di monetine) contro il leader socialista davanti all’Hotel Raphaël, allora quartier generale del segretario. In quel libro c’è anche un documento che Piero Vereni, docente di antropologia culturale a Tor Vergata, scrisse nel 2003, dunque 10 anni dopo i fatti, in cui rivendicava l’aggressione contro il “Cinghialone”, com’era soprannominato Bettino.
La prima settimana di maggio 2021, dunque quasi 30 anni dopo i fatti del Raphaël, i senatori Matteo Renzi, Nencini e Faraone hanno presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Università Maria Cristina Messa in cui descrivono quella del Raphaël come “una delle scene più cruente della storia della Repubblica che segnò simbolicamente la fine di Bettino Craxi”.
A me, quando penso alle scene cruente della storia repubblicana, vengono in mente una serie di immagini sovrapposte grondanti sangue. Mi viene in mente Portella della Ginestra, Piazza Fontana, la strage di Bologna, lo scheletro del DC-9 a Ustica e i cadaveri che galleggiano in mare. Oppure i corpi della scorta di Moro e il cadavere dello stesso esponente democristiano nella Renault 4. Mi viene in mente il cratere nell’asfalto di Capaci dopo il tritolo di Riina che dilaniò Falcone, Francesca Morvillo e la scorta. Oppure il palazzo sventrato dalle bombe di via D’Amelio in cui morirono Borsellino e cinque agenti. O anche i corpi martoriati, coperti dalla lunghissima scia di sangue lasciata dalle vittime della mafia: il corpo del generale Dalla Chiesa e di sua moglie crivellati nella loro A112, quello di Rosario Livatino o di Ninni Cassarà che spira tra le braccia della moglie Laura sulle scale di casa dopo essere stato colpito a morte, quello di Pio La Torre, di Rocco Chinnici, di Peppino Impastato. Mi viene in mente la foto di Letizia Battaglia che ritrae Sergio Mattarella che estrae dall’auto il corpo esanime del fratello Piersanti anch’egli trucidato dalla mafia. Mi vengono in mente Giorgiana Masi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e il corpo martoriato di Stefano Cucchi esibito in fotografia dalla sorella, per disperazione, davanti al tribunale di Roma, per cercare di avere giustizia. Mi vengono in mente i volti stravolti dei pazzi legati ai letti nei manicomi e poi liberati da Basaglia; il sangue invisibile di quelle migliaia di morti sul lavoro all’anno coperti da una coltre di retorica e indifferenza. Cioè, quando penso alle scene più cruente della storia della Repubblica non penso certo alle monetine del Raphaël.
Nella loro interrogazione, Renzi e compagni, ricordano che il professor Vereni ha rivendicato il gesto così: “urlavo anche io a Craxi di andare a farsi fottere e che era finita per sempre con il troiaio che si era costruito intorno […] abbiamo fatto bene, dovevamo fare quel che abbiamo fatto, le monetine sono state evidentemente troppo poche, e gli insulti pure. Dovevamo fare di più […] Quella sera, per parlare spiccio, stavamo facendo fuori il re, e in questo non c’è nulla di male o di sbagliato. Ma vorrei andare oltre e mi chiedo: cosa sarebbe successo se ci fossimo veramente impossessati del corpo di Bettino? Se lo avessimo fatto a pezzi sul serio, se l’avessimo magari mangiato a brani (era grande e grosso, ce n’era per tutti)?”.
Nell’interrogazione parlamentare Renzi, Nencini e Faraone chiedono se il Ministro ravveda “l’opportunità morale di mantenere un soggetto, visibilmente facinoroso e dal comportamento socialmente pericoloso, all’interno dell’Ateneo in una posizione di responsabilità educativa tale da pregiudicare l’orientamento degli studenti per la sua conclamata inclinazione violenta e per la sua condotta personale della quale non se ne è colto il pentimento, tranne nel momento nel quale i suoi scritti sono tornati alla luce dopo la pubblicazione di un libro che riepiloga gli incresciosi fatti dell’epoca”.
Prima di passare a dire quello che penso sull’argomento, aggiungo che il tema del libro di Facci sulla contestazione al Raphaël, in rete, è presentato come “il momento in cui l’Italia cessò di credere nella democrazia dei partiti e il linciaggio divenne un atto di estetica rivoluzionaria”.
Ecco, il linciaggio, io partirei da qui.
Quella sera Craxi non è stato linciato, è stato duramente contestato. La folla lo desiderava morto ed evidentemente anche il professor Vereni lo voleva morto, ma nessuno ha toccato il capo dei socialisti italiani. È stata una contestazione violenta, è vero, ma non è stato un linciaggio. E non è stata nemmeno la scena più cruenta della storia repubblicana (magari, in Italia, avessimo visto solo questo). Io, in Etiopia, ho assistito a un linciaggio vero, per dire. Un gruppo di maschi tigrini inseguì un oromo accusato di aver gettato il malocchio su una famiglia. Quando lo presero, lo pestarono a sangue, letteralmente. Poi gli strinsero un cappio intorno al collo, legarono la cima a un palo e appesero il corpo a brandelli. Per dire. La polizia intervenne dopo, giusto per evitare l’esibizione eccessiva di quello scempio. Quello è un linciaggio.
Se invece parliamo in senso figurato, di linciaggio metaforico, allora mi chiedo: che cos’è questo tentativo di mettere in discussione la moralità (sic!) di un professore partendo da un suo scritto in cui non si incita alla violenza (i fatti sono di dieci anni prima, difficile sostenere che si possa incitare qualcuno retroattivamente)? Che cos’è questo, se non una forma di linciaggio morale perpetrato dai senatori di Italia Viva e dal segretario del nuovo partito socialista?
I socialisti che ho conosciuto io non erano deboli coi forti, forti coi deboli, come diceva il compagno Nenni. I socialisti avevano una vena libertaria. Sì, è vero che Craxi parlò di “rogo” commentando i fatti del Raphaël. Ed è vero anche che l’indignazione fu fomentata dai dirigenti dell’ex partito comunista appena trasformato in PDS. Ma la rabbia popolare era reale. E questo tema manca completamente nell’interrogazione. Un’interrogazione che si fonda, invece, sulla valutazione della moralità di un professore universitario che si è limitato a scrivere come la pensava a quei tempi e che, dopo 30 anni, diventa un’aggressione di forti (i senatori Renzi, Nencini, Faraone) contro un debole, il professore associato Piero Vereni descritto nell’interrogazione come un violento. Ora, va bene che siamo in una fase di edulcorazione della realtà che prevede la rimozione della violenza dal nostro orizzonte (Odiare l’odio, il titolo di un libretto di Veltroni a cui l’interrogazione sembra ispirarsi), ma qui si confonde la parola con il gesto, il pensiero con l’azione, la fantasia con l’esame di realtà. Vereni non è un violento, non è un uomo dal “comportamento socialmente pericoloso”, non è un “facinoroso” come si sostiene nell’interrogazione, almeno fino a prova contraria (la presunzione di non colpevolezza è, o dovrebbe essere, il principio cardine di ogni socialista che è ontologicamente garantista). Vereni – che è un antropologo – fa, o meglio ha fatto, nel 1993 e poi nel 2003, pensieri violenti in cui ha ipotizzato un atto di cannibalismo per impedire che le spore dell’odiato nemico potessero diffondersi. Non è andata così, le spore del craxismo si sono diffuse eccome, ma questo è un altro discorso.
Nell’aggressione al Raphaël ci fu, è vero, una novità che rappresentò uno spartiacque, perché quella fu la prima volta a essere preso di mira non un leader o una linea politica, ma una persona. Ma questo accadde perché Craxi fu davvero un innovatore, poiché fu il primo che personalizzò, incarnandola, la politica. Non che nel PCI non ci fosse il culto del capo, da Togliatti a Berlinguer, ma dietro ai leader comunisti c’era un grande partito di massa. Alle spalle di Craxi c’era, invece, il primo partito agile, piccolo, “leggero” (come una delle proposte di Calvino per il nuovo millennio delle Lezioni americane) e non solo dal punto di vista delle percentuali di voto. Craxi plasma il partito a sua immagine: ottimista, decisionista e in linea con gli edonisti anni ’80, rampante. È vero quindi che dal Raphaël in poi l’attacco politico diventa, allo stesso tempo, personale, ma da Craxi in avanti la politica si personalizza. È in questo senso che l’attacco a Craxi diventa l’attacco al Sovrano di cui parla Vereni nel suo testo del 2003.
Mi fa tristezza che i socialisti del terzo millennio, rappresentati qui da Renzi, Nencini e Farone, si inseriscano nella scia attuale autoritaria volta a limitare la libertà di espressione, di opinione e in alcuni casi, paradossalmente, di pensiero come fossimo in un romanzo distopico di Philip Dick. Da questo punto di vista, quella di Renzi, Nencini e Faraone somiglia più a una vendetta simbolica o a un’intimidazione che arriva fino a ipotizzare di togliere la cattedra a un professore. Questa ritorsione contro un docente universitario che esprime il proprio pensiero (che nel frattempo, magari, è persino cambiato visto che sono passati quasi 30 anni), si inserisce nell’attuale tendenza politico-culturale che definiremo “democrazia autoritaria”, volta a reprimere il dissenso, a edulcorare il linguaggio, il confronto, la storia e la memoria da ogni elemento impuro, conflittuale, violento, o che possa apparire rozzo, sporco, sbagliato. Una tendenza pericolosa, dispotica, tesa a imporre per legge e per interventi sanzionatori dello Stato un nuovo, rigidissimo, ordine pubblico e privato attraverso un panpenalismo “progressista” e “buono” che ben si incontra con la destra tradizionalmente “legge e ordine”.
C’ero anch’io davanti al Raphaël quella sera. Avevo 26 anni e, fino a poco prima, avevo lavorato come creativo in un’agenzia di comunicazione di proprietà di un tipo vicino al PSI, un mezzo arrampicatore che aveva sposato una donna molto più anziana di lui, ricca e potente, che lo umiliava platealmente. Ero pagato bene e in nero. Giravano un sacco di soldi, in quel periodo. Nei miei cinque anni da pubblicitario avevo messo da parte una bella somma. In banca nessuno chiedeva conto del contante depositato. C’ero anch’io davanti all’Hotel Raphaël, tra la folla che urlava: “Vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste?” e poi lanciava monetine contro Craxi che usciva dall’albergo, ma che io non potevo vedere perché ero molto indietro. C’ero anch’io ed ero inferocito, desideravo la sua morte, ma allo stesso tempo ero disgustato dalla folla. Ricordo che strinsi una moneta in tasca, tirai fuori la mano, ma poi non feci niente perché il disagio, il pudore, il super-io forse, ebbero la meglio. Non riuscii nemmeno a inveire, tanto ero combattuto tra me e me, tra l’odio verso il “mostro” e il disprezzo verso la massa che in quel momento diventava potere.
Così mi girai e me ne andai. Ricordo bene lo sciame alle mie spalle. Craxi, che fino a quel momento era il carnefice, diventò, per me, anche la vittima. E dico anche, perché non lo capii subito che era una vittima. Anzi. Tornato a casa aggredii verbalmente mio padre, che aveva appena aderito a Rifondazione Comunista: un loro parlamentare, Giovanni Russo Spena, il giorno prima aveva votato contro l’autorizzazione a procedere richiesta nei confronti di Craxi. La rabbia inespressa al Raphaël, si riversava ora contro mio padre che mi spiegò, con pacatezza, che il partito aveva dato un’indicazione diversa, ma i parlamentari non hanno vincolo di mandato, e che Russo Spena, “che oltretutto è un giurista”, aveva aggiunto mio padre, “aveva seguito la sua coscienza”. Tra mio padre, i comunisti, Craxi e la folla inferocita, non sapevo chi odiare di più. Così, per un po’ di tempo, una parte di me desiderò ancora vedere Craxi appeso a testa in giù come Mussolini a piazzale Loreto. Ma l’altra parte, lo sentivo, stava prendendo il sopravvento. Iniziai a seguire i suoi discorsi, prima in Parlamento e poi nei processi. Non so perché ho questa passione per le vittime, in particolare per i potenti che cadono nella polvere, ma sviluppai una specie di simpatia per l’uomo. Le sue pause, che prima mi innervosivano, ora le trovavo dense e significative; il suo diastema, sensuale; il suo eloquio, avvolgente. Smussato l’odio verso Craxi, ho potuto rivalutare, liberamente, il fatto che finanziava la resistenza palestinese e quella cilena e che nell’ottobre del 1973 aveva portato un fiore sulla tomba di Salvador Allende; che riteneva piazzale Loreto una barbarie; che, unico insieme a Pannella, aveva provato la linea della trattativa nell’affaire Moro. E che era un uomo coraggioso e un politico spregiudicato; che aveva anche coltivato, tra l’altro, un’idea di Paese romantica, pur essendo indiscutibilmente responsabile di una concezione del potere e della gestione dei beni pubblici deleteria che ha contributo a far nascere l’ostilità popolare contro la politica e le pubbliche istituzioni.
Dall’idea che mi sono fatto di Craxi, lui, questa interrogazione di Renzi e sodali, l’avrebbe trovata impolitica, prepotente e meschina.
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