Maurizio Ferraris è professore associato di filosofia teoretica all'Università di Torino. Il libro (vedi copertina sopra) pubblicato l'anno scorso con l'editore Laterza pone problemi reali. L'autore è acuto e intelligente anche se troppo arrogante e indisponente per i miei gusti (l'ho ascoltato con fastidio l'altro giorno a radiotre).
Il suo libro va comunque letto attentamente e discusso. Ripropongo di seguito il testo integrale della sua Prefazione al libro. (fv)
Anassagora non sembra avere esitazioni: l’umano è più intelligente degli altri animali per via della mano, che gli consente delle manipolazioni pratiche e di qui, con un processo che può durare millenni, lo sviluppo dell’intelligenza. In questo senso, la definizione dell’umano in Anassagora suonerebbe come: l’umano è l’animale dotato di mano. L’umanesimo sarebbe un manesimo, un poter manipolare, e disporre di maniglie, manici, mazze, missili, e ovviamente anche di monete, manuali, moleskine, e cellulari, che – con un anglismo molto espressivo – in Germania si chiamano “Handy”.
2Aristotele, come sappiamo, non condivide la prospettiva di Anassagora, e non stupisce, dal momento che per lui l’umano è l’animale dotato di linguaggio, e che ama stare in società. Proprio per questo, prosegue Aristotele, è più intelligente degli altri animali, ed è come una conseguenza e non come una causa che riceve, diversamente dagli altri animali, la mano.
3La presa di posizione di Aristotele ci pone di fronte a una cerimonia implausibile e favolosa, quella del conferimento della mano. Gli animali sono schierati, ognuno con le sue cartatteristiche e con le sue abilità, e l’uomo con la sua socievolezza (che al momento non può esprimersi né con strette di mano né con pacche sulla schiena) e con il suo linguaggio che gli è venuto dal cielo insieme alla sua intelligenza mostruosa. Il Dio li passa in rassegna, e, compiaciuto dell’intelligenza dell’umano, lo premia con una mano, anzi, con due.
4Ci sono ottime ragioni per pensare che non sia andata così, e che Anassagora avesse ragione. Perché la visione di Aristotele suppone un momento esatto in cui l’umano avrebbe ricevuto il linguaggio, qualcosa come una Pentecoste che discende dal cielo, e in cui ha deciso di mettersi in società per semplificarsi la vita (non è detto) e porre fine alla guerra di tutti contro tutti (non è detto nemmeno quello).
5Sono visioni ingenue e mitologiche, ma che vengono condivise anche dai nostri contemporanei che parlano senza difficoltà di “istinto del linguaggio” e di “intenzionalità collettiva”. Il primo ci permetterebbe di parlare, proprio come per i frenologi il binocolo dell’aritmetica ci permetteva di contare. La seconda sarebbe alla base del sistema di accordi e di imposizioni di funzioni da cui nasce il mondo sociale.
6Ma, banalmente, se gli umani non fossero stati in grado di accendere un fuoco, il che richiede certe abilità con le mani, sarebbero mai riusciti a formare quel primo nucleo in cui, passandosi cibi (manipolati), spulciandosi a vicenda (con le mani), abbracciandosi e accoppiandosi hanno avuto inizio le prime comunità? Queste erano ancora in tutto e per tutto simili a quelle del nostro passato animale, la sola differenza era la capacità di accendere il fuoco, che dipendeva dalle peculiari conformazioni delle nostre mani.
7Il fuoco e il raccogliersi intorno a esso provocheranno altri sviluppi legati alla mano. Armi per colpire, attrezzi per tessere e per coltivare, e soprattutto pratiche di fabbricazione che archiviavano in se stesse i processi che le avevano costituite, dando luogo a tradizioni plurimillenarie (si pensi all’evoluzione dei manufatti di pietra scheggiata), e di qui alla nozione di tradizione e di storia, che si è manifestata anzitutto con delle rappresentazioni (dipinti, cippi e statue che evocavano eventi) e poi si è sviluppata in concetti, ed è diventata cultura, un termine che tuttavia, non dimentichiamolo, trae la propria origine dalla coltivazione, dalla manipolazione tecnica della natura.
8È a questo punto che l’umano si è trovato a possedere un linguaggio e una società. Quest’ultima nasce dalla condivisione di uno spazio protetto di condivisione di beni, tanto è vero che qualunque venir meno della condivisione e della protezione (la politica ce ne dà prove infinite) genera un crollo della solidarietà sociale, sino alla rottura del patto e dichiarazione secondo cui la società non esiste, ma esistono solo gli individui. E il linguaggio si sviluppa dopo il gesto, e dopo la scrittura e la manipolazione, nelle condizioni rese possibile dall’una e dall’altra: è un risultato e non un presupposto. Nel momento in cui le mani dell’umano sono impicciate da apparati tecnici, non potrà più servirsene per esprimersi, e incomincerà a parlare, in un processo che dura centinaia di migliaia di anni e nel quale, facciamoci caso, i primi nomi indicano degli attrezzi, così come i primi cognomi delle professioni legati alla manipolazione: ferrari, calzolari, mugnai, sarti.
9Non c’è nulla dentro l’animale umano che lo renda diverso dagli animali non umani. È tutto fuori. Nella mano che permette l’attrezzo, capitalizzando la forza (un bastone moltiplica il braccio) la memoria (un bastone è buono per annotare i giorni che passano facendone un calendario) la società (su due bastoni, uno del debitore e uno del creditore, se li si pone accanto, facendo una tacca per ogni transazione, si può creare una contabilità efficiente). E nel capitale ottenuto attraverso la registrazione che si trasforma in accumulo della cultura, della ricchezza, delle risorse, che permettono l’emergere di quella caratteristica soltanto umana, perché nasce da una sovrabbondanza di risorse, che è il progetto.
10Pensare la tecnica e il progetto non significa (come qualcuno ha pensato anni fa) mettere qualche nastro colorato e qualche citazione appropriata intorno alle pratiche tecnologiche e architettoniche. Non significa dire, evocando lo spettro di Heidegger che cita Hölderlin, “poeticamente abita l’uomo”, e buona notte. Significa riconoscere che in questo “poeticamente” c’è il poiein, il fare, l’opera della mano e del progetto. E che dunque non c’è nulla di più istruttivo, per una rivista che tratta, tra le molte cose, di poiesis, concentrarsi su quella forma paradigmatica di poiesis che è il progetto.
PER CITARE QUESTO ARTICOLO
Notizia bibliografica
Maurizio Ferraris, «Prefazione. Documanità», Rivista di estetica, 71 | 2019, 3-5.
Notizia bibliografica digitale
Maurizio Ferraris, «Prefazione. Documanità», Rivista di estetica [Online], 71 | 2019, online dal 01 mars 2020, consultato il 06 mai 2021. URL: http://journals.openedition.org/estetica/5439; DOI: https://doi.org/10.4000/estetica.5439
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