11 maggio 2021

LA TERSA MORTE DEL POETA MARIO BENEDETTI

 



LA MORTE TERSA DELLE PAROLE

La vita di Mario Benedetti sembra riassumersi, per un gioco linguistico, nelle sue parole. Quelle parole che oggi sembrano non esserci più. Del resto, quante parole non ci sono più (?), si era chiesto in Tersa Morte prendendone forse solo coscienza.

Vi è una fragilità di fondo nella poesia di Benedetti che non appartiene alla sua figura, ma che attraversa, e talvolta piega, le parole del poeta. La sua poesia piange, perché piange per prima la sua parola (E piange la parola che riesce a dire), e piange perché coglie gli aspetti reali della vita che riesce, in un ultimo fiato, persino a raccontare. E non è lo spettro di un pianto edonistico a gettare lacrime sulla terra, ma piuttosto la coscienza viva, e spesso assurda, del tempo. Un tempo in cui Benedetti percepisce un’afasia per cui non c’è più possibilità di fingersi e toccarsi nella morte della parola (io nel pensier mi fingo) per riscontrarne un piacere o per provare a sopravvivere, attraverso un rapporto che forse è persino umano; ma vi è invece e soltanto, senza alcuna certezza e senza pensieri, il tempo per fingere se stessi, per nascondersi agli altri, e solo poi toccare e avvertire ciò che è l’effetto (e solo l’effetto) della morte di quella e quell’altra parola.

Le parole si sono perdute in un’atonia monocromatica che Benedetti ricerca continuamente nei colori, quasi fosse Rimbaud o un pittore di fine Settecento, cui pur essendo conveniente ritornare sul nero e avvertire lo Spleen, per un’ostinazione profonda, rilancia le proprie Vocali.

Così non c’è modo per scappare da questo tempo se non dopo averne preso coscienza, ritrovando una propria dimensione, che forse in Benedetti è una dimensione antica. Perché, Benedetti, delle parole (e del senso?) aveva colto la drammatica mancanza che questa epoca e forse soltanto questa società, si trova ogni giorno a vivere.

Forse ne sono rimaste poche, di parole, e questo è certamente vero, ma quante di queste, verrebbe da chiederci, sono parole autentiche o ancora meglio: sono autentiche parole?

Certo, Benedetti, per descrivere e prima ancora per rappresentare il tempo, avrebbe usato l’oscurità bituminosa dei sogni di Goya, ma in quelle parole evocanti Pitture nere su carta avrebbe forse ritrovato soltanto una parte del sogno di Goya, quel sogno che Baudelaire, con tanta verità, dice essere un incubo di cose sconosciute. Perché mentre nell’oscuro, orrido, fondale di verità del pittore di Fuendetodos vi è l’emergere di una follia – la stessa che abolisce l’uomo e il mondo per Foucault – c’è da dire invece che permane in Benedetti, forse ancora più tragico, lo specchio della razionalità.

Eppure, anche senza follia, in quell’oscurità tanto ricercata, vaga e infinita, è possibile cogliere per Benedetti – come pure per Goya – la pochezza delle parole, lo svolgersi di un incubo e, infine, la mancanza della notte.

Del resto, è vero, siamo in un’epoca senza sogni né parole, e in un certo senso siamo nel nero di Goya, nell’Incubo Notturno di Füssli e allora, forse solo per questo, possiamo dirci nel tempo della follia.

Così in quella notte, in quell’oscurità, Benedetti non solo avverte il disperdersi (?) delle parole, ma forse, ancora prima, ancora più oscena, avverte la mancanza della notte e dunque l’emergere del dolcissimo nulla.

Quante volte vediamo ricorrere proprio nelle sue Pitture nere la parola nulla, e quante volte sembra che questa parola comporti un lacrimare (Lacrime), un ferimento delle sue lettere che divengono, pian piano, sempre più grigie, opache, e infine si perdono, lasciando gli uomini senza più viso.

Benedetti cercava la gente (Trovarsi è molto bello) che aveva smarrito le parole, che si era trovata gettata in una vita inautentica; in questo, Benedetti aveva compreso la forza pericolante dei silenzi, o delle parole fuori luogo, in-sensate e del resto diffuse e ancora più, confuse.

Cercava allora la sua gente rigorosa ma non per questo ambiva alla precisione; perché troppo spesso precisione è inautenticità o ancora meglio automaticità.

Per quella sua ricerca, del resto da ripensare, non c’era un Tempo, ma c’era tempo. Il tempo in cui le porte sapevano restare aperte e restituire nelle parole il proprio equilibrio fraterno.

Godiamoci allora la poesia nera – e mai oscura –  di Benedetti, perché siamo ancora in tempo per conseguire e cominciare da nuovo, magari ripartendo dalle stesse parole! Ricordando che dietro e davanti e persino oltre (ma dov’è l’oltre?) non c’è più niente da dire.

Articolo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/

 

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