21 maggio 2021

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO

 


QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO: INTERVISTA A BENJAMÍN LABATUT

©fotografia di Juana Gómez

di Francesca Pellas

La matematica, la fisica, la geometria sono discipline fatte di logica, di rigore, della più pura razionalità. Così siamo abituati a pensare noi che le vediamo da fuori. Chi le vede — chi le vive — da dentro prova invece a farci arrivare un messaggio diverso, a lanciare un segnale sonoro da quel sottomarino aeronautico che è il grande mondo dei numeri. E il messaggio è che per entrarci, nel mondo dei numeri, c’è bisogno di un’unica cosa, purché in dosi eccezionali: una potente immaginazione. Di più: per andare verso l’ignoto serve una devozione, una passione che possegga le menti. “Fare matematica è come fare l’amore”, diceva Alexander Grothendieck, il matematico apolide che rivoluzionò il modo di intendere lo spazio e la geometria, e che prima di ritirarsi a vivere da eremita in un villaggio della Francia aveva sedotto uomini e donne per molti anni, facendo l’amore con tutti.

Un professore californiano, sentendolo parlare a una conferenza, aveva commentato: “La mia prima impressione fu che fosse stato trasportato sul nostro pianeta da una civiltà aliena di un sistema solare lontano, per accelerare la nostra vita intellettuale”.

Il punto culminante delle ricerche di Grothendieck è un concetto che lui chiamava “il cuore del cuore”, un’entità situata al centro dell’universo matematico della quale ci arrivano solo riflessi lontani. La sua è una delle vite di grandi matematici e fisici raccontate dallo scrittore cileno Benjamín Labatut in un libro a metà tra saggio e romanzo che s’intitola Quando abbiamo smesso di capire il mondo, pubblicato da Adelphi nella traduzione di Lisa Topi. Un oggetto narrativo enormemente affascinante, che si legge conquistati, come se si avesse tra le mani il più avvincente degli intrighi, e che getta luce sulle storie e gli studi — e i metodi d’indagine da posseduti — di alcune delle menti più rivoluzionarie d’Europa (con un’incursione in Giappone): Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger, Werner Heisenberg, Louis de Broglie, Shinichi Mochizuki e altri alieni lanciati su questo pianeta dallo spazio, o da chissà quale universo, per dirci che passato, presente e futuro rimarranno sempre al di là di ogni comprensione, a meno di non tirarsi fuori l’anima dal corpo e gettarla oltre il reale, verso una visione.

Labatut stesso è quanto di più lontano ci si possa aspettare quando si pensa all’autore di un libro del genere: quarantenne, capelli al vento, tatuatissimo, vive tra Santiago e un piccolo paese nelle montagne del sud del Cile con la moglie artista e la figlia piccola. L’ho raggiunto per provare a indagare insieme alcune di quelle menti, e dove possibile la sua.

Hai raccontato che la spinta a scrivere questo libro è arrivata dopo una crisi vissuta poco prima di compiere trent’anni, un periodo in cui avevi fatto esperienze estreme, “scelte molto stupide”, e “giocato” con la tua mente più di quanto avresti dovuto. C’è la possibilità che tu sia disposto a dire qualcosa di più, e di come quel momento abbia contribuito a farti diventare lo scrittore che sei?

Non è saggio parlare troppo di queste cose. Dovrebbero rimanere “tesori” personali, soprattutto per la difficoltà che si ha a metterli in parole. Basta dire che sono venuto meno al buon senso, e così facendo ho acquisito consapevolezza di una serie di abitudini e circuiti mentali che abbiamo tutti, e che diamo per scontati. Ed è stato molto doloroso. Sono cose che stanno nel “dietro le quinte” della nostra mente, “programmi” che ci permettono di vivere normalmente, in pace e tranquillità, nella versione di mondo che abbiamo creato per noi stessi. Chi pratica il buddismo capirà cosa intendo: è una decostruzione degli schemi mentali, che mette a nudo il terreno in cui si formano. Se uno danneggia questi meccanismi automatici, farà esperienza di una profonda bizzarria, che può essere allo stesso tempo splendida e terrificante. Sono felice di essere stato abbastanza pazzo da infliggermi una cosa simile: mi ha cambiato in maniera profonda, e mi ha aiutato a diventare la persona e lo scrittore che sono oggi. Sono però anche molto grato di non aver dovuto pagare un prezzo troppo alto. Non ho perso la testa, ma ho guadagnato una certa sensibilità verso alcune idee lontane a molte persone. Ad esempio il vuoto e il sunyata: la vacuità o vuoto gravido, come lo teorizzò Nagarjuna, e che prima di allora mi sembrava inconcepibile. Sicuramente è stato il momento più significativo della mia vita adulta, ma adesso, a dieci anni di distanza, è solo un ricordo lontano a cui non vorrei mai fare ritorno.

Da molto tempo in Occidente, specie in Europa, abbiamo perso contatto con tutto ciò che non è puramente razionale. Come se ogni cosa potesse essere ridotta a un unico livello, quello logico. Invece mi sembra che in molte altre culture — in Sud America, e in quel mondo dentro al mondo che è lo sterminato continente asiatico — non sia così: che anzi sia viva, rispettata e nutrita la possibilità che esistano altri piani del reale. Ci penso spesso, e ci pensavo leggendo il tuo capitolo sulla conferenza di Solvay del 1927, quando racconti delle enormi difficoltà che incontrarono Bohr e Heisenberg nello spiegare agli altri scienziati presenti che “semplicemente, là fuori non esisteva un ‘mondo reale’ che la scienza potesse studiare”. Forse abbiamo smesso di capire il mondo nel momento in cui abbiamo smesso di credere alla magia?

Be’, devo dissentire: sono un praticante della cosiddetta “magia del caos”, una forma di magia rituale (nata in Inghilterra, ndr) che fa parte della tradizione dell’occultismo occidentale. Questo fa da necessario contrappunto agli altri miei interessi, più razionali. L’Europa ha una meravigliosa e secolare tradizione dell’occulto, che ha vissuto una rinascita molto interessante nella prima metà del XX secolo. Quando si tratta di pensiero magico o di ragione, siamo tutti più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, non penso ci sia una grande differenza tra i continenti e le culture. Esistono modi antichi di concepire e vedere il mondo che coesistono con altri più moderni, assennati e razionali. Sono affascinato dalla magia, ma è un argomento su cui bisogna essere molto cauti, perché è un terreno pericoloso. Io la vedo come una via per esplorare i luoghi che abbiamo dentro; un modo giocoso di mettere da parte la ragione, mantenendo la mente aperta come bambini. Sono convinto che sarebbe un bene per tutti se avessimo una sorta di doppia nazionalità: dobbiamo conoscere e comprendere i paradigmi razionali della scienza, e dobbiamo anche vivere e fare esperienza (non solo con la mente, ma con il corpo) delle meraviglie dell’irrazionale, delle profondità dell’inconscio, dei paesaggi onirici della coscienza alterata.

Il problema, per come la vedo io, è che le persone con una mente scientifica e razionale non riescono ad aprirsi a modalità di pensiero disorganizzate e a prospettive caotiche, afferenti alla magia. Ma quello che c’è all’estremo opposto — religiosi accaniti, astrologi sempliciotti, squinternati con una passione per le teorie cospirazioniste — può essere molto peggio. Come ha detto una volta Robert Anton Wilson, che è uno dei miei miti, una persona che adoro e verso cui ho un debito enorme: “Se ti addentri nel regno della magia senza la spada della ragione, perderai la testa; allo stesso tempo, se porti con te solo la spada, senza il calice della compassione, perderai il cuore. Ma soprattutto, se entrerai senza la bacchetta dell’intuito, potresti rimanere in piedi sulla soglia per decenni, senza renderti conto di essere arrivato”. Penso che la magia sia più che mai viva, semplicemente oggi chiamiamo le cose con nomi diversi: arte e scienza.

Nel libro scrivi che Karl Schwarzschild era cresciuto con l’ossessione per la luce. E la luce, nelle parole di Louis de Broglie, rappresenta l’oggetto più prezioso della fisica. La tua ossessione da piccolo qual era?

Ho un’ossessione faustiana per l’assoluto, un desiderio di comprenderlo, una brama quasi oscena di avvicinarmici. Mi imbarazza confessarlo, ma la verità è che da piccolo volevo sapere tutto di ogni cosa. Giungere alla semplice e ovvia verità che non era possibile è stato uno choc enorme, e accettarlo mi è costato molta fatica. Questo la dice lunga sulla mia megalomania, ma spiega anche perché sono così attratto da personaggi come Alexander Grothendieck, che si avventurò per quella strada in senso totale. Mi rendo conto che non dovrei essere così aperto a raccontare queste cose: dagli scrittori ci si aspetta che siano ironici, distaccati, scettici e per nulla spirituali. E a dire il vero io sono anche tutte quelle cose, se non altro perché la letteratura è un magnifico antidoto contro ogni dogmatismo: se è buona letteratura, mostra le cose nella loro complessità, nella loro meraviglia e nelle loro contraddizioni, e l’immagine del mondo che ne esce non può essere ridotta ad alcun tipo di sistema. La gioia e la ricchezza della letteratura stanno in questo, ovvero nel suo essere priva di ciò che abbonda altrove: certezze, metodo, confini che separano ciò che è vero da ciò che è falso. Naturalmente ho abbandonato le mie fantasie infantili, eppure conservo alcune di quelle illusioni e continuo a essere affascinato dal mistero. Come ha detto Michael Faraday: niente è troppo bello per essere vero.

Gli scienziati che hai scelto di raccontare hanno in comune due cose.
1) Un’ossessione, di nuovo. L’amore per ciò che studiano è così intenso che spesso non li fa mangiare, non li fa dormire, e li fa precipitare in uno stato emotivo tormentato da cui capita che emergano con una scoperta, come se tornassero da un viaggio psichedelico all’interno della loro mente, o in qualche tasca segreta della conoscenza.
2) La capacità di disancorare la loro immaginazione, diventando così liberi di navigare l’ignoto. Tendiamo a immaginare la matematica e la fisica come qualcosa di razionale e metodico: invece qui appaiono vaste e piene di poesia, l’opposto della razionalità.

Per dare una risposta breve: la matematica e la fisica sono piene di bellezza e di poesia, e hanno anche un legame profondo con quegli aspetti del mondo che per loro natura sembrano sfidare o espandere i limiti della ragione. Pensa ai teoremi di incompletezza di Gödel. Pensa alle regioni rarefatte dello spazio-tempo create da un buco nero. L’unica ragione per cui la maggior parte della gente (me compreso, ammetto) non percepisce subito la meraviglia e la poesia della fisica e della matematica è che la loro bellezza si esprime in una lingua magnifica, a cui però non abbiamo accesso. Siamo analfabeti, nel vero senso della parola: non riusciamo ad accedere al suo significato. Io so che c’è, perché credo alle persone che riescono a vederlo e le ho ascoltate, e cerco semplicemente di seguirne le orme, di mettere qualcosa di tutto ciò in parole, ben sapendo che si tratta di un compito quasi impossibile.

Yuichiro Yamashita, uno dei pochi matematici al mondo a dire di aver compreso la teoria inter-universale di Teichmüller sviluppata da Shinichi Mochizuki (definita da alcuni studiosi “una teoria proveniente dal futuro”), ha spiegato che, in buona sostanza, Mochizuki “ha dato vita a un intero universo, del quale, al momento, è l’unico abitante”. Come immagini quell’universo?

Ah, va totalmente al di là della mia immaginazione. Ed è proprio il motivo per cui questa storia mi affascina così tanto. Ma è già successo, più e più volte, durante questo lungo purgatorio che è la storia degli eventi in cui ci troviamo immersi: quando l’Europa ha “scoperto” l’America; quando ci siamo resi conto che quei puntini in cielo erano altre galassie al di fuori della nostra, e da lì abbiamo cominciato a scoprire l’inimmaginabile vastità dell’universo fisico; quando abbiamo osservato un atomo da vicino e ci abbiamo trovato dentro una struttura, e un vasto e furibondo vuoto laddove pensavamo non ci fosse nulla… quando gente come Freud e Jung ci ha fatto vedere la nostra mente in modi nuovi. Questa nostra realtà a matrioska, questa complessità che sembra non avere fine, è qualcosa che deve esserci rammentata di continuo, perché fa da necessario contrappunto alla grigia — anche se importante — realtà quotidiana, ovvero il fatto che per vivere dobbiamo mangiare, lavorare, cagare, scopare, abbracciarci, bere e respirare.

A proposito: Grothendieck, diceva che fare matematica è come fare l’amore. E poi diceva anche: “Non è l’ambizione né la smania di potere a spronarmi. È la chiara percezione di qualcosa di grande, di molto reale e molto delicato al tempo stesso”. Da qui si arriva al suo concetto di “motivo”, ovvero “un fascio di luce capace di illuminare tutte le incarnazioni possibili di un oggetto matematico”. Il “cuore del cuore: un’entità situata al centro dell’universo matematico, della quale non ci arrivano che riflessi lontani”. Hai mai pensato: e se questo cuore del cuore fosse Dio? O, almeno, qualcosa di altrettanto sfuggente e fondamentale, come l’amore?

Credo che per molti di noi la parola “dio”, o i concetti associati a questa parola, siano ormai talmente impoveriti che possiamo vedere molto più in là, e più in profondità, se ci limitiamo a ignorare quell’idea. Sono più le cose che nasconde di quelle che mostra. Io stesso ho conosciuto la fede, così come ho provato che cosa succede quando “dio” si allontana da te. Ammetto però che sono contento si sia allontanato, e contento che il mio fervore religioso mi abbia colto quando ero ancora molto giovane, intorno ai 17 anni, così adesso mi sento vaccinato contro la religione: non mi “prenderò” un’altra volta Gesù, o almeno spero. Eppure, malgrado questo, o forse grazie a questo, condivido la stessa sete di conoscenza di Grothendieck, e ho molta nostalgia per ciò che ho perduto. Oggi sono decisamente più libero, e non vorrei mai fare di nuovo esperienza di quella fede cieca (“cieca” è la parola su cui porre l’accento, qui). Non credo in “dio”, ma continuo a cercarlo/cercarla, proprio come continuo a scrivere anche se ho perso fiducia nel valore e nel significato della letteratura; seguito a farlo con la speranza che un giorno, foss’anche solo per una riga o due, o per una sola parola, quelle cose irrimediabilmente perdute si riuniranno un’ultima volta, e io potrò morire in pace. O gridando. Non si può mai sapere.

Niels Bohr, il maestro e mentore di Heisenberg, gli instillò l’idea che quando si parla di atomi il linguaggio si può usare unicamente come poesia. E qualche anno dopo sarà Heisenberg dirà a Bohr che i gli oggetti quantistici non hanno un’identità definita, ma, al contrario, “abitano uno spazio di possibilità”, al centro del quale esiste una sola costante: il puro caso.
Ho avuto l’impressione (correggimi se sbaglio) che tu sia più affezionato a questi modi di approcciarsi alla visione dell’universo, rispetto a quelli che ricercano una “realtà solida e inequivocabile”, come quella che speravano di scoprire Einstein and Schrödinger.

No, sono affezionato a entrambi gli approcci! Il grande insegnamento che ho tratto da Bohr è l’importanza della complementarità. L’idea che abbiamo bisogno di diversi modelli, anche contraddittori, per comprendere la nostra realtà così complessa. Il contrario (o questo o quello, o da una parte o dall’altra) per me non funziona. Capisco che possa essere necessario, e capisco anche che le nostre vite siano governate da questa polarità, ma credo che farebbe bene a tutti mettere in pratica il modo di pensare di Bohr in tutti gli ambiti della vita: nel quotidiano, nelle nostre credenze, nelle nostre imprese intellettuali. Se dovessi creare un decalogo utile all’esistenza, inserirei senz’altro la complementarità di Bohr tra i dieci comandamenti da incidere nella pietra: le visioni opposte ci restituiscono un’immagine del mondo più completa. E, paradossalmente, una di quelle visioni è l’idea che ci dovrebbe essere una solida e inequivocabile realtà.

Tra le teorie e i misteri che, ancora oggi, costituiscono un territorio d’indagine oscuro per la scienza, ce n’è qualcuno che ti affascina in modo particolare?

Sicuramente la coscienza, il mistero più grande che esista. Non credo che la scienza abbia gli strumenti adatti, o anche solo il barlume, il principio di una qualche comprensione, per potersi avventurare in quell’immensità lì. So che molte ricerche si stanno concentrando su questo, eppure mi sembra che la coscienza ci metta di fronte a delle domande che sono destinate a rimanere senza risposta per sempre. Anche l’esperienza psichedelica va al di là delle possibilità di comprensione di cui dispone la scienza in questo momento. Chiunque abbia sperimentato i lampi intensi e strabilianti dati dal DMT sa di che cosa parlo: non riesco nemmeno a immaginare come si potrebbe dare una forma a quella follia. Io ci ho provato, e non ho ancora trovato il modo di scrivere di ciò che è successo a me. Perciò forse è meglio lasciar perdere. Forse dovremmo lasciar riposare in pace quei cani mezzi elfi e mezzi alieni.

Da fan della serie tv Fringe, e da amante di tutto ciò che concerne la teoria del multiverso, non posso non chiederti se hai intenzione prima o poi di scrivere di questo: del multiverso, appunto, o della teoria delle stringhe, o di qualunque cosa si avvicini a quel regno. Tocchi vagamente questi temi nel segmento dedicato a Karl Schwarzschild (nel senso che gli studi che porteranno alla teorizzazione dei buchi neri e delle loro “proprietà” fioriranno proprio dalle sue teorie), così come, da lontano, nella parte dedicata a Heisenberg, ma in questo libro non approfondisci. Ti chiedo perciò se sono temi che ti affascinano, magari per un prossimo libro. Ma se così non fosse, quali sono le altre declinazioni di questo tuo grande amore per la scienza (tu lo definisci ossessione) che avremo il piacere di leggere in futuro?

A livello narrativo non amo il multiverso, o l’idea dei viaggi nel tempo. Ciò che ne viene fuori di solito sono prodotti fatti male, quando non tremendi, a eccezione di un paio di casi eccezionali come Mattatoio 5Il giorno della marmottaRick e Morty. Si può arrivare al multiverso in vari modi: uno è prendere l’equazione di Schrödinger alla lettera, ipotizzando che la gamma di possibilità che descrive siano tutte realizzate. Quest’idea viene da un personaggio molto affascinante: Hugh Everett III, il fisico americano che ha postulato l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica, secondo cui, per dirla in breve, ogni volta che si verifica un evento quantistico, da lì si diramano molteplici “mondi”; ogni possibilità diventa reale. Fu il modo in cui Everett interpretò la stranezza della funzione d’onda, la sua maniera di dire che una particella non sceglie un percorso a caso, ma percorre tutti quelli possibili. La novità di Everett era che nella sua teoria esiste un infinito diramarsi delle realtà. Fu deriso, e le sue idee caddero nel dimenticatoio per decenni. In seguito lavorò per il Pentagono, scegliendo i target dei missili nucleari americani.

Provò a cercare un modo o dei modi per predire il futuro, e questa diventò la sua ossessione. Morì poco dopo che le sue idee erano tornate a galla grazie a una nuova generazione di fisici. Ma non vide mai gli effetti della sua teoria dei molti mondi sulla narrativa, la cultura e la scienza del ventesimo secolo. Quando morì, il figlio lo trovò immobile a letto, girato su un fianco, abbigliato di tutto punto con giacca e cravatta, come ogni altro giorno della sua vita. Il ragazzo provò a scuoterlo, ma il rigor mortis gli aveva già irrigidito il corpo; il figlio disse poi che quella fu l’unica volta in cui aveva avuto un contatto fisico con il padre. La figlia di Everett, Elizabeth, tentò il suicidio otto volte. Ci riuscì nel 1996. Sul biglietto di addio che lasciò c’era scritto che avrebbe incontrato suo padre in un mondo parallelo.

Ma per rispondere alla seconda parte della tua domanda: il mio prossimo libro sarà sull’intelligenza, umana e non. Parlerà dell’essere umano più intelligente del ventesimo secolo, e della sua inevitabile reincarnazione del ventunesimo.

Hai altre grandi passioni oltre alla scienza, la scrittura e il giardinaggio?

Pratico jōdō and iaidō: la via del bastone e la via della spada. Cammino per ore nella foresta, qui nelle montagne del sud del Cile, con la katana al mio fianco, tagliando ramoscelli e infilzando foglie e bacche. Da quando è iniziata la pandemia, avendo molto tempo a disposizione, mi è nata un’ossessione per le mie due spade. Perciò me ne vado in giro per questo paesino — per fortuna quasi del tutto disabitato — abbigliato come un samurai, con sommo imbarazzo di mia figlia. Non incontriamo quasi mai nessuno, quindi non è poi questa gran follia. I pochi vicini che abbiamo (perlopiù anziani che svernano qui in attesa della fine della pandemia) pensavano che fossi pazzo anche prima, la spada non è che una conferma.

Mi piacerebbe sapere com’è la tua routine di scrittura, nei suoi vari aspetti: come fai ricerca e quando concretamente ti metti a scrivere, e com’è una tua giornata tipo quando sei nel pieno della scrittura.

Ho un altro lavoro, perciò scrivo quando posso. Prima del Covid lo facevo appunto dopo l’orario d’ufficio: magari prima di tornare a casa per stare con mia moglie e mia figlia avevo un’ora o due, e le passavo a scrivere in qualche caffè. Mi piace molto essere circondato da altra gente, mi concentro meglio. Non ho mai avuto uno studio, e nemmeno a casa ho una sedia comoda o una scrivania. Tanti anni in ufficio, seduto a guardare lo schermo di un computer, mi hanno completamente rovinato la schiena, quindi adesso scrivo in piedi: a Santiago lo faccio su un ripiano un po’ alto della cucina. Ma è da un anno ormai che siamo nella casa in montagna, e qui per alzare il portatile uso le scatole dei puzzle di mia figlia. Questa abitudine ha portato a un incontro interessante. Lo scorso autunno, quando la maggior parte dei fiori ha iniziato ad appassire, i colibrì che di solito sfrecciano in giardino, non avendo abbastanza di cui nutrirsi, hanno iniziato a volteggiarmi tra le braccia: questo perché sulle scatole dei puzzle che uso come scrivania rialzata sono disegnati dei fiori colorati. La vita dei colibrì è frenetica, scandita da una fame costante, e da questi minuscoli cuori che compiono più di mille battiti al minuto. Devono mangiare continuamente, altrimenti muoiono. In maniera simile, a me le idee vengono mentre cammino nella foresta, con il binocolo da un lato e una lente d’ingrandimento dall’altro, insieme ai miei due cani. Se non potessi farlo credo che morirei in fretta, proprio come i colibrì.

C’è qualcosa che ti fa paura?

La pazzia, naturalmente. È presente nella mia famiglia.

Una cosa che ti rende felice.

I cani. Specialmente la mia adorata Kali, un West Highland Terrier: mi vuole bene in una maniera che sfida le leggi dell’universo. Ogni mattina quando mi sveglio mi balza addosso e si rifiuta di scendere finché non l’ho coccolata un po’; non mi lascia nemmeno prendere il telefono per spegnere la sveglia. E se non mi vede anche solo per una ventina di minuti, viene a cercarmi con qualche regalino: un calzino, uno dei suoi giochini, o magari una foglia… qualunque cosa riesca a portarmi, e me la dà come se mi stesse donando oro, incenso e mirra.

 Pezzo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/


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