A sessant’anni
dalla morte di Rocco Scotellaro, ne vogliamo ricordare l’opera con una
sua poesia ed un bel profilo critico di Angelo Mastrandrea.
Passaggio alla città
Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere
contento,
ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei
boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio
sorriso.
Addio, come addio? Distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del
cielo,
querce e cerri affratellati nel
vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata,
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove
stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?
Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di Luglio, calda che
l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi
visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna
e non c’era la tavola nera della
notte
e i monti s’erano persi lungo la
strada.
Rocco Scotellaro [Roma, 1 luglio 1950]
IL
MEZZOGIORNO SPIEGATO DAI POETI
È un territorio tormentato, desolato, di nude argille che smottano,
franano, l'alto materano. C'è stato un tempo non lontano in cui si è trovato a
essere, come tutta quella zona intermedia della Lucania che va dal basso
potentino alle valli del Basento, dell'Agri e del Sinni, al centro di studi
etnografici e antropologici, di attenzioni letterarie e cinematografiche, di
reportage giornalistici e fotografici.
Dagli studi condotti sulla popolazione di Chiaromonte Edward Banfield trasse spunto per elaborare il concetto di «familismo amorale», Pierpaolo Pasolini ambientò tra i Sassi di Matera Il Vangelo secondo Matteo, Cartier Bresson immortalò la vita nei paesi, Carlo Levi cristallizzò nel Cristo si è fermato a Eboli l'immagine di una società arcaica, Manlio Rossi Doria affermò in un celebre discorso al Teatro Stabile di Potenza che lì in Basilicata non c'era agricoltura ma pazzia, perché «è assurdo vivere come lì si vive, è assurdo coltivare il grano come lo si coltiva, è assurdo trattare la terra come la si tratta, è assurdo tutto».
Il medico e lo scrittore
La porta d'accesso a un mondo così poco conosciuto da risultare di difficile permeabilità, dove perfino la lingua poteva risultare un ostacolo insormontabile, era la cittadina di Tricarico. È qui che viveva il Caronte lucano Rocco Mazzarone, medico-sociologo, uomo di cultura, traghettatore verso quel mondo così ostico da decifrare e suo interprete.
Ma il motivo principale per cui una tappa a Tricarico era obbligatoria per la comprensione di quella società contadina meridionale di cui Salvemini e Gramsci avevano auspicato l'alleanza con le masse operaie del nord ma che di lì a qualche anno sarebbe stata fatalmente minata dal boom economico e dall'emigrazione, è che insieme a Mazzarone lì si poteva incontrare il suo amico Rocco Scotellaro. Per questo tra le stradine della Rabatana, l'antico quartiere arabo della cittadina lucana, fino alla metà degli anni '50 si potevano incrociare facilmente ricercatori e fotografi, sociologi e giornalisti. Il solo Ernesto de Martino tra il '49 e il '51, nel pieno dei suoi studi etnografici sulle popolazioni del Mezzogiorno, fu ospite quattro volte di quell'uomo che, pur nell'arco di una breve esistenza, rappresenterà forse la più interessante figura di intellettuale che la Basilicata abbia prodotto dal dopoguerra a oggi.
Se Mazzarone era il tramite, Scotellaro rappresentò la voce, diretta e senza mediazioni, di quell'area che lui stesso definì come la «zona grigia del risveglio contadino», dove alla caduta del fascismo «allignò una sorta di qualunquismo povero, fatto di impulsi e di reazione non organizzati» e dove «i contadini continuarono a zappare la terra e gli ex dirigenti fascisti, criticando la nuova libertà, cautamente aspettavano di prendere posizione». Eppure Scotellaro di quel mondo, ai cui limiti stavano la «rossa» Irsina che nel 1946 diede i quattro quinti dei voti al Partito comunista e altri comuni che avevano agguerrite organizzazioni contadine, riuscì a essere non solo cantore ma rappresentante perfino istituzionale.
La voce delle campagne
Sindaco-poeta socialista, eletto nel '46 ad appena 23 anni, confermato due anni dopo nonostante le Madonne pellegrine portate in processione per far vincere la Democrazia cristiana in una regione tornata in gran parte sotto il controllo dei vecchi gruppi dirigenti che avevano fiancheggiato il fascismo, e proprio per questo vittima di una cospirazione che lo farà finire ingiustamente in carcere per 45 giorni, quando il tribunale riconobbe che la persecuzione era stata politica e lo scagionò in toto preferì abbandonare ogni ruolo istituzionale decidendo di dedicarsi anima e corpo alla ricerca sul campo e alla scrittura. Per questo si trasferì in quella Napoli che definirà «la città dell'esilio», dove al mattino parteciperà al collettivo interdisciplinare raccolto attorno agli studi di economia agraria di Manlio Rossi Doria e la sera tirerà tardi frequentando il fior fiore dell'intellettualità partenopea. Una decisione sofferta che racconterà in una poesia, Passaggio alla città: «Ho perduto la schiavitù contadina,/non mi farò più un bicchiere contento,/ho perduto la mia libertà».
Oggi che ricordiamo i sessant'anni dal giorno in cui una banale occlusione arteriosa ne cancellò prematuramente il talento, merita una riscoperta, Scotellaro, forse ancor più che come menestrello di un mondo ostinatamente arcaico e resistente alla modernità, quale esempio invece di intellettuale vocato all'impegno diretto in politica, uomo capace di regalare alla cittadinanza allo stesso tempo il primo ospedale e quella «Marsigliese del movimento contadino» (la definizione è di Carlo Levi) che porta il nome di Sempre nuova è l'alba: «Non gridatemi più dentro/non soffiatemi in cuore/i vostri fiati caldi, contadini/Beviamoci insieme una tazza colma di vino!/che all'ilare tempo della sera/s'acquieti il nostro vento disperato./Spuntano ai pali ancora/le teste dei briganti, e la caverna/l'oasi verde della triste speranza/lindo conserva un guanciale di pietra.../Ma nei sentieri non si torna indietro./Altre ali fuggiranno/dalle paglie della cova,/perché lungo il perire dei tempi/l'alba è nuova, è nuova».
Merita una riscoperta, quel sindaco-poeta morto ad appena trent'anni lasciandoci due meraviglie incompiute, alcuni racconti, appunti sparsi, carteggi e poesie, ancora di più per il suo impegno culturale una volta presa la decisione di abbandonare la politica attiva e di andarsene a lavorare con Rossi-Doria in quella fucina di studi e cervelli meridionalisti che era la facoltà di Agraria di Portici. La merita l'idea di poter utilizzare la letteratura, o per dir meglio l'intervista e l'autobiografia, per dare forma a una vasta inchiesta socio-antropologica, economica e politica che avrebbe dovuto portarlo a raccontare la «rivoluzione insubordinata» di Montano Antilia in Cilento, a ricostruire il mito delle roccaforti comuniste di Cerignola, Andria e Irsina in Puglia, e poi ancora a far conoscere le realtà dei coltivatori di tabacco e bergamotto del Salento e dei coltivatori di canapa del salernitano.
La stroncatura comunista
Il tempo però gli fu fatale, e di questa grande «sociologia poetica del Mezzogiorno» conosciamo solo le intenzioni grazie a un appunto scritto appena due giorni prima di morire e ad alcune dichiarazioni d'intenti, come quella lettera in cui spiega il desiderio di «ricostruire la storia delle lotte, delle aspirazioni e delle speranze dei contadini visti al centro e sulla strada dei loro problemi» e sostiene che «la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista».
Possiamo solo immaginare cosa sarebbe potuta essere, una volta portata a compimento, quella «storia autonoma dei contadini» leggendo i quattro, folgoranti, ritratti contenuti in Contadini del sud: quello dell'anarchico Michele Mulieri che innalza un tricolore listato a lutto e costruisce una repubblica a casa sua, tra l'abitazione, un terreno e uno spaccio di generi alimentari e bevande chiamato «Ristoro dell'anno santo» forse perché costruito nel 1950, anno del Giubileo; quello di Andrea Di Grazia, piccolo proprietario cattolico e democristiano, che «si muove svelto come per compensare la piccola statura» e prova a far prete il figlio perché «beata quella casa dove cappello di prete trase»; ancora, quello di Antonio Laurenzana, coltivatore diretto, di «pelo rosso» socialista come il sindaco e in procinto di sposarsi per la terza volta; e poi la testimonianza di Francesco Chironna che emigra in America e si converte alla chiesa evangelica finendo scomunicato dai familiari e persino dalla fidanzata; infine, la storia di Cosimo Montefusco, aiuto bufalaro della Piana del Sele che non è mai stato a Salerno, figuriamoci a Napoli.
Di quanti si occuparono di un mondo che già allora si poteva presumere in via di estinzione, Scotellaro era l'unico in grado di rappresentarlo davvero dall'interno, capace di decrittarne i codici esclusivamente perché era uno di loro, come testimonia l'altra sua grande incompiuta, il romanzo autobiografico (un vero e proprio memoriale) L'uva puttanella. La sua grande popolarità presso quelle genti («Carlo e i contadini sono i soli che mi vogliono a Tricarico», scrisse in una lettera alla sorella di Levi) era dovuta a questo e non ad altro, al fatto di adoperarsi per il bene comune al mattino e di giocare insieme alla morra nei bar alla sera. Non lo comprese il Partito comunista, che bollò Scotellaro come un ragazzo pieno di buone intenzioni ma poco ferrato ideologicamente.
Tra codesti stroncatori troviamo una penna d'eccezione: Giorgio Napolitano. Un anno dopo la precoce morte dello scrittore, nel settembre del 1954, il futuro Presidente della Repubblica, in linea con la lettura che ne aveva suggerito per primo Mario Alicata su Cronache meridionali («Scotellaro è una figura rappresentativa di un certo tipo di giovane intellettuale meridionale il quale, portato dallo sviluppo degli avvenimenti, sulla base di un'esperienza reale, a cercare il proprio posto di lotta per la redenzione del Mezzogiorno nelle file di un partito operaio, procede tuttavia con difficoltà ad assimilare tutti gli insegnamenti del marxismo e dalle sue incertezze politiche (...) è indotto talvolta a perdere la giusta prospettiva politica e a subire delle alternative di pessimismo, di sfiducia») nel settembre del 1954 sferrò dalle colonne delle rivista Incontri oggi un duro attacco a Contadini del sud, appena pubblicato da Laterza con prefazione di Rossi Doria.
Civiltà «senza Stato»
«Manca nel libro - scrive Napolitano - la raffigurazione delle sezioni più vive e avanzate della società meridionale, di quelle zone, di quei centri in cui più profondamente ha inciso il grande fatto nuovo del risveglio e della lotta - in senso socialista - delle masse contadine e popolari», i protagonisti non sono figure «rappresentative del mondo contadino meridionale» e neppure degli stessi braccianti di Tricarico, il concetto di «zona grigia del risveglio contadino» è assai discutibile, manca qualsiasi traccia di quel movimento che ha portato all'«avanzata delle forze politiche democratiche con le loro organizzazioni» e dei «tipi nuovi di contadini» che ne sono nati. Il contenuto delle critiche è molto simile a quelle che avevano già investito Rossi Doria e lo stesso Levi, che avevano curato rispettivamente la prefazione a Contadini del sud e alle poesie di È fatto giorno, entrambe appena pubblicate: si contestava la rappresentazione che veniva data del mondo contadino come una civiltà «senza Stato», «eterna e immutabile», in cui il sentimento dominante era un'atavica pazienza o rassegnazione.
Eppure, Scotellaro non avrebbe potuto definire meglio quella «zona grigia» in cui tanta parte del Mezzogiorno potrebbe ancora specchiarsi: «Mancavano i termini per una lotta vera e aperta, che veniva soffocata e covata nell'ambito di ognuno. Ognuno era un parente, un compare, un amico... E ognuno era bisognoso... Chi era il nemico da combattere?».
Varrebbe la pena di chiedersi quanto abbia contato l'ostracismo del Pci nell'oblìo a cui è stato consegnato Rocco Scotellaro o se esso sia semplicemente stato proporzionale al declino del mondo che aveva raccontato. Di sicuro, chi avrebbe avuto tutto l'interesse a mantenere alta l'attenzione sullo scrittore di Tricarico sarebbe stata la sinistra, e questo non è avvenuto nonostante a prenderne le difese nella polemica che infuriò dopo la demolizione culturale del Pci fossero stati intellettuali del calibro di Franco Fortini e Raniero Panzieri, e malgrado la riabilitazione postuma comunista degli anni '70, quando Giorgio Amendola andò finalmente a Tricarico a commemorare il sindaco-poeta.
Il vescovo alla finestra
Sta di fatto che nel momento in cui la notizia della morte di Scotellaro, avvenuta a Portici il 15 dicembre del 1953, piombò come un fulmine a ciel sereno a Tricarico pure il vescovo, che lo scrittore aveva descritto come «rosso in volto, robusto e un po' grasso, ma ancora agile» nonché «moderno e comprensivo» nonostante l'età avanzata, chiese di partecipare alle esequie. A distoglierlo fu l'annunciata presenza di una certa quantità di bandiere rosse. Quando gli fu fatto capire che non ci sarebbe stato verso di impedire ai partecipanti di portarle, preferì evitare ogni imbarazzo e osservare la cerimonia laica da una finestra del vescovado, ben nascosto. In quella «zona grigia del risveglio contadino» che era Tricarico non fu un evento da poco.
Dagli studi condotti sulla popolazione di Chiaromonte Edward Banfield trasse spunto per elaborare il concetto di «familismo amorale», Pierpaolo Pasolini ambientò tra i Sassi di Matera Il Vangelo secondo Matteo, Cartier Bresson immortalò la vita nei paesi, Carlo Levi cristallizzò nel Cristo si è fermato a Eboli l'immagine di una società arcaica, Manlio Rossi Doria affermò in un celebre discorso al Teatro Stabile di Potenza che lì in Basilicata non c'era agricoltura ma pazzia, perché «è assurdo vivere come lì si vive, è assurdo coltivare il grano come lo si coltiva, è assurdo trattare la terra come la si tratta, è assurdo tutto».
Il medico e lo scrittore
La porta d'accesso a un mondo così poco conosciuto da risultare di difficile permeabilità, dove perfino la lingua poteva risultare un ostacolo insormontabile, era la cittadina di Tricarico. È qui che viveva il Caronte lucano Rocco Mazzarone, medico-sociologo, uomo di cultura, traghettatore verso quel mondo così ostico da decifrare e suo interprete.
Ma il motivo principale per cui una tappa a Tricarico era obbligatoria per la comprensione di quella società contadina meridionale di cui Salvemini e Gramsci avevano auspicato l'alleanza con le masse operaie del nord ma che di lì a qualche anno sarebbe stata fatalmente minata dal boom economico e dall'emigrazione, è che insieme a Mazzarone lì si poteva incontrare il suo amico Rocco Scotellaro. Per questo tra le stradine della Rabatana, l'antico quartiere arabo della cittadina lucana, fino alla metà degli anni '50 si potevano incrociare facilmente ricercatori e fotografi, sociologi e giornalisti. Il solo Ernesto de Martino tra il '49 e il '51, nel pieno dei suoi studi etnografici sulle popolazioni del Mezzogiorno, fu ospite quattro volte di quell'uomo che, pur nell'arco di una breve esistenza, rappresenterà forse la più interessante figura di intellettuale che la Basilicata abbia prodotto dal dopoguerra a oggi.
Se Mazzarone era il tramite, Scotellaro rappresentò la voce, diretta e senza mediazioni, di quell'area che lui stesso definì come la «zona grigia del risveglio contadino», dove alla caduta del fascismo «allignò una sorta di qualunquismo povero, fatto di impulsi e di reazione non organizzati» e dove «i contadini continuarono a zappare la terra e gli ex dirigenti fascisti, criticando la nuova libertà, cautamente aspettavano di prendere posizione». Eppure Scotellaro di quel mondo, ai cui limiti stavano la «rossa» Irsina che nel 1946 diede i quattro quinti dei voti al Partito comunista e altri comuni che avevano agguerrite organizzazioni contadine, riuscì a essere non solo cantore ma rappresentante perfino istituzionale.
La voce delle campagne
Sindaco-poeta socialista, eletto nel '46 ad appena 23 anni, confermato due anni dopo nonostante le Madonne pellegrine portate in processione per far vincere la Democrazia cristiana in una regione tornata in gran parte sotto il controllo dei vecchi gruppi dirigenti che avevano fiancheggiato il fascismo, e proprio per questo vittima di una cospirazione che lo farà finire ingiustamente in carcere per 45 giorni, quando il tribunale riconobbe che la persecuzione era stata politica e lo scagionò in toto preferì abbandonare ogni ruolo istituzionale decidendo di dedicarsi anima e corpo alla ricerca sul campo e alla scrittura. Per questo si trasferì in quella Napoli che definirà «la città dell'esilio», dove al mattino parteciperà al collettivo interdisciplinare raccolto attorno agli studi di economia agraria di Manlio Rossi Doria e la sera tirerà tardi frequentando il fior fiore dell'intellettualità partenopea. Una decisione sofferta che racconterà in una poesia, Passaggio alla città: «Ho perduto la schiavitù contadina,/non mi farò più un bicchiere contento,/ho perduto la mia libertà».
Oggi che ricordiamo i sessant'anni dal giorno in cui una banale occlusione arteriosa ne cancellò prematuramente il talento, merita una riscoperta, Scotellaro, forse ancor più che come menestrello di un mondo ostinatamente arcaico e resistente alla modernità, quale esempio invece di intellettuale vocato all'impegno diretto in politica, uomo capace di regalare alla cittadinanza allo stesso tempo il primo ospedale e quella «Marsigliese del movimento contadino» (la definizione è di Carlo Levi) che porta il nome di Sempre nuova è l'alba: «Non gridatemi più dentro/non soffiatemi in cuore/i vostri fiati caldi, contadini/Beviamoci insieme una tazza colma di vino!/che all'ilare tempo della sera/s'acquieti il nostro vento disperato./Spuntano ai pali ancora/le teste dei briganti, e la caverna/l'oasi verde della triste speranza/lindo conserva un guanciale di pietra.../Ma nei sentieri non si torna indietro./Altre ali fuggiranno/dalle paglie della cova,/perché lungo il perire dei tempi/l'alba è nuova, è nuova».
Merita una riscoperta, quel sindaco-poeta morto ad appena trent'anni lasciandoci due meraviglie incompiute, alcuni racconti, appunti sparsi, carteggi e poesie, ancora di più per il suo impegno culturale una volta presa la decisione di abbandonare la politica attiva e di andarsene a lavorare con Rossi-Doria in quella fucina di studi e cervelli meridionalisti che era la facoltà di Agraria di Portici. La merita l'idea di poter utilizzare la letteratura, o per dir meglio l'intervista e l'autobiografia, per dare forma a una vasta inchiesta socio-antropologica, economica e politica che avrebbe dovuto portarlo a raccontare la «rivoluzione insubordinata» di Montano Antilia in Cilento, a ricostruire il mito delle roccaforti comuniste di Cerignola, Andria e Irsina in Puglia, e poi ancora a far conoscere le realtà dei coltivatori di tabacco e bergamotto del Salento e dei coltivatori di canapa del salernitano.
La stroncatura comunista
Il tempo però gli fu fatale, e di questa grande «sociologia poetica del Mezzogiorno» conosciamo solo le intenzioni grazie a un appunto scritto appena due giorni prima di morire e ad alcune dichiarazioni d'intenti, come quella lettera in cui spiega il desiderio di «ricostruire la storia delle lotte, delle aspirazioni e delle speranze dei contadini visti al centro e sulla strada dei loro problemi» e sostiene che «la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista».
Possiamo solo immaginare cosa sarebbe potuta essere, una volta portata a compimento, quella «storia autonoma dei contadini» leggendo i quattro, folgoranti, ritratti contenuti in Contadini del sud: quello dell'anarchico Michele Mulieri che innalza un tricolore listato a lutto e costruisce una repubblica a casa sua, tra l'abitazione, un terreno e uno spaccio di generi alimentari e bevande chiamato «Ristoro dell'anno santo» forse perché costruito nel 1950, anno del Giubileo; quello di Andrea Di Grazia, piccolo proprietario cattolico e democristiano, che «si muove svelto come per compensare la piccola statura» e prova a far prete il figlio perché «beata quella casa dove cappello di prete trase»; ancora, quello di Antonio Laurenzana, coltivatore diretto, di «pelo rosso» socialista come il sindaco e in procinto di sposarsi per la terza volta; e poi la testimonianza di Francesco Chironna che emigra in America e si converte alla chiesa evangelica finendo scomunicato dai familiari e persino dalla fidanzata; infine, la storia di Cosimo Montefusco, aiuto bufalaro della Piana del Sele che non è mai stato a Salerno, figuriamoci a Napoli.
Di quanti si occuparono di un mondo che già allora si poteva presumere in via di estinzione, Scotellaro era l'unico in grado di rappresentarlo davvero dall'interno, capace di decrittarne i codici esclusivamente perché era uno di loro, come testimonia l'altra sua grande incompiuta, il romanzo autobiografico (un vero e proprio memoriale) L'uva puttanella. La sua grande popolarità presso quelle genti («Carlo e i contadini sono i soli che mi vogliono a Tricarico», scrisse in una lettera alla sorella di Levi) era dovuta a questo e non ad altro, al fatto di adoperarsi per il bene comune al mattino e di giocare insieme alla morra nei bar alla sera. Non lo comprese il Partito comunista, che bollò Scotellaro come un ragazzo pieno di buone intenzioni ma poco ferrato ideologicamente.
Tra codesti stroncatori troviamo una penna d'eccezione: Giorgio Napolitano. Un anno dopo la precoce morte dello scrittore, nel settembre del 1954, il futuro Presidente della Repubblica, in linea con la lettura che ne aveva suggerito per primo Mario Alicata su Cronache meridionali («Scotellaro è una figura rappresentativa di un certo tipo di giovane intellettuale meridionale il quale, portato dallo sviluppo degli avvenimenti, sulla base di un'esperienza reale, a cercare il proprio posto di lotta per la redenzione del Mezzogiorno nelle file di un partito operaio, procede tuttavia con difficoltà ad assimilare tutti gli insegnamenti del marxismo e dalle sue incertezze politiche (...) è indotto talvolta a perdere la giusta prospettiva politica e a subire delle alternative di pessimismo, di sfiducia») nel settembre del 1954 sferrò dalle colonne delle rivista Incontri oggi un duro attacco a Contadini del sud, appena pubblicato da Laterza con prefazione di Rossi Doria.
Civiltà «senza Stato»
«Manca nel libro - scrive Napolitano - la raffigurazione delle sezioni più vive e avanzate della società meridionale, di quelle zone, di quei centri in cui più profondamente ha inciso il grande fatto nuovo del risveglio e della lotta - in senso socialista - delle masse contadine e popolari», i protagonisti non sono figure «rappresentative del mondo contadino meridionale» e neppure degli stessi braccianti di Tricarico, il concetto di «zona grigia del risveglio contadino» è assai discutibile, manca qualsiasi traccia di quel movimento che ha portato all'«avanzata delle forze politiche democratiche con le loro organizzazioni» e dei «tipi nuovi di contadini» che ne sono nati. Il contenuto delle critiche è molto simile a quelle che avevano già investito Rossi Doria e lo stesso Levi, che avevano curato rispettivamente la prefazione a Contadini del sud e alle poesie di È fatto giorno, entrambe appena pubblicate: si contestava la rappresentazione che veniva data del mondo contadino come una civiltà «senza Stato», «eterna e immutabile», in cui il sentimento dominante era un'atavica pazienza o rassegnazione.
Eppure, Scotellaro non avrebbe potuto definire meglio quella «zona grigia» in cui tanta parte del Mezzogiorno potrebbe ancora specchiarsi: «Mancavano i termini per una lotta vera e aperta, che veniva soffocata e covata nell'ambito di ognuno. Ognuno era un parente, un compare, un amico... E ognuno era bisognoso... Chi era il nemico da combattere?».
Varrebbe la pena di chiedersi quanto abbia contato l'ostracismo del Pci nell'oblìo a cui è stato consegnato Rocco Scotellaro o se esso sia semplicemente stato proporzionale al declino del mondo che aveva raccontato. Di sicuro, chi avrebbe avuto tutto l'interesse a mantenere alta l'attenzione sullo scrittore di Tricarico sarebbe stata la sinistra, e questo non è avvenuto nonostante a prenderne le difese nella polemica che infuriò dopo la demolizione culturale del Pci fossero stati intellettuali del calibro di Franco Fortini e Raniero Panzieri, e malgrado la riabilitazione postuma comunista degli anni '70, quando Giorgio Amendola andò finalmente a Tricarico a commemorare il sindaco-poeta.
Il vescovo alla finestra
Sta di fatto che nel momento in cui la notizia della morte di Scotellaro, avvenuta a Portici il 15 dicembre del 1953, piombò come un fulmine a ciel sereno a Tricarico pure il vescovo, che lo scrittore aveva descritto come «rosso in volto, robusto e un po' grasso, ma ancora agile» nonché «moderno e comprensivo» nonostante l'età avanzata, chiese di partecipare alle esequie. A distoglierlo fu l'annunciata presenza di una certa quantità di bandiere rosse. Quando gli fu fatto capire che non ci sarebbe stato verso di impedire ai partecipanti di portarle, preferì evitare ogni imbarazzo e osservare la cerimonia laica da una finestra del vescovado, ben nascosto. In quella «zona grigia del risveglio contadino» che era Tricarico non fu un evento da poco.
Angelo Mastrandrea su il
manifesto dell’ 8 agosto 2012
Grazie per avermi, ancora una volta, suggerito una particolarità letteraria ed umana.
RispondiEliminaNon mi stupisce la posizione del Pci, le figure come Panzieri erano rare in quegli anni. Vale sempre la suddivisione dell'umanità di Totò: uomini e caporali.
Un abbraccio
fab