14 agosto 2012

I VECCHI E I GIOVANI DI LUIGI PIRANDELLO




 Riprendo dal sito http://www.minimaetmoralia.it il saggio di Lanfranco Caminiti su « I vecchi e i giovani» di Luigi Pirandello.  Mi auguro che le interessanti osservazioni del Caminiti siano uno stimolo per rileggere il grande libro dello scrittore agrigentino.





Lanfranco Caminiti

A cent’anni da I vecchi e i giovani di Pirandello, insurrezione e narrazione


Il prossimo anno cade il centenario della pubblicazione de I vecchi e i giovani per l’editore Treves di Milano. In realtà, il romanzo – «amarissimo», lo definì lo stesso Pirandello in una lettera a un amico – era in buona parte già uscito a puntate, come spesso accadeva, per il giornale «Rassegna contemporanea» tra il gennaio e il novembre 1909. L’edizione del 1913 risistema l’articolazione dei capitoli, rivede quanto era già stato pubblicato e lo completa. Ancora nel 1931, Pirandello deciderà di intervenire sul testo per una definitiva edizione per Mondadori, che poi è quella che leggiamo oggi. In nessuna delle rivisitazioni Pirandello modifica l’impianto dei personaggi e l’intreccio tra i loro comportamenti e gli eventi e il suo sguardo.
Pirandello inizia a scrivere I vecchi e i giovani nel 1906, e sono passati poco più di dieci anni dalla “materia” del romanzo, che è l’esplosione del movimento dei Fasci siciliani tra il 1892 e il 1894, cioè tra l’inizio degli scioperi nelle campagne e nelle zolfare – una cosa nuova che mai si è veduta prima – e le stragi di contadini e popolani fino all’instaurazione dello stato d’assedio e la repressione di massa, con l’arresto di tutti i dirigenti dei Fasci e centinaia e centinaia di militanti; lo stesso lasso di tempo che intercorre tra lo scandalo della Banca romana e la crisi del giolittismo, con l’avvento al governo di Francesco Crispi. Dieci anni soltanto. Sembrerebbe perciò un po’ azzardato definire “romanzo storico” I vecchi e i giovani. Qui non si tratta della rivolta degli schiavi di Euno o dei Vespri. Eppure. Non è solo una questione di distanza temporale dai fatti narrati. Per dire d’un altro romanzo, I Viceré, De Roberto – le vicende della famiglia Uzeda dal 1860 arrivano sino alla prima elezione a suffragio “universale” [maschio, alfabeta, che paga tasse per una cifra annua di 19,8 lire] del 1882 – comincia a scrivere nel 1892, dieci anni dopo perciò il previsto punto di arrivo della saga, e il romanzo viene pubblicato nel 1894; tra l’altro, mentre attende alla scrittura, proprio l’arco delle lotte dei Fasci e della materia del romanzo di Pirandello. Ma mentre per De Roberto lo sbarco dei Mille del 1860 è il cuore e il filo di una vicenda che si è storicamente conclusa, per Pirandello è proprio nel ruolo “a parti rovesciate” del Risorgimento, e dei suoi uomini, che sta la materia narrativa.
Non è solo emblematico il personaggio di Francesco D’Atri, che ricalca proprio Francesco Crispi, e decide da primo ministro di porre lo stato d’assedio e il tribunale militare, lui che gli stati d’assedio li aveva vissuti da patriota perseguitato, lui che aveva tuonato contro la legge Pica e i tribunali speciali; ma c’è Mauro Mortara, il personaggio del vecchio garibaldino tutto d’un pezzo, che fu costretto a rifugiarsi da esule a Malta e ormai vive uncza sorta di esilio in campagna, dove custodisce i ricordi del periodo eroico di speranze, a rappresentare il nodo delle contraddizioni di quel momento: ostile ai movimenti sociali, che considera un pericolo per l’unità della nazione – «Sbirro, vi giuro, andrei a farmi, vecchio come sono» –, fino a decidere di scendere in piazza con le sue pistolone per affrontarli, «armato come un brigante», finirà fucilato dall’esercito che lo scambiano per un rivoltoso: ormai i soldati sparano a tutto ciò che è rosso, come il gonfalone dei Fasci e come la camicia indossata da Mortara.
In questo stare dalla parte sbagliata, in questo morire dalla parte sbagliata, è tutta la problematicità del romanzo nei confronti del Risorgimento. Passando tra i cadaveri lasciati sulla strada, e rivoltando il corpo del vecchio sul cui petto scoprono le medaglie del suo valore, i soldati si chiedono: «Chi avevano ucciso?». Così si chiude il romanzo. Che forse è anche: «Cosa avevano ucciso?»: l’epopea garibaldina è ormai solo un lontano ricordo, un vecchio patetico e fuor di cotenna, disconosciuto, almeno per quei soldati. E possiamo credere che uguale disconoscimento fosse anche per buona parte dei lettori di quel primo Novecento: la modernizzazione dell’Italia s’era compiuta altrimenti. Per buona parte dei lettori, i «fatti di Siclia» – l’insurrezione dei Fasci, la violenta repressione – sono ormai lontani; sono, per chi ne avesse voglia, solo “cronaca”. Una consapevolezza di unicità e irripetibilità degli eventi, doveva invece avere Pirandello. Il suo sguardo però è spostato verso una nuova «storia», quella di un movimento sociale della terra e del lavoro che si affaccia e costringe tutto e tutti a ripensarsi. I due titoli, di De Roberto e Pirandello, vengono invece accostati con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa in una sorta di trilogia della disillusione post-risorgimentale. Con superficialità, qualcuno direbbe oggi “antirisorgimentale”. Questa presenza del “poi” riguardo al “prima” [il 1860, la spedizione dei Mille, la cacciata dei Borboni, l’Unità d’Italia], dell’allora e dell’adesso, la frattura violenta benché racchiusa in un pugno d’anni di un’epoca, li comprenderebbe tutti e tre sotto la stessa categoria di «romanzo storico». Ma se a una «storia» appartiene – e non «a un’ipotesi di contro-storia, riscrivere la storia nazionale a partire dell’estremo sud della penisola» [Onofri] –, la narrazione de I vecchi e i giovani, è a quella dei movimenti sociali, delle insurrezioni del lavoro.
Il «romanzo storico risorgimentale» [Romagnoli] fa la sua apparizione in Italia negli anni ’20 dell’Ottocento, sollecitato dalla circolazione delle prime traduzioni dell’Ivanohe di Walter Scott, e vive una stagione di straordinaria proliferazione che perdura fino ai primi anni ’40. Si contano oltre cento titoli, un numero davvero impressionante, e accanto a autori e opere di buon livello – citiamo qui La battaglia di Benevento (1827) e L’assedio di Firenze (1836) di Francesco Domenico Guerrazzi, Ettore Fieramosca (1833) e Niccolò de’ Lapi, ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841) di Massimo D’Azeglio, Marco Visconti. Storia del Trecento cavata dalle cronache (1834) di Tommaso Grossi, Il Duca d’Atene (1837) di Niccolò Tommaseo – e il cui punto più alto ovviamente è I promessi sposi (1827, poi 1840) di Alessandro Manzoni, altre opere sono meno riuscite, come I prigionieri di Pizzighettone o La calata degli Ungheri in Italia. Comunque, nel tessuto narrativo di tutti questi romanzi – oggi si sarebbe parlato di un “genere” dove il capolavoro di Manzoni contiene tutti i canoni e insieme ne fuoriesce –, il denominatore comune è la tensione politica e ideologica che sostiene la scrittura.
Alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento appare perciò, con De Roberto e Pirandello, e più tardi con Tomasi, il romanzo storico «post-risorgimentale». Un rovesciamento, rispetto ai primi anni del secolo: la tensione patriottica all’unità e alla libertà della nazione ha lasciato il posto al disincanto. Ai romanzi “italiani” succedono i romanzi “siciliani” – e la disillusione sembra tutta appartenere all’isola. Sembra soltanto, però: se pure a Capuana e Verga, come a tutti gli scrittori siciliani, pare mancare il sostegno della provvidenza manzoniana e qualsiasi idea di sorte progressiva, entrambi sono comunque solidamente risorgimentali, solidamente patriottici, solidamente unitari. Tra “unità” e “libertà” della nazione sembra però essersi creata una secessione letteraria e non territoriale, che ha proprio in Verga e nella novella Libertà – in cui si narrano i fatti di Bronte e la repressione di Bixio, con cui Verga si schiera decisamente – la sua maggiore evidenza.
La novella [1883, Verga aveva non solo la distanza storica dai fatti, ma all’arrivo di Garibaldi si era arruolato nella Guardia Nazionale dove restò per tre anni] termina così: «Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: Dove mi conducete? In galera? O perché? Se non ho avuto nemmeno un palmo di terra! Se avevano detto che c‘era la libertà!» In qualche modo questo finale riecheggia in Giuseppe Cesare Abba, uno scrittore “italiano e patriottico” che nella sua Vita di Bixio [1905], raccontando proprio i fatti di Bronte scrisse: «Si parlava persino di divisione dei beni…». Ecco, questa cosa, la libertà della divisione delle terre – sebbene fosse il primo punto del proclama del 2 giugno di dittatura a Palermo di Garibaldi: «Con decreto dittatoriale è disposta la quotizzazione delle terre dei demani comunali tra coloro che si sono battuti per la patria e l’ereditarietà di tale diritto per i discendenti» –, proprio no.
La secessione è narrativa, perciò politica, anche tra siciliani e siciliani, e attraversa le scritture del tempo, più che territoriale, cioè storica, di una «nazione divisa». I vecchi e i giovani non era certo un romanzo “regionale”. Ma quando appare, la letteratura nazionale è di poeticità muscolare: Pascoli ha parlato di «grande proletaria» che si è mossa e deve farsi spazio nel mondo, e D’Annunzio – che Pirandello detestava per quel suo «linguaggio delle parole» – ha da poco celebrato la conquista di Cirenaica e Tripolitania con Le canzoni delle gesta d’Oltremare. Verga, peraltro, si è iscritto al Partito nazionalista e si schiera decisamente con l’impresa d’Affrica: avevamo fame di terra e piuttosto che dividere quelle che c’erano qui doveva sembrargli più realistico andare a prendere quelle d’altrove. I vecchi e i giovani appare perciò davvero come un romanzo «spaesato» [Trombatore]; senza amor di patria, parla di cose che sembrano non interessare il paese in quel momento, in quel tempo. E non è questa, certo, una differenza regionale. Dopo i Fasci, la Sicilia – la divisione delle terre – non era più all’ordine del giorno, non era più «la» questione del paese.
In questo senso sembra intrigante ma poco convincente la definizione usata [Spinazzola] per I vecchi e i giovani di «romanzo storico antistorico»: «con una semplificazione di comodo, si potrebbe sostenere che De Roberto, e dopo di lui Pirandello e Lampedusa, reiterano l’uso di una struttura rappresentativa di stampo tradizionale per capovolgerne la funzionalità intrinseca originaria… un genere letterario eminentemente borghese come il romanzo storico viene piegato al proposito di colpire a fondo la mentalità della borghesia». La borghesia? Che c’entra la borghesia? La formula di romanzo storico antistorico andrebbe bene per I Buddenbrok, e la saga ci starebbe tutta: ascesa di una dinastia imprenditoriale insufflata di spirito protestante, che coltiva la ricchezza mondana come un valore ultraterreno, e al culmine del successo economico e del potere politico è corrosa dai dubbi etici sulla propria classe, fino alla caduta. Ma né gli Uzeda, né i Laurentano né i Salina sono i Buddendbrok: nessuno di loro coltiva spiriti protestanti, un’etica della produzione [e, se per quello, non danno segno neppure che a qualcuno di loro soggiaccia una qualche provvidenza se non la sopravvivenza del potere] e idee di progresso della storia. E non ci convincerebbe tanto neanche la formula usata da Sciascia [e in parte prima da Cecchi: «un’opera fondata su una materia fantastica più adatta a prestare motivi di arguzie, e di macchiette, che d’epopea»], che parlò di «romanzo storico senza senso della storia» se non quando spiegò meglio quel «senza senso della storia» e definì il romanzo fortemente «autobiografico».
Autobiografico, io lo intenderei non tanto relativamente alle parentele di Pirandello i cui caratteri e le cui storie risorgimentali possono rintracciarsi tra i personaggi de I vecchi e i giovani – l’autore mandò le prime copie di stampa ai genitori per il cinquantesimo anniversario del loro matrimonio con una dedica: «Caterina e Stefano vivono da eroi» –, quanto all’autobiografia della Sicilia tra i Mille e il movimento operaio, una cosa che non si era mai veduta prima: una materia fantastica, propriamente. Sorprende perciò l’ottusità del giudizio che a caldo formulò Benedetto Croce: «Un senso di cose già molte volte viste e udite, e come logore e stanche». Cose molte volte viste e udite? Logore e stanche? Di che parla Croce? Movimento del lavoro e questione territoriale si combinarono in Sicilia con i Fasci come mai era accaduto prima e come mai sarebbe accaduto dopo. Questa fu l’epopea. È questo il nodo.
Carlo Salinari, nel 1960, rivalutò il romanzo parlando di un triplice fallimento storico, del Risorgimento, dell’Unità, del socialismo: «Nel romanzo si ha acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e arretratezza delle masse». Per quanto il giudizio critico sembra sovrapporsi ai pensieri post-Resistenza, di quei fallimenti storici non saprei dire, ma i Fasci siciliani furono altro dal Risorgimento, dall’Unità e pure dal socialismo. Il conflitto è con lo Stato, non con il Risorgimento; la crisi – lo stato d’assedio, l’esercito che spara sulle folle – è quella della democrazia parlamentare rappresentativa. I Fasci siciliani – sembra un paradosso – si trovarono propriamente senza patria, «spaesati». Per dire, non ebbero – e per la verità continuano a non avere, a parte gli storici – narrazione e letteratura, appartenenza linguistica, se non Pirandello appunto, nemmeno quando la distanza temporale lo avrebbe permesso. Una ferita aperta, che sanguina ancora.
Al conflitto tra i vecchi e i giovani [«Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani» è la dedica di Pirandello] che è un conflitto anche interiore tra le speranze della gioventù e le disillusioni dell’età, tra il “vecchio” Risorgimento ormai forma dello Stato, e forma della democrazia parlamentare, e l’affacciarsi dei “giovani” movimenti sociali – la materia del romanzo –, Pirandello pensava piuttosto come al «dramma della mia generazione». E il «dramma» della sua generazione, come forse di ogni generazione che si affaccia al mondo e che ha la ventura di incontrarlo, era quello dell’esplosione di un movimento sociale – inatteso nella sua radicalità, cui non si era preparati – che rivendicava diritti e condizionando il presente poneva un’opzione sul futuro. Poneva pure un’opzione sul passato, sulla storia – il Risorgimento, l’Unità – per porne una sul presente.
La cesura tra Pirandello e i Fasci siciliani è reale – e si può dire che la cesura fosse collettiva, nazionale: i Fasci, colpiti da una repressione brutale, scomparvero, tutta la loro esperienza si svolge nell’arco di tre-quattro anni – e talmente compiuta, talmente “biografica”, l’elaborazione di questa distanza, da costruirci una materia narrativa. Eppure, la drammaticità di quel periodo – e lo schierarsi, le passioni, i conflitti, i percorsi e i pensieri individuali, dei personaggi e degli uomini, la brutalità e le speranze, mentre tutt’intorno sta nascendo un mondo, – esplode intera nel romanzo e rimane ancora oggi integra, dato che le domande individuali e collettive intorno all’esplodere di un movimento sociale si ripresentano sempre. Quando si è davvero preparati all’esplodere di un movimento sociale radicale? Quando si è pronti per un’insurrezione? Possiamo cioè ancora interrogarci sullo spaesamento che ogni rivolta porta con sé piuttosto che soltanto leggere e capire da una nostra distanza storica eventi ormai sepolti nel tempo.
«Un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un crocefisso in capo alla processione, gridando – Viva il re! Abbasso le tasse! – s’era messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro carabinieri appostati. L’ufficiale che li comandava aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lì calcata e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse più muovere; e lì non una ma più volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero». [I vecchi e i giovani, p. 237] La narrazione di Pirandello, cruda come un reportage, ripercorre la strage di Santa Caterina Villermosa del 5 gennaio 1894. Il 3 gennaio, a Palermo, il generale Morra di Lavriano in virtù dei poteri conferitigli da Crispi aveva decretato lo stato d’assedio, sciolto per legge i Fasci dei lavoratori e disposto l’arresto dei membri del Comitato centrale. Era passato esattamente un anno dall’intensificarsi del ciclo di manifestazioni, scioperi e proteste iniziato il 3 gennaio del 1893 a Catenanova. In quell’anno ci furono centoventi manifestazioni in Sicilia di cui abbiamo una qualche registrazione: occupazioni di terre, scioperi dei braccianti agricoli per l’aumento dei salari, scioperi dei minatori contro i gabelloti, scioperi dei mietitori, proteste contro le tasse, richieste dei patti colonici e per l’abolizione del cottimo, incendi dei casotti daziari, devastazioni di municipi.
Anche festeggiamenti, per l’ottenimento dei nuovi patti colonici, per qualche aumento di salario, per l’allontanamento di un delegato di polizia o di qualche amministratore. Ci furono anche, quasi subito – nell’agosto stesso, a Comiso, Vittoria, Trapani, Balestrate, Terranova, Trappeto, Barcellona, Scordia, Porto Empedocle, Cefalù, Favara, Mazzara del Vallo, Palermo, Santa Ninfa, Aidone, Sutera, Melilli, Calatafimi, San Piero Patti, Sant’Angelo di Brolo – dimostrazioni di protesta dopo i fatti di Aigues Mortes, in Francia, quando i nostri connazionali che lavoravano nelle saline vennero linciati perché accusati di sottrarre lavoro ai francesi. Non c’era internet e la rete al tempo, ma i movimenti sociali si muovevano egualmente veloci. E ci furono anche a Licodia Eubea, a Naso, a Caccamo, a Militello, a Siracusa, manifestazioni al grido di “abbasso Giolitti, viva Crispi”. Questo, certo, prima che Crispi desse pieni poteri al generale Morra. A quel punto restò ai contadini solo l’intercessione delle immagini del re e della regina, come santi da portare in corteo, insieme alla Vergine e al Cristo – Hobsbawm nel suo I ribelli diede molto peso a questo aspetto religioso e millenaristico, ma i Fasci non erano i giurisdavidici di Lazzaretti riuniti in “comunità evangelica” sul monte Amiata – sperando che li proteggessero. Perché le stragi erano iniziate da subito: il 20 gennaio del 1893 a Caltavuturo, 13 morti. Poi, erano proseguite, punteggiando le proteste: il 6 marzo, a Serradifalco, 2 morti; il 6 agosto, ad Alcamo 1 morto. Fino allo sconquasso degli ultimi mesi: il 10 dicembre, a Giardinello, 11 morti; il 25 dicembre, a Lercara, 11 morti; l’1 gennaio del 1894, a Pietraperzia, 8 morti; il 2 gennaio, a Belmonte Mezzagno, 2 morti; il 3 gennaio, a Marineo, 18 morti; e il 5 gennaio, a Santa Caterina Villermosa, 14 morti, di cui racconta Pirandello. Poi, appunto, la calma di un cimitero. Tra Giolitti e Crispi, per i contadini e i solfatari si manifestò una continuità di eventi, dato che la prima strage, a Caltavuturo, era accaduta con il vecchio liberale piemontese riformista e trasformista – che dietro le proteste si raccomandò a evitarne altre –, e l’ultima, a Santa Caterina Villermosa, accadde con il vecchio garibaldino rivoluzionario ora uomo di ferro. Non bastarono neppure la Vergine e il Cristo a proteggerli, i contadini.
Il primo Fascio venne inaugurato a Messina nel 1888 da Nicolò Petrina, un giovane che si era molto distinto fondando la Croce rossa e portando soccorso alla popolazione durante il colera del 1884, e godeva di estrema popolarità. Petrina riunificò in un’unica sigla e un’unica organizzazione una radicata presenza di società e leghe di mutuo soccorso e resistenza operaia e artigianale. La denominazione “Fascio” non era nuova: era stata già usata, nel decennio precedente, da associazioni operaie romagnole, per rinvigorire simbolicamente il carattere di “società di resistenza” delle loro associazioni. L’esperienza di Petrina a Messina venne bruscamente interrotta dall’arresto e dal carcere e il fascio locale non resse a quest’assenza. Fu con De Felice Giuffrida a Catania, nel 1891, che i Fasci ebbero un impulso straordinario, diffondendosi dalla città alla campagna delle province. E la loro peculiarità. E la consacrazione nell’isola avvenne con l’occasione dell’Esposizione universale a Palermo del 1892. Gli guastarono la festa: in mille arrivarono da Catania, sfilando in corteo – “passeggiate”, le chiamavano i Fasci – per la città. Nacque il Fascio di Palermo, sotto la direzione di Bernardino Verro, un impiegato comunale espulso per le sue idee, e poi fu uno sviluppo rapido e impetuoso. Al processo del 1894 si favoleggiò di trecento Fasci capaci di mobilitare 350mila uomini, ma De Felice fu più modesto e precisò che si trattava “solo” di 175 Fasci in tutta la regione. Per Pirandello: «centosessantatré fermamente costituiti, trentacinque in via di formazione» [I vecchi e i giovani, p. 173].
Avvenne pure che l’esperienza dei Fasci superò lo stretto di Messina, e a essi si ispirarono analoghe organizzazioni in Calabria, a Napoli e nell’Emilia, mentre eguali moti scoppiavano in Puglia e nella Lunigiana. Comunque, i dati più attendibili parlano di 119 Fasci nell’agosto del 1893, saliti a 163 nel novembre, per cui è credibile la valutazione di De Felice [e di Pirandello] che si riferiva soltanto a quelle strutture esplicitamente riconosciute dal gruppo dirigente. I Fasci, come le manifestazioni di protesta, si riproducevano spontaneamente. In ogni caso, per avere un’idea di quale fosse la “forza” dei Fasci, a Casteltermini, su 14mila abitanti, i soci sono quattromila; a Piana dei Greci, su 9mila abitanti, i soci sono 2mila e cinquecento a cui vanno sommate mille donne; a Corleone, su 17mila abitanti, si contano seimila soci fra uomini e donne; a Santa Caterina Xirbi, ci sono iscritti 400 contadini; a Villarmosa duemila minatori; a Castrogiovanni, duemila; a Sommatino, sono mille e ottocento, di cui duecento donne. Sono numeri impressionanti per la diffusione e la capillarità – ancorché reali, dato che bisognava pagare con regolarità ogni mese la propria quota di dieci soldi per avere e mantenere la tessera di socio. Per essere un “fratello”. Per capirli ancora meglio, bisogna raffrontarli con tutta la manodopera della campagna: nel 1903 [Vacirca, ma Giarrizzo non si discosta di molto] si calcolò in 476mila il numero dei giornalieri e 250mila per tutte altre categorie, tra cui 75mila «contadini, possidenti in parte e in parte fittavoli, mezzadri e giornalieri». Se 700mila era tutta la forza-lavoro della terra [e probabilmente, nel 1903, a dieci anni dai Fasci, già diminuita per processi di urbanizzazione e emigrazione] e 350mila quelli mobilitati dai Fasci [anche a prendere con le molle un dato non registrato], significa che la metà era in lotta. Quando il 31 luglio 1893 iniziò a Corleone la lotta per modificare e chiedere nuovi Patti colonici, nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta tra agosto, settembre e ottobre la mobilitazione mosse 50mila unità. E successi elettorali si colsero dove vennero presentate liste amministrative, a Messina, Catania, Caltanissetta, Alcamo, Piana degli Albanesi. Dovevano fare proprio paura, con le loro coccarde, le loro sciarpe rosse, i loro stendardi, le loro bande musicali, le loro passeggiate, le loro Sante Vergini, tutti questi “fascianti”. Paura e entusiasmo, a seconda, certo. A secondo del luogo in cui si colloca lo sguardo. Una cosa nuova che la chiamavano sciopero [Sipala]. Una materia fantastica. Un’epopea.
Nei primi giorni di ottobre del 1893 giunge in Sicilia Adolfo Rossi, brillante e affermato giornalista autore di reportage di successo apparsi su diversi giornali e riviste. Vi è stato inviato da uno dei più diffusi quotidiani dell’Italia centro-meridionale, «la Tribuna», con l’incarico di compiere un’ampia inchiesta giornalistica sul fenomeno dei Fasci, le cui risultanze appariranno in undici puntate, tra l’8 ottobre e il 3 novembre 1893 [Fedele]. L’inviato della «Tribuna» volle conoscere di persona la realtà dei Fasci e animato da tale proposito compierà un giro, in ferrovia, a diligenza, a cavallo, visitando ampie zone dell’interno, nelle province di Palermo, Caltanissetta e Agrigento. Scenderà nelle miniere di zolfo e vedrà i carusi, veri schiavi del lavoro, ricavandone una pena infinita, parlerà direttamente con centinaia di contadini, artigiani, minatori. Rossi, che rimarrà colpito dalle «processioni», dai fuochi di paglia e dalle torce a vento nella notte per avvisarsi un paese con l’altro dell’arrivo di un “capo”, dalle fanfare e dai festoni, dalle carmagnole nere – una pellegrina, con un cappuccio che si chiudeva lasciando scoperti solo gli occhi, sorta di indumento da black bloc – e dai distintivi rossi, e dall’«alone di santità» che circonda alcuni dirigenti dei Fasci, riporta con stupore la significativa presenza femminile. È tutta una carrellata di donne contadine, combattive e determinate, ma alcune rimangono davvero impresse. Siamo al Domatë ë gghindevet cë scerbejn, che poi è il Fascio dei lavoratori di Piana degli Albanesi: «Vedete questa nostra compagna? Mi dissero poi mostrandomi una bella giovane diciottenne, formosa, dai grandi occhi neri, che col viso incorniciato dalla mantellina albanese di lana bianca aveva tutto l’aspetto di una vestale. – Durante l’ultimo tumulto ella si avanzò verso i soldati che avevano spianato le armi contro il popolo e disse loro: “Avreste il coraggio di tirare contro di noi?” Un soldato le rispose piano, per non farsi sentire dagli ufficiali: “Io per me ti do anche il fucile, se lo vuoi”. Il capitano poi le disse: “Invitate le vostre compagne e i vostri uomini a gridare: Viva il Re! Viva l’esercito! e tutto sarà allora finito”. Così infatti avvenne. Da quel momento noi abbiamo scelto questa compagna per portabandiera della sezione femminile del Fascio». Tra non molto non sarebbe bastato gridare Viva il re! e tutto il coraggio di una portabandiera. Ma ancora: «In un giorno attorno alla metà di dicembre del 1893 il Fascio di Santa Ninfa si reca, fanfara e bandiera rossa in testa, nella vicina Gibellina per partecipare all’inaugurazione della locale sezione del Fascio.
Al momento del ritorno dei “fascianti” nel paese, decide di andare loro incontro, nonostante il buio e l’ora tarda, il fascio femminile, composto in gran parte di ragazze nubili. Queste, con fanali, uscirono in aperta campagna per un tratto non breve e sole andarono incontro al fascio degli uomini, cosa che non avrebbero fatto in altri tempi e per qualsiasi altro motivo. Possono maggiormente valutare ciò coloro che conoscevano le nostre donne di allora: era il caso di dire che non si ragionava più». Non si ragionava più. Era proprio il caso di dirlo. Rossi riporterà anche un fatto curioso: i contadini si lasciavano crescere i baffi. «È uno spirito nuovo che si manifesta tra la folla dei contadini poveri, laceri, macilenti; tra i seimila villani – prima del Fascio, come in quasi tutta la Sicilia, anche a Piana degli Albanesi i contadini usavano radersi completamente la faccia –, che in ottemperanza all’invito di Barbato, hanno deciso di portare i baffi come caratteristica della propria dignità umana rivendicata, non si odono più le espressioni consuete di “bacio le mani” né di “vostra eccellenza ci benedica”. Non è cosa da poco». Non erano cosa da poco, i baffi. Non si ragionava più. Una materia fantastica per la narrazione. Un’insurrezione come non s’era mai veduta.
«Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato. Ma non poteva negare che fosse stato aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma con la speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti». [I vecchi e i giovani, p. 146] Lo scandalo della Banca Romana, e in generale la crisi del sistema bancario, fu causato dalla grave depressione iniziata nel 1887-88 e dagli eccessivi investimenti nel settore edilizio, dopo il trasferimento della capitale. Per coprire le perdite, l’istituto di credito della capitale non solo iniziò a emettere nuova moneta senza autorizzazione, ma arrivò addirittura a stampare due serie di biglietti con lo stesso numero di serie, in modo da raddoppiare l’emissione di moneta in circolazione: la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, per cui possedeva sufficienti riserve auree, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia. Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti promosse un’inchiesta e il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo venne arrestato. Dal carcere, Tanlongo affermò di aver dato cospicue somme anche a diversi presidenti del consiglio, tra cui Giovanni Giolitti e Francesco Crispi.
Lo scandalo ebbe non soltanto enorme risonanza nell’opinione pubblica, ma anche pesanti ripercussioni sia a livello politico, sia sul sistema economico e bancario italiano. A seguito del caos finanziario, Giolitti pose mano rapidamente al riordino del sistema creditizio. Ancora tre decenni dopo l’Unità, in Italia vi erano ben sei banche centrali con la facoltà di emettere biglietti di banca intitolati al Regno d’Italia: la Banca Romana, la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Fu fondata la Banca d’Italia attraverso la fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane e alla nuova banca fu affidata la liquidazione della Banca Romana. Il procedere del processo penale e dello scandalo derivato dalla vicenda, con il sospetto di coinvolgimento degli uomini politici e di occultamento delle prove, portò nel novembre 1893 a una crisi politica e alle dimissioni di Giovanni Giolitti da capo del Governo, sostituito in dicembre da Francesco Crispi. [Wikipedia] Certo, rispetto le raffinatezze dell’economia finanziaria di oggi appare un po’ primitivo e rozzo il sistema di stimulus inventato da Tanlongo – che si appoggiò a una tipografia londinese per raddoppiare le serie dei biglietti. Eppure, la “creatività finanziaria” – nove milioni di lire riapparvero in una notte, tramite un prestito virtuale fra collegate – costeggia sempre tra la violazione delle regole e l’agibilità in territori dove le regole non sono ancora vigenti. La bolla immobiliare della speculazione edilizia a Roma, soprattutto, ma anche a Napoli, Torino, Palermo, Firenze, in un ciclo di edificazione selvaggia che sembrava senza fine scoppiò ai primi segni di crisi, trascinandosi dietro il sistema finanziario. Non è una novità. La riorganizzazione del sistema creditizio finì con il produrre un aggravarsi della recessione economica. Non è una novità. E «la speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti», anche questa non è una novità. La novità, allora, furono i Fasci.
Emanuele Notarbartolo dal 1862 è prima reggente poi titolare del Banco di Sicilia. Arruolatosi con l’esercito dei Savoia, si aggrega anche alla spedizione dei Mille con Giuseppe Garibaldi. Nel 1865 è assessore alla polizia urbana a Palermo, con Antonio Starrabba, marchese di Rudinì, come sindaco e nel 1873 viene eletto lui stesso sindaco di Palermo. Dal 1876 si occupa a tempo pieno del Banco di Sicilia: il Banco è sull’orlo del fallimento, e l’opera di Notarbartolo evita di far collassare l’economia siciliana. Il suo lavoro inizia a inimicargli molta gente. Il consiglio della banca è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. Nel 1882 il marchese viene sequestrato per un breve periodo. L’1 febbraio 1893, nel tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. È il primo delitto eccellente di mafia [Wikipedia]. Si disse anche che Notarbartolo si fosse opposto alla «fabbricazione di moneta» del Banco – che aveva facoltà di stampa di moneta nazionale – per il Tanlongo. Tutto si aggrovigliava in Sicilia. Dal luglio 1887 al febbraio del 1891, e dal dicembre 1893 al marzo 1896, a capo del governo c’è Crispi, capo della Sinistra storica, un siciliano. Dal febbraio 1891 al maggio 1892 e dal marzo 1896 al giugno 1898, a capo del governo c’è di Rudinì, capo della Destra storica e del latifondo, un siciliano. Giolitti è dunque un intermezzo, dal maggio 1892 al dicembre 1893, in questo decennio in cui le stragi di Sicilia portano la firma di Crispi e quella delle cannonate di Bava Beccaris a Milano porta la firma di di Rudinì. Crispi e di Rudinì erano entrambi garibaldini, avevano “fatto” il Risorgimento, come peraltro mille altri, come lo stesso Notarbartolo. L’autobiografia di un siciliano, l’autobiografia della Sicilia era autobiografia del Risorgimento di una nazione e dello Stato che ne era venuto fuori. Eccolo, il senso di quel «romanzo autobiografico» di Sciascia. Tutto si aggroviglia lì. Due mesi prima di morire, don Sturzo scrisse: «Nel 1892-93, periodo delle polemiche sulla Banca Romana, io […] mi sentivo estraneo alla politica locale, divisa fra crispini e rudiniani e del tutto ostile ai governi di Roma per i metodi usati in Sicilia; mi sentivo fin da allora regionalista e autonomista avanti lettera». Don Sturzo, fondatore del Partito popolare cattolico, è l’unico che pensa a un programma politico, che sarà poi fondamento costituzionale e istituzionale della nazione, a partire dagli eventi di Sicilia.
«E prese a raccontare, con atteggiamento, di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia, a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo, a Casale Floresta, i quali provavano come in tutta l’isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d’alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall’accetta, poiché la pioggia dei benefizii s’era riversata tutta su l’Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta tra le arse terre dell’isola. Ora i giovincelli s’erano divertiti ad accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano per adesso piccoli scoppii striduli, crepitìi qua e là; scappava fuori ora da una parte ora dall’altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s’addensava nell’aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo invece d’accorrere a gettar acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col fuoco delle armi». [I vecchi e i giovani, p. 187] E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati. «Quei contadini di Sicilia, trovando nella rabbia per l’ingiustizia altrui il coraggio d’affermare con violenza un loro diritto, s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; assente il capo, s’era affacciato al balcone un subalterno che, per allontanare il tumulto, li aveva consigliati di ritornar pure a zappare; ma per via la folla aveva trovato il passo ingombro dalla milizia rinforzata; accennando di voler resistere, s’era veduta prima assaltare alla bajonetta; poi, a fucilate, per avere agitato in aria le zappe a intimorir gli assalitori. Dodici, i morti; più di cinquanta, i feriti: tra questi, alcuni bambini, uno dei quali crivellato da ben sette bajonettate». [I vecchi e i giovani, p. 148] E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati.
«Due cadaveri in quella cassa, uno su l’altro: uno con la faccia sotto i piedi dell’altro. Quello di sopra era d’un ragazzo. Divaricate, le gambe; la testa, affondata tra i piedi del compagno. A guardarlo così capovolto, pareva dicesse, in quell’atteggiamento: – No! No! – con tutto il visino smunto, dagli occhi appena socchiusi, contratti ancora dall’angoscia dell’agonia. No, quella morte; no, quell’orrore; no, quella cassa per due, attufata da quel lezzo crudo e acre di carneficina. La più raccapricciante era la vista dell’altro, di tra le scarpe logore del ragazzo, coi grandi occhi neri ancora sbarrati e un po’ di barba fulva sotto il mento. Era d’un contadino nel pieno vigore delle forze. Con quei terribili occhi sbarrati al cielo, dal corpo supino chiedeva vendetta di quell’ultima atrocità, del peso di quell’altra vittima sopra di sé. – Vedete, Signore, – pareva dicesse, – vedete che hanno fatto!» [I vecchi e i giovani, p. 238] E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati. «E qual rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli… e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia… – Ridere, ridere! – incalzò donna Caterina con più foga. – Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n’ha avuto? Com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del Sessanta? Ma tutti i vecchi qua gridano: Meglio prima! Meglio prima! La Francia che soffia nel fuoco? Lei si conforta così? Sono tutte calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai tirannelli locali capielettori; per mascherare trenta e più anni di malgoverno! Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane! Si stia zitto! Si stia zitto! Perché voi lo vedrete, – concluse. Faccio una facile profezia: non passerà un anno, assisteremo a scene di sangue». [I vecchi e i giovani, p. 59] Non passerà un anno. Una facile profezia.
Nella sua Storia d’Italia, Benedetto Croce si chiede se era possibile o concepibile che «la prima regione d’Italia, in cui il socialismo marxistico e rivoluzionario parve fare le prime prove pratiche e discendere alla effettiva rivoluzione fosse la meno industriale, la meno progredita, la più distaccata dal resto d’Italia, la Sicilia» [Renda]. In realtà, i primi a non considerarlo concepibile furono proprio i socialisti. Il meccanicismo positivistico è come un mantra: industrializzazione, civiltà, progresso. Al congresso di Reggio Emilia del 1893, mentre in Sicilia da oltre un mese è in corso lo sciopero agrario in quattro province, i socialisti assumono un punto di vista sulla questione delle campagne assolutamente “operaista”: «sorvegliare e dirigere l’azione economica del partito, specialmente fra gli operai di città e di campagna». Gli operai di campagna. I contadini sono guardati con sospetto: «nei nostri paesi dell’Italia media, ad esempio, dove fra gli agricoltori sono rari i giornalieri, ove vige su larga scala il contratto di mezzadria, ove la piccola proprietà agricola è ancora abbastanza estesa, la propaganda nelle campagne incontra gravi difficoltà, per quel relativo benessere in cui si trovano gli abitanti rurali; benessere che li tiene asserviti alla borghesia, la quale usa del contadino come strumento per mantenersi a capo delle pubbliche amministrazioni e per continuare l’opera di sfruttamento a danno delle classi lavoratrici». [Renda] È un giudizio durissimo, ovviamente non condiviso da tutto il Congresso. Si parlò di cooperative agricole per la coltivazione in comune delle terre; di cooperative per l’acquisto dei concimi e l’uso in comune di macchine agricole; di depositi di prodotti che permettessero di anticipare parte del loro valore ai mezzadri e ai piccoli proprietari, e di vendere poi i prodotti stessi nei momenti più opportuni. Tutte cose, peraltro – cooperative di consumo e spacci alimentari – che i Fasci stavano già ampiamente sperimentando. Ma una decisione vincolante congressuale non fu presa e il dibattito – che implicava e si sovrapponeva a quello dell’alleanza tattica con altri partiti per le elezioni – fu rinviato. I Fasci restarono soli. Tra il 1888 e il 1895, in Sicilia esplode il dramma della crisi agraria, che non è solo del grano ma anche del vino, per via della guerra tariffaria con la Francia, e si intreccia a quella dello zolfo, per via del prodotto americano.
A partire dagli ultimi mesi del 1892 la situazione diventa intollerabile. De Felice, al processo, dirà che il raccolto dei grani del 1892 e del 1893 fu inferiore del 44 percento, e tutti gli altri di un terzo e un quarto. E qui si colloca la diffusione straordinaria dei Fasci nel contesto rurale, con l’adesione a essi non soltanto dei braccianti, ma anche di una porzione considerevole dei mezzadri e dei piccoli proprietari e di settori non irrilevanti di piccoli proprietari pesantemente penalizzati dalla crisi. Ad organizzarli «centinaia di giovani professionisti e studenti universitari siciliani, espressione di un fenomeno che negli ultimi anni del secolo vede settori certamente minoritari ma non insignificanti della gioventù studiosa siciliana abbracciare la causa del riscatto della loro terra» [Fedele]. Eccolo, il «dramma della generazione» di Pirandello. Il dramma di chi si affaccia al mondo e incontra qualcosa che mai s’è veduto prima. I Fasci non sono un fenomeno dell’arretratezza – i processi di urbanizzazione si accompagnano a quelli di ruralizzazione – delle campagne, né un fenomeno epigone di un Risorgimento “incompiuto”, ma un’intuizione straordinaria sulla crisi e sul conflitto: lo scontro non è solo tra classi, ma direttamente con lo Stato – con la richiesta di abolire o ridurre le tasse comunali, sciogliere le amministrazioni locali –, non c’è mediazione dei partiti ma immediato protagonismo di masse popolari, e, soprattutto, utilizzano la piazza come luogo naturale ove la lotta trova il modo di esplicarsi in tutto il vigore. È la lotta di strada. È il tumulto. È l’insurrezione. Tra il 1891 e il 1893 le contraddizioni politiche tra classi dirigenti dello Stato, la crisi economica, la crisi finanziaria, la recessione, e l’affacciarsi di una “cosa” che mai si era vista prima, un movimento sociale composito e insorgente, si concentrano tutte in un territorio. Tutto si aggroviglia lì, in Sicilia. «Sapeva, sì, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione improvvisa, prodigiosa!» [I vecchi e i giovani, p. 170] Tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Un prodigio, in Sicilia! Ma i socialisti cercano soprattutto di allontanare da sé l’accusa di avere parte, diretta o indiretta, nei tumulti popolari. Salvemini sarà spietato: «La jacquerie del ’93 fu una convulsione isterica, nella quale il socialismo ci entrò solo perché, essendovi nel resto del mondo un partito socialista rivoluzionario, questi affamati saccheggiatori di casotti daziari credettero di essere socialisti anche essi». I Fasci rimangono soli. I contadini rimangono soli.
Quando ormai le stragi di contadini sono diventate quotidiane, lo stato d’assedio è proclamato, i dirigenti e i militanti dei Fasci sono già in prigione, Eduardo Boutet – un giovane brillante critico teatrale napoletano molto letto e seguito – pubblicava nel «Don Chisciotte» di Roma del 7 gennaio 1894 un articolo dal titolo: Sicilia verista e Sicilia vera. È un attacco frontale, senza riguardi, contro i grandi vecchi del verismo, del romanzo realista, Capuana e Verga: «E voi scrittori siciliani, di novelle, di bozzetti, di macchiette e via, perché ne’ vostri libri, non avete narrate quelle sciagure? Luigi Capuana e Giovanni Verga hanno sempre dichiarato che essi riproducevano, dall’ambiente al carattere, il vero. Tutto e solo per la verità. Né è stato consentito mai il dubbio sulla validità del documento. Si era convinti e persuasi, perché dubitare della sincerità?, che quelle creature rese poi addirittura popolari nel mondo dalle note di Cavalleria Rusticana, fossero così e non altrimenti. E si giurava che quella era la verità, tutta la verità, niente altro che la verità: Cavalleria rusticana, e Santuzza, e Turiddu e compare Alfio, con relative piccole sventure di persone, non tragedie di popolo, anzi gente di buon augurio in fondo. Ma ecco i fatti di Sicilia. Quella letteratura speciale e caratteristica, dove aveva trovato i suoi documenti? Il vero… il vero come? il vero dove? Quelle macchiette, quei bozzetti, quelle novelline di dove fiorivano?
Quale fosse il martirio precisamente de’ contadini proprio di quelli che fornivano il modello secondo tutte le Cavallerie rusticane del genere, si vede nei tristi casi di questi giorni. Altro che compari Turiddu e compari Alfio, e morsetti all’orecchio e male pasque a te e a me! Basta la storia squadernata al sole della sola zolfara per sentirsi spezzare l’anima. Invece compare Alfio se ne veniva a cantare allegramente alla ribalta: Oh, che bel mestiere fare il carrettiere. Ecco, è chiaro. Vuol dire che la Sicilia degli scrittori che riproducevano dal vero, è diversa, assai diversa, dalla Sicilia vera: popolo che soffre tutti gli strazi e tutti i soprusi, e che cerca nella morte la fine de’ patimenti più infami e più ingiusti. Vuol dire che la Sicilia-Cavalleria Rusticana, nella quale si può riassumere la macchietta, il bozzetto e la novella, era una Sicilia esercitazione letteraria, quindi retorica nel metodo, e nel fine una Sicilia d’osservazione in prima pelle, o in quanto si presta alla grazietta accademica e nulla più: di maniera. Vuol dire che quegli scrittori hanno forse tutte le doti di artisti, non mi riguarda, ma quando gridano di riproduzione dal vero non sono esatti: si sono fermati a’ giubbetti ed ai fioretti, e nelle anime non hanno guardato: se le anime avessero vedute e sentite ben altro dovere avrebbero dato alla loro letteratura. Con i carusi non si fanno i volumini gingilli e le illustrazioncelle civettuole pe’ salottini rococò!»
Boutet – che di sicuro ha letto i reportage di Rossi e ne è rimasto impressionato – sembra dire due cose e non soltanto una a Capuana e Verga. La prima, che la loro narrativa non fosse poi davvero veristica, non fosse cioè capace di intercettare la realtà del tempo; la seconda, che si fosse fermata alla superficie dei fatti e dei personaggi, senza guardare dentro le loro anime. Entrambe, la superficialità e il manierismo dei narratori siciliani che, in quel momento, sono «la» letteratura nazionale, a me però non sembra colgano il punto. L’antagonismo fra scritture non poteva ridursi – e questo è un argomento che ancora oggi ci pertiene – tra reportage giornalistico aderente alle cose e narrazione dove la verità dei fatti si mescola alla finzione. Il vero… il vero come? il vero dove? Io direi piuttosto: Il vero, quale? Boutet sembra spingere per un «linguaggio delle cose», quello che Pirandello indicherà come antagonista al «linguaggio delle parole». Ma quali cose? In ogni caso, Capuana si sente piccato e s’incarica di rispondere, sullo stesso giornale, per le rime a Boutet. «Sotto l’incubo dei terribili telegrammi che arrivano di laggiù, voi vi siete rammentato di compare Alfio, di compare Turiddu, e siete rimasto strabiliato di vedere che in Sicilia, invece di ammazzarsi con la solita regola di mordersi l’orecchio, si fanno ammazzare in tutt’altri modi e ammazzano e incendiano e devastano come non fa nessuno dei personaggi di Cavalleria rusticana: e allora, avete esclamato: – Ma che sono venuti a contarci il Verga e il Capuana coi loro pretesi siciliani? I veri siciliani sono questi qui, questi dei telegrammi della Stefani! Che ne sapete voi, caro Boutet, che non siete mai stato in Sicilia? Come potete giudicare che i veri siciliani siano questi e non gli altri da noi descritti. Ecco, leggete qui: “Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: Viva la libertà! Come il mare in tempesta, la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. – A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo; armata soltanto delle unghie. – A te prete del diavolo, che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro, che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! E il sangue che fumava e ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! Ammazza! Addosso ai cappelli”. Vi pare un telegramma da Caltavuturo o da Valguarnera? Ebbene è proprio il principio di una delle Novelle rusticane del Verga. Voi parlate d’arte, sentenziate che gli autori contemporanei dovrebbero sentir fremere nell’anima l’opera civile, l’opera d’arte verrebbe poi! Caro Boutet, permettetemi di dirvi che questa non è materia vostra, e che fareste meglio a non buttarvi in tal ginepraio. L’opera d’arte viene quando dee venire, cioè quando c’è l’artista che sa farla; e pare che, a giudizio dei competenti, il Verga e qualche altro abbiano saputo farla, senza preoccuparsi dei Fasci e dell’onorevole De Felice, osservando la Sicilia in istato normale, in istato di sanità e non di eccitazione morbosa». La Sicilia è per Capuana in stato di eccitazione morbosa. È, come diceva Salvemini, in una convulsione isterica. Non la si può capire così. Non si ragionava più. Capuana non la riconosce più. O ne conosce solo gli sbotti tumultuosi di sempre – Ammazza, ammazza. È quella la verità della Sicilia, per il verismo. E forse non solo per il verismo: Mario Rapisardi, il “lirico” poeta catanese di risonanza nazionale – Pirandello, in gioventù ne era affascinato, ma presto la sua scrittura se ne allontanò – aveva declamato nel Canto dei mietitori: «O benigni signori, o pingui eroi, / Vengano un po’ dove falciamo noi: / Balleremo il trescon, la ridda, e poi… / Poi falcerem le teste a lor signori». Per Capuana, i De Felice e i Fasci passano, o contano poco. Resta sempre: Ammazza, ammazza. Un’anima violenta e dura, cupa e sanguinaria. Da fermare con l’esercito. Capuana e Verga [l’incipit riportato da Capuana è quello della novella Libertà di Verga] hanno attestato la loro letteratura sul Risorgimento. E sulla proprietà. È quello il loro verismo: la proprietà della terra. Senza la proprietà della terra, resterebbe il caos, u’ cavusu. E questo è il punto: in nome del Risorgimento, che è forma dello Stato italiano, della politica italiana fra una Destra storica e una Sinistra storica – Trenta e più anni di malgoverno. Meglio prima! Meglio prima! – che sono affare di siciliani, bisogna fermare quel caos. Loro, meglio di chiunque altro, sanno quale prateria si va incendiando. Senza proprietà della terra, c’è il caos. È qui che si colloca il “vero” – il vero, come? il vero, dove? il vero, quale? «L’uomo incappucciato esitò ancora un po’, prima di rispondere; volse intorno gli occhi sospettosi, poi mormorò, sempre dentro il cappuccio: – M’hanno parlato a quattr’occhi… Persona fidata… Dice che… E s’interruppe di nuovo. – Parla, parla, figlio mio, – lo esortò il Pigna. – Siamo qua soli… Che t’hanno detto? Gli occhi sospettosi sotto il cappuccio espressero lo sforzo penoso che colui faceva su se stesso per vincere il ritegno di parlare. Alla fine, stringendosi più al muro e stendendo appena fuor del cappotto una mano sul braccio del Pigna, domandò a bassissima voce: – È qua che si spartiscono le terre? Nocio Pigna, mezzo imbalordito per tutto quel mistero, restò a guardarlo un pezzo di traverso, a bocca aperta. – Le terre? – disse. – Le terre, no, figlio mio. Quegli allora alzò il mento e chiuse gli occhi, per un cenno d’intesa. Sospirò: – Ho capito. Mi pareva assai! Mi hanno burlato. E si mosse per andar via. Nocio Pigna lo trattenne. – Perché burlato? No, figlio mio… Senti… – Mi scusi Voscenza, – disse quegli, fermandosi per farsi dar passo. – È inutile. Ho capito. Mi lasci andare… – E aspetta, caro mio, se non mi dài il tempo di spiegarmi… – s’affrettò a soggiungere il Pigna. – Le terre, sissignore, verranno anche quelle… Basta volere! Se noi vogliamo… Sta tutto qui! Unione, corpo di Dio, e siamo tutto, possiamo tutto! La legge la detteremo noi: debbono per forza venire a patti con noi. Chi lavora? chi zappa? chi semina? chi miete? O date tanto, o niente! Questo per il momento. Il nostro programma… Vieni, ti spiego tutto… – Voscenza mi lasci andare… Non è per me…» [I vecchi e i giovani, p. 101] Al processo contro i dirigenti dei Fasci che si tenne a Palermo tra l’aprile e il maggio del 1894 davanti al Tribunale militare di guerra, il 28 aprile viene a testimoniare, a favore di Garibaldi Bosco, il deputato Antonio Marinuzzi, avvocato, un moderato riformista.
Tra le altre cose, dice: «Anch’io sono per la proprietà collettiva in Sicilia perché è un concetto altamente storico. I contadini nostri si trovano in condizioni peggiori di quando vi era il feudo. La proprietà in Sicilia è male organizzata; una migliore organizzazione non suppone che si debba dare la proprietà ai contadini, ma l’uso di pascere, di seminare, di legnare, usi inalienabili. Questo è un concetto santissimo, ma messo questo concetto in piazza a gente che non sa leggere e scrivere e che è vittima di ingiustizie, questo concetto scientifico, seminato in quel terreno, non produce gli effetti che dovrebbe produrre, perché capiscono invece quelle genti che devono dividere le terre col proprietario». [«l’Ora», 28 ottobre 1974]. Quello capivano i contadini, che dovevano dividere le terre. Un concetto scientifico, certo. Un concetto storico, certo. Un concetto santissimo, certo.
Pirandello intuisce la frattura temporale che si condensa nei fatti di Sicilia, nell’esperienza dei Fasci, che non è più fra “l’allora” e “l’adesso”, fra il Risorgimento e l’Italia che s’è venuta a formare, ma è tra “l’ora” e il “dopo”, il tempo di questa nuova storia, quella dei movimenti del lavoro. «Che volevano infatti tutti quei suoi compagni? Ben poco, per il momento, in Sicilia. Volevano che, per l’unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti più umani i proprietarii di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero l’usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l’impianto di cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell’isola; riuscir vittoriosi in qualche collegio politico, per aver controlli e banditori delle più urgenti necessità dei miseri nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati. Questo volevano. Ed era giusto. Non c’era altro da volere, altro da fare, per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse nessuno, fuori dell’isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse più ai padri che ritornavano disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spento; che fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza bisogno d’assumere quelle arie d’apostoli, di profeti di paladini. Oneste, modeste aspirazioni, quasi evangelicamente disciplinate, da raggiungere grado grado, col tempo e con la chiara coscienza del diritto negato! Perché ancora, ancora dentro, esasperatamente, gli scattava la protesta: – No, non è questo? – Mancava il coro innumerevole, che era in Sicilia». [I vecchi e i giovani, p. 174] Il coro innumerevole dell’insurrezione mette in crisi il convinto riformismo, quel «grado grado», quel «lieve, lieve». – No, non è questo. Una buona legge agraria, migliori patti colonici, salari più decenti. Ed era giusto. – No, non è questo. La conquista dei pubblici poteri, fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell’isola, riuscir vittoriosi in qualche collegio politico. Ed era giusto. – No, non è questo. Cosa allora, cosa vuole il coro innumerevole dell’insurrezione? E chiede mai qualcosa, il tumulto, l’insurrezione? Riesci a sentirlo, a capirlo? A scriverne?
Il giudizio di Croce sul gruppo dirigente dei Fasci è durissimo: «Il torto di quegli uomini, di quei giovani, era di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano e dalle quali erano lontanissime: cioè di tentare sia pure a fin di bene, un imbroglio; che non è cosa che possa mai partorir bene e, tessuta con l’inganno, merita di essere distrutta con la forza». Una valutazione, che lo accomuna ai socialisti del tempo, sulla “impreparazione delle masse”, si accompagna a un’altra, che lo accomuna alla reazione del tempo, sull’uso della repressione. Per alcuni versi, Croce non fa che riecheggiare Pirandello, la cui descrizione dei personaggi dirigenti dei Fasci locali è crudele: «E dalla svoltata apparvero sotto un ombrellaccio verde sforacchiato, stanchi e inzaccherati, i due inseparabili Luca Lizio e Nocio Pigna, o, come tutti da un pezzo li chiamavano, Propaganda e Compagnia: quegli, uno spilungone ispido e scialbo, con un pajo di lenti che gli scivolavano di traverso sul naso, stretto nelle spalle per il freddo e col bavero della giacchettina d’estate tirato su; questi, tozzo, deforme, dal groppone sbilenco, con un braccio penzolante quasi fino a terra e l’altro pontato a leva sul ginocchio, per reggersi alla meglio. Erano i due rivoluzionarii del paese. Nocio Pigna aveva posto davanti e dietro e tutt’intorno a sé ragioni e sentimenti, tutte le sue disgrazie, com’armi di difesa contro a quelli che lavoravano accanitamente per levargli ogni credito. Più parlava e più le sue stesse parole accrescevano la sua persuasione e la sua passione. Ma a furia di ripetere sempre le medesime cose, col medesimo giro, queste alla fine gli s’erano fissate in una forma che aveva perduto ogni efficacia; gli s’erano, per dir così, impostate su le labbra, come bocche di fuoco che non mandavano più fuori se non botto, fumo e stoppaccio. Dentro, non aveva più nulla. Era un uomo che parlava, e nient’altro». [I vecchi e i giovani, p. 25] Un uomo che parlava, e nient’altro. Un linguaggio di parole, ciò che Pirandello massimamente detestava. Un imbrogliare, lo definisce Croce. In un certo senso, l’appello che i dirigenti dei Fasci – Barbato, Bosco, De Felice, De Luca, Leone, Montalto, Petrina, Verro – lanciarono dalla “clandestinità” il 3 gennaio sembra dargli ragione: «Lavoratori! Ritornate alla calma, perché coi moti isolati e convulsionari non si raggiungono benefici duraturi». De Felice era per un moto insurrezionale, gli altri no, e vinse l’invito alla calma. Avevano acceso «sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco». Ora, nessuno sapeva più cosa fare. E il governo mandava solo soldati. Ma il giudizio di Croce e di Salvemini e di Pirandello – lo scriteriato agire dei «giovincelli» e il teppismo delle masse agitate – sembra un refrain buono per ogni rivolta, per ogni volta che i caratteri del lavoro si modificano e l’irruzione di una nuova soggettività politica fa da abbrivio a nuova composizione sociale. Toccò anche a noi del Settantasette, la nostra quota di «giovincelli» e di «saccheggiatori di casotti daziari» con l’aggiunta di una colpa di “dannunzianesimo” che mi irritava massimamente. E però, è questo il punto: «La plebe contadina costituisce una delle forze sociali protagoniste dei Vecchi e i giovani ma non è in grado di incarnarsi in individualità compiute e complesse» [Spinazzola]. È come lo sciame sismico di un terremoto che continua a far ballare la terra, che pervade tutto il romanzo e invade i sentimenti dei protagonisti e ogni loro azione, il “paesaggio” dentro il quale si collocano le scelte. Perché mai dovrebbe «incarnarsi in individualità compiute e complesse»? Può mai, una moltitudine, una insurrezione «incarnarsi in individualità compiute e complesse» d’una narrazione? E perché questa assenza, questa manchevolezza dovrebbe restituirci «masse ignoranti e inconsapevoli»? La forza narrativa di quella moltitudine – di quel coro innumerevole – sta nella sua indeterminatezza e pure nella sua precisa determinazione. Nel suo incombere sulle nostre stesse vite. Siamo mai pronti per un’insurrezione? Si può raccontare l’apocalisse? Il vero… Il vero, come? Il vero, dove? Il vero, quale?


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