Per dare a
tutti la possibilità di farsi in’idea personale sulle polemiche in corso sulla
cosiddetta “trattativa Stato-mafia”
ripropongo l’articolo di Emanuele Macaluso pubblicato ieri su L’Unità
con la replica del Magistrato Antonio Ingroia apparsa oggi sullo stesso
giornale.
Emanuele Macaluso: Stato-mafia, ecco la storia vera.
Domenica scorsa Antonio
Ingroia ha rilasciato una intervista al quotidiano la Repubblica per dire che
nella vicenda della cosiddetta «trattativa Stato-mafia» peserebbe come un
macigno «una ragione di Stato che impedisce l’accertamento della verità sulla
base del diritto penale». La questione è posta con un interrogativo retorico,
dato che nel corso dell’intervista il dottor Ingroia mostra di essere certo che
quel macigno c’è. Infatti afferma: «Dalla politica debbono venire parole
chiare: se si ritiene che debbano essere sottratte alla verifica della
magistratura temi o territori coperti dalla ragione di Stato, lo si dica».
E chi lo deve dire? Il presidente della Repubblica, come afferma lo stesso Ingroia, ha detto con chiarezza che occorre andare sino in fondo per accertare la verità. Il presidente del Consiglio è chiaramente sulla stessa linea. Ingroia fa riferimento ad «autorevoli commentatori» che «tra parole dette e non dette» alimenterebbero l’equivoco di «una presunta ragione di Stato che dovrebbe fermare l’azione della magistratura».
Chi sono questi autorevoli commentatori? Poi, invece, è lo stesso Ingroia che lamenta «una chiusura corporativa di alcuni poteri dello Stato. E una sorta di complicità istituzionale». Il procuratore aggiunto di Palermo ha il dovere di essere esplicito: chi sono i poteri che si chiudono? A quale complicità istituzionale fa riferimento? La verità è che tutto l’impianto dell’inchiesta (legittima) è debole, molto debole. Ed è questa, penso, la ragione per cui il procuratore capo non ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal dottor Ingroia e altri tre sostituti.
Intanto si continua a parlare di una trattativa tra «Stato e mafia» e non si capisce chi rappresentava lo Stato in questo negoziato. La storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia è ricca di fatti e episodi, e sul tema c'è una ricca letteratura. Gli storici ci hanno raccontato come e dove si esprimeva questo rapporto, le persone e le istituzioni coinvolte. Il vecchio Napoleone Colajanni e Gaetano Salvemini chiamarono in causa il ministro Giovanni Giolitti, il quale non con una «trattativa» ma attraverso i prefetti usava la mafia (usando anche il confino di Polizia) per vincere le elezioni nei collegi siciliani.
E chi lo deve dire? Il presidente della Repubblica, come afferma lo stesso Ingroia, ha detto con chiarezza che occorre andare sino in fondo per accertare la verità. Il presidente del Consiglio è chiaramente sulla stessa linea. Ingroia fa riferimento ad «autorevoli commentatori» che «tra parole dette e non dette» alimenterebbero l’equivoco di «una presunta ragione di Stato che dovrebbe fermare l’azione della magistratura».
Chi sono questi autorevoli commentatori? Poi, invece, è lo stesso Ingroia che lamenta «una chiusura corporativa di alcuni poteri dello Stato. E una sorta di complicità istituzionale». Il procuratore aggiunto di Palermo ha il dovere di essere esplicito: chi sono i poteri che si chiudono? A quale complicità istituzionale fa riferimento? La verità è che tutto l’impianto dell’inchiesta (legittima) è debole, molto debole. Ed è questa, penso, la ragione per cui il procuratore capo non ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal dottor Ingroia e altri tre sostituti.
Intanto si continua a parlare di una trattativa tra «Stato e mafia» e non si capisce chi rappresentava lo Stato in questo negoziato. La storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia è ricca di fatti e episodi, e sul tema c'è una ricca letteratura. Gli storici ci hanno raccontato come e dove si esprimeva questo rapporto, le persone e le istituzioni coinvolte. Il vecchio Napoleone Colajanni e Gaetano Salvemini chiamarono in causa il ministro Giovanni Giolitti, il quale non con una «trattativa» ma attraverso i prefetti usava la mafia (usando anche il confino di Polizia) per vincere le elezioni nei collegi siciliani.
Ma torniamo a vedere cosa è
successo oggi, cercando anche di capire quel che abbiamo visto ieri. E per
capirlo occorrono anche analisi politiche su fatti e fenomeni che non si
configurano come «trattativa» fra due soggetti, lo Stato e la mafia, con
plenipotenziari, ma come atti politici. Giovanni Bianconi (Corriere della Sera,
25 luglio) sostiene che «la trattativa è cominciata prima della strage di
Capaci ed è continuata dopo.
Aveva obiettivi più ampi e complessi dell’attenuazione del carcere duro per i boss. Serviva a stabilire la nuova convivenza tra Stato e Cosa Nostra che aveva resistito sino al 1992. La trattativa per ridefinire l’accordo tra la politica e la mafia nella seconda Repubblica cominciò con il delitto Lima».
Bianconi sbaglia. La «convivenza» finisce quando comincia l’attacco mafioso terroristico. Anche la discutibile sentenza della Corte di Appello di Palermo nei confronti di Andreotti dice che l’ex presidente «convisse» con la mafia sino al 1980. E del resto fu Andreotti a fare il decreto (contestato da tanti costituzionalisti, tra cui Rodotà) con cui rimise in carcere i capi mafia della «cupola» di Cosa nostra, scarcerati, per decorrenza dei termini, dalla Cassazione.
La Dc, partito di governo, non poteva accettare il ricatto della mafia che uccideva carabinieri, poliziotti e magistrati: conviveva con la mafia ma nel «quieto vivere», per usare un’espressione andreottiana. E questa realtà non fu, come tanti mafiologi da strapazzo vanno dicendo, voluta e vissuta solo da Andreotti. Il quale, sino alle elezioni del 1968, in Sicilia non aveva corrente e rappresentanti: Lima, Gioia e Ciancimino erano fanfaniani.
Il grande compromesso tra mafia e Dc ha una data carica di significati politici: il 1948. Nelle prime elezioni regionali del 1947, la Dc ottenne poco più del 20% (20 deputati su 90), nel 1948 sfiorò la maggioranza assoluta. Ma dopo le elezioni regionali (20 aprile 1947), il Primo maggio, si verifica la strage di Portella e uno dietro l’altro vengono uccisi quattro dirigenti sindacali, Li Puma, Rizzotto, Cangelosi, Miraglia che guidavano il movimento contadino.
La mafia a Portella usò la banda Giuliano per consumare la strage, ma successivamente uccise Giuliano e lo consegnò cadavere ai carabinieri del colonnello Luca, il quale col capitano Perenze furono decorati e promossi per l’impresa. E Pisciotta, sicario dei carabinieri, fu avvelenato nel carcere dell’Ucciardone. Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana.
Aveva obiettivi più ampi e complessi dell’attenuazione del carcere duro per i boss. Serviva a stabilire la nuova convivenza tra Stato e Cosa Nostra che aveva resistito sino al 1992. La trattativa per ridefinire l’accordo tra la politica e la mafia nella seconda Repubblica cominciò con il delitto Lima».
Bianconi sbaglia. La «convivenza» finisce quando comincia l’attacco mafioso terroristico. Anche la discutibile sentenza della Corte di Appello di Palermo nei confronti di Andreotti dice che l’ex presidente «convisse» con la mafia sino al 1980. E del resto fu Andreotti a fare il decreto (contestato da tanti costituzionalisti, tra cui Rodotà) con cui rimise in carcere i capi mafia della «cupola» di Cosa nostra, scarcerati, per decorrenza dei termini, dalla Cassazione.
La Dc, partito di governo, non poteva accettare il ricatto della mafia che uccideva carabinieri, poliziotti e magistrati: conviveva con la mafia ma nel «quieto vivere», per usare un’espressione andreottiana. E questa realtà non fu, come tanti mafiologi da strapazzo vanno dicendo, voluta e vissuta solo da Andreotti. Il quale, sino alle elezioni del 1968, in Sicilia non aveva corrente e rappresentanti: Lima, Gioia e Ciancimino erano fanfaniani.
Il grande compromesso tra mafia e Dc ha una data carica di significati politici: il 1948. Nelle prime elezioni regionali del 1947, la Dc ottenne poco più del 20% (20 deputati su 90), nel 1948 sfiorò la maggioranza assoluta. Ma dopo le elezioni regionali (20 aprile 1947), il Primo maggio, si verifica la strage di Portella e uno dietro l’altro vengono uccisi quattro dirigenti sindacali, Li Puma, Rizzotto, Cangelosi, Miraglia che guidavano il movimento contadino.
La mafia a Portella usò la banda Giuliano per consumare la strage, ma successivamente uccise Giuliano e lo consegnò cadavere ai carabinieri del colonnello Luca, il quale col capitano Perenze furono decorati e promossi per l’impresa. E Pisciotta, sicario dei carabinieri, fu avvelenato nel carcere dell’Ucciardone. Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana.
Senza trattative la mafia,
che aveva sostenuto i liberali, i separatisti, i monarchici transitò nel
partito che ormai deteneva il potere. Con la benedizione del cardinale Ruffini.
La rivista di Giuseppe Dossetti «Cronache sociali» documentò il transito
guidato dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio Emanuele Orlando, nel
palermitano, alla Dc.
Nel ’48 il blocco anticomunista non ammetteva eccezioni: la mafia era parte del sistema, nel «quieto vivere». Un uomo come l’avvocato Giuseppe Alessi, sturziano, antifascista intransigente, fondatore della Dc, primo presidente della Regione, dirigente della Dc di Caltanissetta nel 1943-46, opponendosi all’ingresso della mafia di Genco Russo e Calogero Volpe (deputato e sottosegretario) si dimise da segretario e restò, nella sua provincia, sempre all’opposizione.
Ma fu lui, in un’intervista, a dire al giornalista Francesco Merlo che tra il comunismo e la mafia la Dc non poteva che scegliere Cosa Nostra. E lo fece governando De Gasperi, Fanfani, Moro, Rumor, Andreotti. Lo fece pensando di poter «governare» una connivenza con la mafia nella «legalità» consentita dai tempi.
Quando il sistema politico entra in crisi, dopo l’uccisione di Moro (1978), e nel tribunale di Palermo cambia il vento con il procuratore Gaetano Costa, con Chinnici e Terranova, e cambia anche nella Questura, nei Carabinieri, nella Regione con Piersanti Mattarella, Cosa Nostra inizia la mattanza: il commissario Boris Giuliano e Terranova nel 1979, Costa e Mattarella nel 1980 e dopo di loro Chinnici, Dalla Chiesa, e tanti altri sino a Falcone e Borsellino.
Nel 1993 la sinistra vince in tutti i grandi Comuni italiani, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Messina, ecc... A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70%: c’è la sua Rete e i Progressisti con Occhetto e Bertinotti pensano di avere già in mano la vittoria nelle elezioni politiche. La controffensiva della destra e dei moderati trova espressione in Berlusconi.
Nel ’48 il blocco anticomunista non ammetteva eccezioni: la mafia era parte del sistema, nel «quieto vivere». Un uomo come l’avvocato Giuseppe Alessi, sturziano, antifascista intransigente, fondatore della Dc, primo presidente della Regione, dirigente della Dc di Caltanissetta nel 1943-46, opponendosi all’ingresso della mafia di Genco Russo e Calogero Volpe (deputato e sottosegretario) si dimise da segretario e restò, nella sua provincia, sempre all’opposizione.
Ma fu lui, in un’intervista, a dire al giornalista Francesco Merlo che tra il comunismo e la mafia la Dc non poteva che scegliere Cosa Nostra. E lo fece governando De Gasperi, Fanfani, Moro, Rumor, Andreotti. Lo fece pensando di poter «governare» una connivenza con la mafia nella «legalità» consentita dai tempi.
Quando il sistema politico entra in crisi, dopo l’uccisione di Moro (1978), e nel tribunale di Palermo cambia il vento con il procuratore Gaetano Costa, con Chinnici e Terranova, e cambia anche nella Questura, nei Carabinieri, nella Regione con Piersanti Mattarella, Cosa Nostra inizia la mattanza: il commissario Boris Giuliano e Terranova nel 1979, Costa e Mattarella nel 1980 e dopo di loro Chinnici, Dalla Chiesa, e tanti altri sino a Falcone e Borsellino.
Nel 1993 la sinistra vince in tutti i grandi Comuni italiani, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Messina, ecc... A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70%: c’è la sua Rete e i Progressisti con Occhetto e Bertinotti pensano di avere già in mano la vittoria nelle elezioni politiche. La controffensiva della destra e dei moderati trova espressione in Berlusconi.
Non sottovalutate il dato
politico: la destra è solo il Msi, i partiti dell’area moderata sono in
frantumi e con loro anche il Psi, c’è la Lega che alle elezioni del 1992 ha
ottenuto 80 parlamentari. Tangentopoli suggella un processo politico.
La destra che conta e pesa e le forze moderate si uniscono nella coalizione berlusconiana. E come sempre in Sicilia le «grandi famiglie» si ricollocano e con loro tutte le cosche mafiose. Per quel che mi riguarda non ho dubbi che Marcello dell’Utri abbia avuto un ruolo nel transito, di uomini e cose.
Ma perché tra il ’92 e il ’93, dopo l'uccisione di Lima, la mafia uccide Falcone e Borsellino e organizza le stragi di Roma, Firenze e Milano? Lima è punito perché inadempiente. Falcone e Borsellino sono nemici giurati e responsabili di processi e di ergastoli: debbono morire. È anche un avvertimento all’antimafia. Con le stragi di Roma, Firenze e Milano Cosa nostra voleva ottenere una «trattativa».
Sarà così, c’è una logica. Ma dov’è la contropartita? Nel declassamento del 41 bis per un certo numero di mafiosi detenuti che pure sono rimasti in carcere e tra i quali non c’erano i capi? E perché mai un uomo del livello intellettuale, professionale e morale di Conso avrebbe mentito? Mistero. E, in ogni caso, nonostante tutto ciò che abbiamo visto in questi ultimi vent’anni, i padrini e i loro soci sono tutti in carcere.
Il sacrificio di tanti eroi della lotta alla mafia non è stato invano. È cresciuta una coscienza che tocca l’insieme della società. Oggi occorre colpire le nuove forme con cui la mafia opera in tanti gangli della società: silenziosamente.
La destra che conta e pesa e le forze moderate si uniscono nella coalizione berlusconiana. E come sempre in Sicilia le «grandi famiglie» si ricollocano e con loro tutte le cosche mafiose. Per quel che mi riguarda non ho dubbi che Marcello dell’Utri abbia avuto un ruolo nel transito, di uomini e cose.
Ma perché tra il ’92 e il ’93, dopo l'uccisione di Lima, la mafia uccide Falcone e Borsellino e organizza le stragi di Roma, Firenze e Milano? Lima è punito perché inadempiente. Falcone e Borsellino sono nemici giurati e responsabili di processi e di ergastoli: debbono morire. È anche un avvertimento all’antimafia. Con le stragi di Roma, Firenze e Milano Cosa nostra voleva ottenere una «trattativa».
Sarà così, c’è una logica. Ma dov’è la contropartita? Nel declassamento del 41 bis per un certo numero di mafiosi detenuti che pure sono rimasti in carcere e tra i quali non c’erano i capi? E perché mai un uomo del livello intellettuale, professionale e morale di Conso avrebbe mentito? Mistero. E, in ogni caso, nonostante tutto ciò che abbiamo visto in questi ultimi vent’anni, i padrini e i loro soci sono tutti in carcere.
Il sacrificio di tanti eroi della lotta alla mafia non è stato invano. È cresciuta una coscienza che tocca l’insieme della società. Oggi occorre colpire le nuove forme con cui la mafia opera in tanti gangli della società: silenziosamente.
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Antonio Ingroia, La verità e le
polemiche.
Come al solito, all’indomani di ogni mio tentativo di
aprire dibattiti costruttivi su tematiche che nessuno potrà mettere in dubbio
essere seri, vengo investito da critiche e commenti velenosi. E così succede
ancora una volta dopo che in un’intervista dico due cose ovvie. Primo: c’è chi
protesta contro una presunta invasione di campo della magistratura che,
indagando sulla stagione della trattativa ’92-’94, dovrebbe cedere di fronte ad
un’implicita (forse inconfessabile?) ragion di Stato.
A questi rispondo che, se ragion di Stato vi fu, lo si
dichiari. La politica ha gli strumenti legislativi per fermare la giustizia
penale, e se la veda poi coi cittadini per giustificare una ragion di Stato
che, invece di fermare le stragi, le avrebbe accelerate se non addirittura
causate (basta leggersi le sentenze di Firenze e Caltanissetta per farsene
un’idea). Seconda cosa ovvia: se invece questa presunta ragion di Stato non
viene riconosciuta da alcuna autorità politico-istituzionale, si lasci lavorare
la magistratura, ed anzi la politica faccia la sua parte, approntando gli
strumenti legislativi per agevolare la verità giudiziaria ad emergere e
adoperandosi perché venga fuori anche la verità storico-politica. Banalità,
vero? Sembra di no, a vedere le reazioni, dato che vengo accusato, fra l’altro,
di essere un provocatore politico (ma di che provocazione stiamo parlando?), di
voler attribuire una ragion di Stato al noto conflitto di attribuzioni fra
Presidenza della Repubblica e Procura di Palermo (ma io parlavo di
tutt’altro!), e da ultimo di voler nascondere la debolezza dell’indagine.
Quest’ultima accusa proviene da un mio critico affezionato, Emanuele Macaluso,
che da queste stesse colonne ieri ha già emesso la sentenza del processo senza
conoscerne una carta. La cultura del dubbio, coltivata da quel Leonardo
Sciascia che Macaluso ama citare, stavolta non gli serve, visto che sa già che
il procuratore capo di Palermo non ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio
perché l’indagine è debole, e non perché, da non titolare del procedimento, il
procuratore «vista» il provvedimento. Né lo sfiora il dubbio che, in caso di
dissenso, possano avere ragione gli altri quattro magistrati che hanno invece
firmato. Ma, purtroppo, non è finita qui, perché Macaluso, pur di non dare
credito alla dignità di un’indagine, smentisce l’esistenza di qualsiasi
trattativa, ignorando le sentenze e perfino la storia. Ignora le sentenze
definitive di Firenze che hanno ritenuto provata la trattativa Stato-mafia
della stagione 92-93. Ed ignora la storia, perché nel suo excursus dimentica
addirittura la “madre di tutte le trattative”, quella intermediata da Lucky
Luciano che consentì il sostegno della mafia allo sbarco delle truppe
anglo-americane in Sicilia alla fine del secondo conflitto mondiale. Fatti
documentati in tanti libri di storia e da ultimo in “Quarant’anni di mafia“,
libro di Saverio Lodato, memoria storica antimafia di questo stesso giornale.
Ebbene, sorprende che un politico come Macaluso, che quella stagione ha
vissuto, non rammenti che la “connivenza” con la Democrazia Cristiana, partito
filo-atlantico e garante di certi assetti politico-sociali, iniziò proprio per
effetto di una trattativa, quella trattativa intermediata da Cosa Nostra
americana e si esaurì solo quando, dopo la caduta del muro di Berlino, venne
meno la giustificazione politico-internazionale di quella convivenza,
degenerata in stabile alleanza. Sono cose ben chiare ad un comunista che guardava
lontano ed in profondo come Pio La Torre, che non a caso non smise mai di
vedere il contesto internazionale nel quale si inseriva il potere mafioso. E
seguendo il metodo di analisi della realtà mafiosa di Pio La Torre non deve
sembrare un caso che l’omicidio Lima si collochi solo dopo la caduta di quel
muro, e per ragioni ben più profonde del mancato aggiustamento del
maxiprocesso, come sembra pensare in modo riduttivo, invece Macaluso. Ebbene,
il tema allora rimane un altro, e credo dovrebbe interessare non soltanto ai
magistrati e alle vittime delle stragi e delle varie trattative con la mafia
avvenute nella storia. Se è vero che vi fu una trattativa in quel biennio, è
pensabile che essa avesse come obiettivo solo il 41-bis, o la posta in gioco fu
ben più ampia? La nuova trattativa non riguardava invece il nuovo patto di
convivenza politico-mafioso? Ed allora, sembra troppo impertinente che un
magistrato dica ad alta voce che, di fronte a questa posta in gioco, invece di
invocare presunte invasioni di campo della magistratura si dovrebbe
collaborare, ciascuno per la propria parte di responsabilità, informazione,
politica, cultura e società civile, per ricostruire cosa accadde davvero in
quegli anni? La magistratura deve solo perseguire responsabilità penali
personali e cercare le prove, e celebrare processi se le prove ci sono. Ma
ognuno faccia la sua parte.
Post scriptum. Non mi piace la polemica delle repliche e contro
repliche perché sterile. Quindi, siccome so che Macaluso replicherà ancora alle
mie risposte, dichiaro che, per parte mia, ritengo questa polemica chiusa qui.
Non prima di rammentare, visto che che raccomanda di agire contro la mafia
“silenziosamente”, le parole di Paolo Borsellino, il mio maestro, che mi ha
insegnato che il silenzio è della mafia per poi concludere: “Parlate della
mafia, parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene…”.
Fonte: l’Unità 2
agosto 2012
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