Esistono diverse interpretazioni di Giuda. Gustavo Zagrebelsky oggi, su La Repubblica, ne offre sommariamente alcune:
All’Angelus
del 26 agosto, il papa BenedettoXVI è ritornato su Giuda: “ritornato”,
avendone trattato nel II volume del suo Gesù di Nazareth (Libreria
Editrice Vaticana, 2011, pp. 78 ss.), sotto il titolo “Il mistero del
traditore”. Ora, sembra che il Papa abbia voluto sciogliere il mistero:
«Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe
tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una
rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese». Questa è la
spiegazione “fattuale”, a cui si aggiunge il giudizio morale: Giuda non se ne
andò quando sarebbe stato il momento di riconoscere che in lui stesso non
c’era (più) la fede in Gesù, e la sua colpa più grave fu la falsità. Per questo
Gesù aveva detto ai Dodici: «Uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70).
Tra le
tante interpretazioni del “caso Giuda” (titolo d’un romanzo di Walter Jens del
1975 che tratta di Giuda come “capro espiatorio” delle prime comunità
cristiane), il Papa sceglie dunque quella politica.
Tradimento
per disillusione: Giuda lo zelota (cioè appartenente a una setta irredentista
che faceva uso della violenza, nei confronti dei Romani) deve essersi sentito
tradito nella sua speranza di riscatto nazionale. Da qui la vendetta. Una
variante dell’interpretazione politica è questa, avanzata da Thomas De Quincey
nel suo studio su Giuda Iscariota del 1853: di fronte a quello che al
suo discepolo poteva sembrare un temporeggiare di Gesù (entrato in
Gerusalemme come il liberatore, ma che disperdeva il suo tempo predicando nel
Tempio), Giuda avrebbe deciso di rompere gli indugi. Mettendolo nelle mani dei
sinedriti e dei romani, forse pensava che Gesù sarebbe stato costretto a
rompere gli indugi e a passare all’azione.
La
motivazione politica è certo meno ignobile di quella venale – la sordida
avarizia – che ha una lunga e radicata storia nell’immaginario cristiano. Giacomo
Todeschini (Come Giuda, Bologna, il Mulino, 2011) ha ricostruito
fascinosamente l’uso dell’icona-Giuda, che per trenta denari butta via il suo
tesoro (come gli usurati fanno con gli usurai), e della icona contraria della
Maddalena, che sembra “sperperare” i suoi beni per onorare il Signore e, in
realtà, li investe in qualcosa che vale davvero: uso che ritorna costantemente
nei dibattiti tre-quattrocenteschi sulla povertà francescana e sui doveri di
consapevolezza economica di chi opera nella moderna economia basata sul valore
di scambio.
Già
queste due “interpretazioni di Giuda” mostrano quanto ricca di significati
possa essere la sua figura. In effetti, il “caso Giuda” resta un enigma insoluto,
e ciò permette di interrogarlo sempre di nuovo e trarne alimento per riflessioni
tutt’altro che banali, che interessano la teologia, la psicologia, la sociologia,
la morale. In generale, intriga tutti coloro che cercano in Giuda le tracce di
qualcosa che potrebbe sonnecchiare in ciascuno di noi, come un nostro
“doppio”, che non amiamo vedere ma che, tuttavia, c’è. Da qualche parte,
qualcuno di certo conserverà ancora un vecchio disco in vinile a 78 giri dal
quale può venire la voce inconfondibile di don Primo Mazzolari che, in una sera
piovosa del Giovedì Santo del 1958, predicava di “Giuda, nostro fratello” con
parole che vanno molto al di là della cerchia dei credenti in Cristo.
Il
volto enigmatico di Giuda, “il traditore”, ha aperto la strada ad arditissimi
percorsi intellettuali e teologici. In greco, paradídomi (parola
usata nei testi evangelici) significa consegnare, trasmettere, tramandare,
come in latino tradere, senza alcun riferimento morale. Il
“tradimento”, nel senso nostro, sarebbe paradídomi (usato una volta
solo, da Luca, da cui proditor e proditorio). Su questa parola, il
teologo protestante Karl Barth ha costruito la sua interpretazione: Dio “si
consegna” all’umanità tramite il Cristo, e la “consegna” è effettuata da
Giuda. La lista dei “consegnatori” si allunga poi con Paolo di Tarso.
L’oggetto della consegna è la parola di Dio. In questo modo, Giuda compare come
l’esecutore di un disegno divino, anzi come una vittima di questo disegno: un
disegno che, per tutti, ma non per lui, è di salvezza. L’essere esecutore,
secondo Barth, non assolve Giuda: egli è presentato come «il riprovato da Dio»
(anzi, come il rappresentante d’un popolo di “riprovati”, il popolo
d’Israele), così come il Cristo è “il riprovato” dagli uomini. Giuda come
esecutore colpevole. In generale, noi pensiamo che il colpevole non sia
l’esecutore materiale, se questi non dispone della libertà di autodeterminazione,
ma sia il mandante: nel nostro caso, Dio addirittura! La teologia cristiana ha
qui un problema: Giuda, come tutti i dodici, fu scelto da Gesù, che – dicono
le scritture – sapeva fin dall’inizio del suo tradimento. Dunque, lo scelse
come collaboratore, anzi – secondo una versione della corrente gnostica dei
Cainiti (registrata nel cosiddetto Vangelo di Giuda) – come il più
intimo tra i collaboratori: l’unico tra gli apostoli a conoscenza del mistero
della salvezza. Il celeberrimo bacio, cui Gesù risponde con la parola
“amico”, non sarebbe allora prova di somma doppiezza. Sarebbe invece un segno
d’amorevole intesa. In ogni caso, come si può ammettere la condanna
senz’appello, riferita dai Vangeli (Lc 22,22; Mt 26,24), di
uno che, non solo ha partecipato alla realizzazione d’un disegno divino, ma è
addirittura stato chiamato a parteciparvi? Eseguire la volontà divina e al
tempo stesso essere colpevole d’un misfatto imperdonabile? Mistero. Si tratta
forse della lotta mortale tra il regno di Cristo e il regno di Satana?
Riferisce Giovanni (6, 70) queste parole di Gesù: «Non ho forse scelto io voi,
i dodici? Eppure uno di voi è il diavolo!». Ma Giuda, seppur posseduto dal
demonio, era pur sempre un essere umano e Gesù non è forse venuto per salvare
tutta l’umanità? Altro mistero.
La
figura di Giuda ha attirato l’attenzione anche per aspetti che vanno al di là
della questione della “colpa provvidenziale”. Nel Doktor Faustus di
Thomas Mann, la vera e somma colpa di Giuda sarebbe consistita nella convinzione
di non poter ottenere il perdono, una desperatio coincidente con la praesumptio
d’aver commesso un delitto così grande che neppure Dio l’avrebbe potuto
perdonare (da qui il suicidio). Giuda, nel peccato, sarebbe stato più grande di
quanto non sia Dio nel perdono. Un atto di sommo orgoglio, dunque. Ma, dice
Mann, la disperazione totale è al limite della contrizione totale. Infatti, se
si pensa di poter ottenere il perdono, allora forse è perché, in fondo, non si
crede d’aver commesso chissà quale delitto e il pentimento, allora, è solo apparente.
Ma, se si pensa che il delitto sia imperdonabile, allora sì: la contrizione è perfetta,
e la contrizione perfetta porta diritto ad assicurarsi il perdono. Un
rovesciamento! Giuda come il più meritevole di assoluzione.
Le
interpretazioni paradossali, contrarie al senso comune, non finiscono qui.
Questa storia, già a prima vista, è piena di assurdità e aspetti inspiegabili.
Allora, via libera alle fantasticherie. Jorge Luis Borges, in Tre versioni
di Giuda, narra di un teologo svedese, Nils Runeberg, autore d’un
raffronto tra Cristo e Giuda (1904) dove si riferisce d’una sua “scoperta”.
Secondo la profezia, il messia sarebbe apparso al mondo come «l’uomo di
dolori, esperto in afflizioni» (Isaia, LIII, 2-3), davanti al quale,
per la vergogna, ci si copre la faccia. Dio si volle “fare carne”, non come un
sovrano trionfante, ma come il più abietto e derelitto tra gli esseri umani. E
chi è il più abbietto e derelitto, se non Giuda? Cristo è Giuda, e Giuda è
Cristo! Dice Borges che quest’interpretazione non trovò seguaci, ma proprio in
questa indifferenza totale Runeberg vide la conferma ch’egli cercava: Dio
ordinava quell’indifferenza per pietà verso le sue creature, non volendo che
si propagasse sulla terra un segreto sconvolgente. «Ebbro d’insonnia e di
vertiginosa dialettica» il suo cuore non resse e morì d’un aneurisma, il 1° marzo
1912.
Ma al
Giuda-Cristo di Runeberg può essere contrapposto il Giuda-uomo di Mazzolari:
uno come noi, figura dell’impulso alla ribellione e alla distruzione, perfino
delle cose, fino a quel momento, più belle e più care. Soprattutto quando
incominciano ad apparire grondanti di simboli, rituali, promesse, esoterismi,
segni d’elezione sublimi e oscuri, come nel tempo finale della vita di Cristo.
Chi, in presenza di tutto ciò, non ha provato, non prova o non proverebbe un
impulso liberatorio, il desiderio di dire: basta così!? Il Papa dice che Giuda
fu colpevole perché in lui albergava la falsità. Forse, si può dire il contrario:
l’impulso all’autenticità. Uno altro scandaloso rovesciamento.
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