“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
30 agosto 2012
VIZI E VIRTU' DI INTERNET
L’ultimo libro di Raffaele Simone, Presi nella rete, Garzanti 2012, esamina lucidamente, e con fitti riferimenti al passato, la mente ai tempi del web, cioè i cambiamenti che la mediasfera produce nella mente, una rivoluzione inavvertita che è ancora più vasta e penetrante di quella che Platone paventava nel Fedro a proposito dell'avvento della scrittura.
Raffaele Simone si sofferma particolarmante ad evidenziare alcune ricadute negative prodotte da internet. Ma se è vero che la rete ha creato consumatori compulsivi di tecnologia, interlocutori distratti, comunicatori inquieti e invadenti, è pure vero che c’è ancora spazio per un uso critico di essa.
Di seguito ripropongo la recensione di Federico Faloppi pubblicata da L'Indice dei libri del mese.
Come linguista, Raffaele Simone non ha certo bisogno di presentazioni: almeno due generazioni di studenti si sono formate sui suoi testi. Ma Raffaele Simone non ha certo bisogno di presentazioni neppure come osservatore attento delle trasformazioni culturali e sociali della contemporaneità, attraverso alcuni saggi a metà tra il pamphlet militante e la sintesi erudita.
A cominciare dal j’accuse celeberrimo L’università dei tre tradimenti (Laterza, 1993), per giungere ai ritratti disincantati di Il paese del pressapoco (Garzanti, 2005) e all’impietosa analisi di Il mostro mite. Perché l’Occidente non va a sinistra (Garzanti, 2008), passando per il pioneristico La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza, 2000).
Proprio a La terza fase si riallaccia l’ultimo suo lavoro, che non solo evoca, ma rielabora e amplia i contenuti di quel fortunato predecessore. Certo, scorrendo in parallelo l’indice dei due volumi non si può non avere una sensazione di déjà-lu. Ma si tratterebbe di un’impressione superficiale. Perché quella prima analisi sul cambiamento del nostro modo di pensare (e di acquisire il sapere) indotto dalla trasformazione tecnica e dalla rivoluzione digitale si è nel tempo arricchita e articolata: sia per un’ovvia esigenza di aggiornamento, sia soprattutto per l’urgenza di segnalare, ancor più criticamente, la profonda incidenza culturale e politica di quella trasformazione.
Presi nella rete ruota infatti intorno all’assunto che non siamo di fronte soltanto a un nuovo paradigma della conoscenza, che privilegia il “guardare” al “leggere”, ma anche, ormai, a una virale pervasività della “mediasfera” (per usare il neologismo con cui Simone indica l’insieme dei media onnipresenti nelle nostre vite), capace di attivare “un eccezionale processo di ‘esattamento’” per il quale “funzioni e bisogni prima inesistenti vengono alla luce e diventano perfino urgenti appena si rende disponibile un mezzo tecnico capace di soddisfarli”.
Basta viaggiare su un treno qualsiasi – ironizza Simone – per rendersene conto: tutti armeggiano con tutto (iPhone e smartphone, telefoni cellulari, tablet, ecc.) in preda a una sorta di bulimia da gadget e alla ricerca, costante, del “vaniloquio”, compiendo gesti e azioni nientaffatto urgenti o necessari, ma anzi appagando bisogni che – senza la presenza di quei media – non si avvertirebbero neppure.
Siamo diventati consumatori compulsivi di tecnologia, interlocutori distratti, comunicatori inquieti e invadenti: l’“ubiquità” della mediasfera ha già avuto effetti vistosi sul modo di relazionarci agli altri all’interno di spazi pubblici, e di gestire le nostre relazioni interpersonali. Tuttavia, le conseguenze più appariscenti e disturbanti non sono necessariamente le più gravose.
Le vere questioni, presentate nel libro con una riuscita progressione argomentativa e con grande chiarezza, paiono ben altre: e ben più allarmanti e consistenti. Non che l’ansia da mediasfera, e l’esposizione ipertrofica dell’io non siano, da soli, fenomeni di poco conto. Ma sono i nostri sistemi e processi culturali – avverte Simone – a essere stati messi profondamente in discussione.
Prendiamo il nostro rapporto con il “testo”. Anzi, consideriamo il testo stesso: la sua autorialità, la sua produzione, il suo consumo; le manipolazioni che può subire, il rischio di una sua “dissolvenza”. O prendiamo l’idea di scrittura e di lettura, molto diversa da quella di – poniamo – una ventina d’anni fa. Osserviamo le implicazioni che riguardano le forme del sapere (la loro acquisizione, trasmissione, conservazione), la “disarticolazione” di sistemi di produzione della conoscenza e di divulgazione fino a ieri indiscussi ma oggi ritenuti obsoleti, la “de-realizzazione” o dissoluzione del reale (a vantaggio di rappresentazioni virtuali e “fasulle”).
Ecco, sottolinea Simone, in ballo – con l’ubiquità della mediasfera, e la nostra (spesso) acritica assuefazione a essa – c’è molto di più del nostro compulsivo desiderio di messaggiare, navigare, twittare. C’è una svolta antropologico-evolutiva. C’è il mutamento radicale di una società, e dei suoi fondamenti. C’è la messa in discussione non solo di modelli culturali, ma anche di istituti educativi come la scuola, in crisi di legittimazione come “agenzia” di formazione e diffusione del sapere. C’è il rifiuto dell’apprendimento graduale e progressivo, ritenuto lento – e faticoso – rispetto all’iper-velocità ludica garantita dalla rete. C’è il progressivo allontanamento dalla realtà.
Ci sono la perdita di concentrazione e delle facoltà mnemoniche, la frammentazione e la superficialità del ragionamento (come già denunciato anche da Nicholas Carr in Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, 2010). C’è lo schiacciamento dell’esperienza sull’immediato presente, vissuto in chiave di utilità e di enterteinment. C’è il culto del sapere “strumentalistico” (per citare Popper), del progresso inevitabile, e quindi non discutibile. C’è la mancanza di un discorso alternativo a quello, egemonico, dei guru della mediasfera.
Certo, rispetto a ogni trasformazione epocale la tentazione di guardare con nostalgia al passato, idealizzandolo, è forte. E neppure Simone vi sfugge, a tratti. Ma chi cercherà nel libro una visione passatista rimarrà deluso. Come rimarrà deluso chi vi cercherà un invito al neo-luddismo o alla “sconnessione” (secondo una provocazione del filosofo francese Alain Filkielkraut), o una visione apocalittica tutta all’insegna del mala tempora currunt. Perché non è agli apocalittici che l’autore si rivolge. Ma, al contrario, agli “integrati”: sia a chi sta vivendo un’ubriacatura tecnologica e un’idolatria ideologica verso i gadget e i loro (interessati) profeti, sia agli utenti meno ossequiosi, ma pur sempre intrappolati nella “rete” e nel suo indiscriminato consumo, da cui ha messo in guardia, recentemente, anche il giornalista Evgeny Morozov con The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom (trad. it. L’ingenuità della rete, Codice, 2011).
Simone non si limita all’analisi e all’avvertimento, tuttavia. Offre, con curiosità e senza moralismo, spunti che vanno oltre il cahier de doléances. E che meriterebbero, da soli, importanti approfondimenti. Si chiede, ad esempio, come la mediasfera abbia cambiato, e stia cambiando, la “narrazione”, e l’arte del narrare (nel rapporto tra realtà e finzione, tra autore – singolo o collettivo – e testo, tra creazione e diffusione). O se e quanto la mediasfera abbia contribuito a rimodellare spazi di democrazia, non solo virtuale. Se e quanto la rete sia davvero quel “propagatore naturale di democrazia” (Morozov) che siamo abituati a credere, se e quanto l’informazione vi circoli liberamente. Certo, come sappiamo il web e l’hardware che ne garantisce l’accesso hanno permesso, tra l’altro, nuove forme di partecipazione diretta al dibattito politico: hanno contribuito all’esplosione della “primavera araba”, al successo di mobilitazioni di massa come quella degli “indignati”, non solo spagnoli.
Ma è anche vero che in molti paesi il digital divide crea ancora esclusione, che il controllo sulla mediasfera è ferreo o gestito da “tecno-élite”, che forme di intrattenimento online sono studiate apposta per sviare l’attenzione dei giovani dall’impegno (è ancora Morozov a ricordarcelo). E che in Egitto i partiti che hanno vinto le elezioni del 25 maggio erano anche quelli meno attivi in rete, ma più presenti – fisicamente – sul territorio. Il “movimentismo reticolare” (l’espressione è ancora di Simone) mostra fragilità evidenti quando dalla protesta occorre passare alla proposta.
Il tema è delicato. E lo sappiamo bene anche in Italia, che con il “fenomeno” di Grillo e del Movimento 5 stelle abbiamo sì assistito a un uso vincente della rete nella promozione di nuova (iniziativa) politica, ma anche a un limite dialettico, dal momento che nella “digital democracy” (e si veda Matthew Hindon, The mith of digital democracy, 2007) i messaggi si radicalizzano, sono spesso eterodiretti, rifuggono la mediazione. Che è poi uno dei costituenti della democrazia: anche se antiquato, lento, e poco divertente.
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