Su La Repubblica di oggi si trova una chiave per capire
le ragioni del successo del. Principe di
Machiavelli, uno dei libri italiani più
tradotto e letto nel mondo.
Roberto Esposito, Un mondo machiavellico
Prima
ancora che si chiuda l’anno in corso, fervono i preparativi per le celebrazioni
del cinquecentesimo anniversario della pubblicazione del Principe di
Machiavelli (1513). Convegni, mostre, rappresentazioni teatrali ed itinerari
storici si allestiscono in tutta Italia, mentre è preannunciata la proiezione
del film, dedicato al principe machiavelliano, girato dal regista Lorenzo
Raveggi tra le mura di Palazzo Vecchio. All’estero l’attesa non è minore — da
Parigi, a Berlino, a Londra, in tutte le capitali europee si prevedono incontri
di studio dedicati al segretario fiorentino, mentre è in preparazione
un’iniziativa coordinata dall’istituto Italiano di Scienze Umane,
dall’Università di Los Angeles e dall’ambasciata italiana in Australia per una
serie di convegni a Camberra in febbraio, in Firenze a maggio e a Los Angeles
in ottobre.
Come
mai tanto interesse, anche oltre i confini nazionali? E quale Machiavelli
ritorna, dopo cinquecento anni, a Sidney o a Tokyo, a Madrid o a Lubjana?
Certo, è un onore che spetta al libro italiano più tradotto e letto nel mondo
(con Pinocchio). Ma forse c’è qualcosa di più, e di più attuale, in
questa riproposizione a largo raggio di un autore da alcuni considerato ancora
premoderno. Qualcosa che va anche al di là del fascino sinistro sempre emanato
dal volto demoniaco del potere, come suona il titolo di un libro che
ha fatto scuola. Non si tratta nemmeno del “mito dello Stato”, teorizzato da
una linea di pensiero che va da Hegel a Cassirer. Al contrario, ciò che oggi
ritorna, in piena globalizzazione, è il pensiero di una politica fuori dallo
Stato, che lo precede e l’instaura, ma non coincide con esso, con il potere
costituito. Quello che coinvolge, in una fase di crisi verticale degli Stati
nazionali, è l’analisi spregiudicata del potere costituente. Come inteso a suo
tempo da Gramsci, il principe di Machiavelli, più che allo Stato, rimanda al
partito, alla capacità di acquisire, ed esercitare, il potere contro forze
avverse, con un misto di tattica e di strategia, di potenza e di capacità
egemonica.
In
questo dislivello tra politica e Stato, naturalmente, traspare la gravissima
crisi che attanagliava l’Italia del XVI secolo, divisa ed occupata da eserciti
stranieri, a differenza di quanto accadeva alle grandi monarchie europee — alla
Spagna, alla Francia, all’Inghilterra, dove di lì a pochi decenni sarebbe stato
elaborato il principio della sovranità statale. Ma probabilmente ciò che
continua ad attrarre, in Machiavelli, è proprio questo nesso drammatico, mai
pacificato in una dottrina dello Stato, tra politica e crisi. Il profilo di una
situazione ambivalente, sospesa all’andamento irregolare dei rapporti di forza,
che può da un lato portare alla instaurazione di un potere nuovo e
dall’altro condurre l’organismo politico alla rovina — da cui questo può
salvarsi solo mediante un “ritorno ai principi”, all’energia naturale contenuta
nella propria origine. Qui c’è un’intuizione che va al di là della stagione
precaria in cui Machiavelli scrisse le sue opere ed esercitò le sue virtù
diplomatiche. E che rimanda alla necessità, ogni volta che il potere costituito
ristagna, o degenera, di rinnovare insieme la classe dirigente e il patto
costituzionale che lega i cittadini. Certo, le istituzioni sono fatte per durare,
tessendo un filo di continuità tra le generazioni, ma nel momento in cui questo
filo sembra interrompersi, per motivi interni ed esterni, bisogna aprire una
fase costituente che sappia ritrovare le motivazioni, e anche il senso ultimo,
della convivenza nazionale.
Il
secondo elemento che ci rende Machiavelli così intensamente contemporaneo,
forse più di qualsiasi altro pensatore moderno, è il nesso strettissimo che
egli istituisce tra politica e vita. Non solo nel senso che non esiste forma di
vita umana capace di fare a meno della politica — fuori delle sue dinamiche e
senza il riparo dei suoi ordinamenti, individui e collettività perderebbero
l’orientamento del loro agire e verrebbero travolti da un turbine di eventi
ingovernabili. Ma anche nel senso che la politica è essa stessa costituita,
traversata, modificata dalla vita. Se la politica è protezione, o espansione,
della vita, questa, a sua volta, è la materia stessa della politica. Come non
si dà mai vita del tutto nuda, confinata in un universo prepolitico, allo
stesso modo quando il potere diviene pura tecnica, quando perde le proprie
sorgenti vitali, si prosciuga in un esito autoreferenziale. Da Machiavelli
l’organismo politico è pensato esso stesso come un organismo vivente, che
nasce, si ammala, guarisce e muore in ragione della combinazione tra i suoi
umori interni.
Quando
egli sostiene, nei Discorsi, che “la republica ha maggior vita del
principato”, l’espressione va presa alla lettera. Essa significa che esistono
dei regimi politici – organizzati intorno al “vivere libero” – che hanno più
possibilità di durare di altri perché incontrano e rispondono più intensamente
di essi ai bisogni, agli impulsi, ai desideri di cui è fatta la vita. Non so
quanto si possa connettere questa compenetrazione, concettuale e linguistica,
che Machiavelli stringe tra politica e vita ad un insieme di discorsi che negli
ultimi vent’anni si vanno costruendo intorno alla categoria di biopolitica.
Certo essa è un fenomeno più tardo, che solo negli ultimi due secoli – o, per
altri versi, negli ultimi due decenni – ha conosciuto la propria diffusione. Ma
ciò non toglie che trovi una sua radice profonda nell’opera di Machiavelli,
nella sua capacità di pensare il politico dal punto di vista del corpo, dei
suoi ritmi interni e delle sue alterazioni.
Soprattutto
di queste ultime, anzi. E qui ritroviamo il terzo fattore che ci costringe,
dopo cinque secoli, a tornare a Machiavelli. Si tratta del nodo strettissimo
che egli stringe tra ordine e conflitto. S’è già detto che egli non è un
pensatore dello Stato sovrano – come saranno poi Bodin in Francia e Hobbes in
lnghilterra. Non lo è, né lo poteva essere, perché l’Italia del suo tempo era
ben lontana dalla possibilità dell’unificazione, nonostante l’auspicio
contenuto nell’ultima pagina del Principe. Ma c’è un altro motivo che
allontana Machiavelli dal pensiero della sovranità – intesa come il punto di
concentrazione ultimo di un potere assoluto, perpetuo e indivisibile. Esso ha
qualcosa a che vedere proprio con la particolare accezione che egli imprime al
lessico biologico. Contrariamente agli autori, antichi e moderni, che hanno
adoperato la metafora dello Stato-corpo in termini organicistici per assicurare
la concordia delle parti, Machiavelli ne rovescia il significato tradizionale.
Come
nella teoria medica di tipo galenico, la salute del corpo politico non deriva
dalla assoluta prevalenza di un umore sull’altro, ma dal loro contrasto
bilanciato. L’organismo è forte e competitivo con gli altri quando nessuno dei
suoi umori interni è prosciugato dal dominio di quello avverso, quando è capace
di resistergli con altrettanto vigore. Ciò, secondo Machiavelli, spiega
l’espansione senza precedenti della repubblica romana. Il dissidio tra le parti
non solo non contraddice l’ordine, come pensava ancora Hobbes, ma lo rafforza.
Naturalmente quando esso si privatizza, dando vita ad un conflitto personale o
esplode in guerra civile, l’organismo politico va in pezzi. Ma senza la
tensione di parti – o partiti dotati di prospettive diverse – al rischio di
esplosione subentra quello, non minore, di implosione del sistema politico.
Chissà se anche questa idea non colleghi il pensiero di Machiavelli alle sorti
incerte delle nostre democrazie?
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