Siamo convinti che è molto
più utile e dilettevole riprendere in mano un autore classico, piuttosto che
affannarsi a rincorrere l’ultimo best
seller. Il capolavoro di François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, è sicuramente un classico da leggere e
rileggere. Si tratta di un vero e
proprio inno alla vita che, come il nostro Decamerone,
polemizza costantemente contro i miti, contro il vuoto spiritualismo, contro il
mortificante ascetismo, contro l’incubo e l’ossessione della morte che ha
oppresso le coscienze per lungo tempo. Non a caso l’autore venne accusato di
eresia e oscenità.
Oggi per parlare del libro di Rabelais
ci serviamo di un articolo di Emanuele Trevi pubblicato dal Corriere della Sera:
Emanuele Trevi - Rabelais,
inventore del romanzo
Quello che può a buon
diritto essere considerato il primo romanzo in senso moderno non ha avuto
bisogno di aspettare con pazienza il suo momento. Nel 1534, si contano già otto
edizioni del Pantagruel . L'epopea dei giganti, fin dalle prime edizioni, si
aprirà con il successivo Gargantua , pubblicato la prima volta nel 1535 o poco
prima, e dedicato all'infanzia e alle gesta del padre di Pantagruel. Si tratta
di due libri gemelli, concepiti intorno a un'idea centrale che il prologo del
secondo rende esplicita: in ogni opera veramente degna di questo nome, alla
scorza o rivestimento esteriore di un senso letterale ed evidente corrisponde
una molteplicità di significati riposti, di preziosi insegnamenti di cui solo
l'intelligenza dei migliori lettori saprà trarre partito. Bisogna, in ogni
caso, «aprire il libro», vale a dire distinguere l'aspetto esteriore del
discorso da ciò che vi è nascosto, il «sostanzioso midollo». Ma nel momento
stesso in cui Rabelais afferma questo fondamentale principio ermeneutico, così
tipico del suo tempo, sottilmente invita i suoi lettori a diffidarne, abbandonandosi
al puro piacere del racconto, alla virtù terapeutica del riso che i giganti e i
loro amici saranno capaci di suscitare.
L'allegoria di Rabelais,
insomma, non è mai un involucro puramente strumentale, al quale si può
facilmente rinunciare una volta compiuto il percorso verso il significato
nascosto. L'energia del comico scompagina tutte le più prevedibili strategie
testuali, comprese - qui sta la massima sorpresa, e il massimo godimento -
quelle di cui l'autore stesso intende consapevolmente servirsi. Non sono forse
i giochi più belli quelli che, in una certa misura, sfuggono di mano? Suprema
medicina di un'umanità governata dalla follia, il riso punta l'indice sulle
magagne del mondo, solleva gli innumerevoli veli tessuti dall'ipocrisia, ma
proprio nel momento in cui sembra rigettarlo per sempre nella sua nullità,
quasi fosse la Maya di un saggio induista, gli conferisce uno spessore e una
sostanza mai prima sperimentati in un libro di così alta fattura letteraria.
Nel 1533, un membro
della Sorbona inserisce il Pantagruel in una lista di libri
accusati di oscenità. È l'inizio di una lunghissima serie di accuse e
persecuzioni, che oltre l'oscenità toccheranno il tasto ben più dolente
dell'eresia. Ma Rabelais, in questi anni, è finalmente entrato nell'orbita del
più importante dei suoi protettori, Jean du Bellay, favorito di Francesco I,
grande ambasciatore, uomo di lettere e protettore di letterati, cardinale a
partire dal 1535. Si tratta, senza mezzi termini, di uno degli uomini più
importanti della sua epoca, segnata dalla complicata vita matrimoniale di
Enrico VIII e dal conseguente scisma d'Inghilterra. Nel delicatissimo
scacchiere diplomatico, Jean du Bellay svolse un ruolo fondamentale di
mediazione tra Enrico, Carlo V e Paolo III, guadagnandosi sul campo, per così
dire, il cappello cardinalizio. Forse in qualità di medico, forse di
segretario, Rabelais lo segue per la prima volta a Roma nell'inverno del 1534.
Assieme ad altri membri della corte del potente ambasciatore, percorre le
rovine della Città Eterna progettando una topografia. A Roma tornerà a maggio
dell'anno dopo, per restarci fino al maggio del 1536. Tre lettere di questo
periodo, indirizzate all'antico protettore Geoffroy d'Estissac, ci mostrano uno
straordinario Rabelais «giornalista», capace di afferrare al volo le più
elusive dicerie politiche e diplomatiche. Ma il 1535 è l'anno del Gargantua,
che ben presto (e fino a oggi, per consuetudine ormai invalsa) inizierà a fare
corpo con il Pantagruel precedendolo, come è logico che sia
dal punto di vista narrativo, raccontando questo secondo libro le gesta del
padre di Pantagruel.
Dal punto di vista
astratto della «trama», un riassunto del Gargantua, del Pantagruel e
dei successivi tre libri (l'ultimo dei quali postumo e in parte apocrifo) potrebbe
essere contenuto in poche righe. Sia di Gargantua che di Pantagruel vengono
raccontate la nascita, l'infanzia e l'educazione, che li porta a essere sovrani
giusti e generosi. A entrambi tocca affrontare una guerra contro nemici
accaniti e pericolosi. Entrambi si circondano di una piccola corte di compagni
d'avventura - primo fra tutti, per importanza, è Panurge, incontrato da
Pantagruel durante i suoi studi a Parigi. Nei suoi pregi e nei suoi difetti,
Panurge è l'incarnazione totale dello spirito comico di Rabelais, e del suo
senso dell'umano. È scaltro e ingegnoso, avido di piaceri, capace di cavarsi
dai peggiori impicci ma anche di coltivare ossessioni e paure che lo rendono
del tutto incapace di ragionare. È lui il protagonista del Terzo libro, apparso
nel 1546. Indeciso tra il matrimonio e il celibato, Panurge interroga
un'indovina, un poeta, un mago, un medico, un filosofo, in un crescendo di
episodi comici e assurdi dal quale non potrà che derivare un'unica conclusione,
ovvero che «tutto è follia».
E la follia è anche il
motore narrativo che fa proseguire la saga, poiché è il pazzo Triboulet che
consiglia Panurge di andare a consultare l'oracolo della Divina Bottiglia,
l'unico in grado di dirgli se farà bene o no a sposarsi. Al lunghissimo viaggio
per mare in cerca dell'isola della Divina Bottiglia sono dedicati sia il Quarto
che il Quinto libro, apparsi rispettivamente nel 1552 e nel 1564. Ed è la
struttura del viaggio, con la sua infinita apertura sul possibile, quella che
sembra perfettamente adeguata all'arte narrativa e allo spirito satirico di
Rabelais nella fase più matura del suo sviluppo. In ogni isola visitata da
Pantagruel e dal suo equipaggio, un nuovo aspetto della follia del mondo viene
affrontato fino alle sue estreme conseguenze, tali da trasformarlo in un
prodigio o in un paradosso, suscitatori di un riso salutifero e liberatorio.
«Trinch!», ovvero
«bevi!» è l'agognato oracolo della Divina Bottiglia. Il cosiddetto
«pantagruelismo» non è un rimedio alle storture del mondo, e nemmeno una chiave
capace di rivelarne i segreti per possederlo e governarne il corso.
L'atteggiamento morale che Rabelais esige dai suoi lettori è quello di chi,
invece di adeguare l'infinita e ingovernabile varietà delle cose umane a un
ordine di valori prestabilito, accetta di essere parte di questo incessante e
universale movimento. Questo significa l'invito a berci sopra, una volta
compreso che nessuna formula umana potrà garantire il possesso di una verità
ultima, esente da ulteriori discussioni. In altre parole, nessuno potrà dire a
Panurge se sarà meglio, per lui, sposarsi o no. Il fatto che molti possono
consigliarci e nessuno garantirci un consiglio infallibile potrà essere
frustrante, ma è la garanzia della nostra unicità di individui, della nostra
preziosa irriducibilità a un modello astratto. Proprio perché è un uomo, nel
senso più nobile e insieme più buffo della parola, Panurge non sa che pesci
pigliare, non sa se il suo desiderio lo consigli per il meglio o lo stia
turlupinando. Alla fine, l'ammonimento più sensato, la regola di vita più
efficace da opporre all'insensatezza di tutte le regole è il «Fa' ciò che
vorrai» inciso sulla porta dell'Abbazia di Thélème, fondata da Gargantua al
termine della guerra vittoriosa contro il malvagio e stupido re Picrochole,
caricatura di Carlo V e di ogni futuro tiranno destinato ad affliggere la
storia dell'umanità.
A differenza di tutte le
Utopie del Rinascimento, da Tommaso Moro fino a Campanella, troppo consacrate
all'esercizio delle virtù civiche e familiari per indurre in qualcuno la voglia
di viverci davvero, l'Abbazia di Thélème è forse il luogo più desiderabile
dell'intera storia della letteratura.
Meravigliosamente
vestiti, nutriti di cibi raffinatissimi, cullati da ogni forma di diletto dei
sensi e della mente, e soprattutto liberi da leggi, regole, statuti, gli uomini
e le donne che vivono nell'Abbazia non possono che tendere a una vita «onesta e
libera». Basta che uno solo dei membri di questa comunità perfetta esprima un
desiderio, e tutti gli altri spontaneamente lo seguono, come se quel desiderio
fosse il loro. E questa «lodevole emulazione», scrive Rabelais, è il più
prezioso frutto della libertà. È la forma suprema dell'empatia, quella che ci
viene descritta in questa pagina indimenticabile: fondata sul piacere, crea la
forma di comunità umana più armoniosa e accogliente che si possa immaginare.
Non c'è individuo che non abbia almeno un desiderio da mettere in comune con i
suoi simili. E in questa circolazione, che rompe la gabbia dell'Io e della sua malvagia
solitudine, Rabelais ha rappresentato il più alto ideale umano e morale a cui
la sua epoca tutta intera potesse pervenire.
Da: Il Corriere della
Sera del 17 luglio 2012
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