12 maggio 2024

I CONFINI DEL CORPO

 

Autoscatto di Valentina Picco


I confini del corpo

di Valeria Micale

A worthy woman all her life, what’s more
She’d had five husbands, all at the church door,
Apart from other company in youth;
No need just now to speak of that, forsooth.
And she had thrice been to Jerusalem,
Seen many strange rivers and passed over them;
She’d been to Rome and also to Boulogne,
St James of Compostella and Cologne,
And she was skilled in wandering by the way.
She had gap-teeth, set widely truth to say.

Geoffrey Chaucer, The Canterbury Tales
1386 A.D.

Aldo ha una fessura tra i denti davanti. Quel millimetro che separa gli incisivi superiori mi attrae più dei suoi muscoli, più del suo sguardo. È una crepa nella sua esibita virilità; lo rende, ai miei occhi, meno pericoloso. Smorza l’abbondanza di peli che gli ricoprono il petto e le spalle, l’atteggiamento da macho, la voce cavernosa come i corpi del pene. Frappone una distanza tra me e tutto quello che di sublime potrebbe accadere attraverso il suo corpo. È una porta di accesso alla sua intimità, a una parte di sé che inconsapevolmente mi consegna. Dietro quell’imperfezione intravedo brutti voti a scuola, una madre accudente, un rimprovero, un padre distante.
diastèma s. m. [dal gr. διάστημα «intervallo, distanza»] (pl. -i). – 1. In medicina, spazio talora esistente fra un dente e l’altro. 2. In biologia, termine non più in uso per indicare la struttura citoplasmatica che corrisponde al piano equatoriale di divisione della cellula. 3. In geologia, interruzione, di brevissima durata, di una sedimentazione.

Il diastema ha reso inconfondibili celebrità quali Lauren Hutton, Madonna e Vanessa Paradis, regalando loro quel sorriso da bambine perverse che le rende così sensuali. Il fascino di questa imperfezione, che solo persone poco accorte cercano di eliminare con interventi ortodontici, risale al Medio Evo, se non addirittura all’antica Grecia. Nel suo celebre poema Canterbury Tales, Geoffrey Chaucer attribuisce alla donna di Bath, esempio ante-litteram di empowerment femminile, questa caratteristica (She had gap-teeth, set widely), considerata dalla fisiognomica ‘segno di lussuria e licenziosità femminile’ e, in alcuni casi, associata al diavolo. I francesi, bontà loro, definiscono tale imperfezione ‘dents du porte-bonheur’, considerando fortunata la persona che la possiede. Nel documentario “Gap-toothed women”, uscito nel 1987, il regista statunitense Les Blank intervista donne con il diastema appartenenti a tutti i ceti sociali. Alcune di esse raccontano di come abbiano vissuto con vergogna il loro difetto e siano state derise a causa di esso, ma, una volta raggiunta l’età adulta, abbiano acquisito consapevolezza del potere seduttivo da esso esercitato e maggiore sicurezza in sé stesse. Peccato che Blank abbia intervistato solo donne. Nessuno ha mai celebrato il diastema di una bocca maschile. Per molti, non per me, sono soltanto le fessure di un corpo femminile a condurci in luoghi irresistibilmente misteriosi nei quali sperimentare la voluttà.

La mia bocca è affollata di denti. L’arcata dentaria è insufficiente a contenerli tutti, dunque i poveretti si contendono il poco spazio a disposizione, che è il motivo per cui ho un canino sporgente. Tendo istintivamente a nasconderlo. La mia ruga naso-labiale sinistra è molto più marcata della destra, indizio di un sorriso asimmetrico (la vergogna scava solchi senza che ce ne accorgiamo). Il mio canino, come un soldato di prima linea, ha attirato su di sé i colpi del nemico – le ingiurie dei batteri, dell’ossigeno – e si è ingiallito prima del tempo, lasciando ai vicini il privilegio del candore. Niente varchi nella mia bocca, nessun diabolico invito alla penetrazione, solo spazio mancante, denti accavallati come parole pronunciate troppo in fretta, dal senso incomprensibile, barriera d’osso e smalto che protegge dalle intrusioni. A che prezzo?

Ogni barriera del corpo ne mantiene l’integrità, impedendo la perdita di sostanza vitale. Anche le cicatrici servono a questo scopo. Paolo ha una cicatrice su un gluteo, un piccolo avvallamento di tre o quattro centimetri causato, verosimilmente, da un’iniezione suppurata o da un gioco d’infanzia finito male, non gliel’ho mai chiesto. Svelarne l’origine non ha alcuna importanza; al contrario, ne sminuirebbe il fascino. Come il diastema, è un segno di fragilità, tanto più intrigante quanto più celato agli sguardi. Esserne a conoscenza – insieme ai familiari, suppongo, e a quante mi hanno preceduta, non ha importanza – mi dà potere, nella stessa misura in cui un segreto altrui può essere usato a proprio vantaggio. Ogni relazione d’amore è, di fatto, una relazione di potere. Mentre facciamo l’amore, le mie dita scorrono sulla sua natica, cercandone la soluzione di continuità. Quando la trovo, le sue spinte si fanno più forti e dopo poco vengo. L’attrazione che mi lega a lui ha a che fare con la rottura del perfetto, la fallacia del bello, la divergenza. È quella, più del sesso, a darmi piacere.

cicatrice s. f. [dal lat. cicatrix -icis]. – 1. Tessuto di guarigione delle soluzioni di continuo e delle perdite di sostanza di tessuti sia animali sia vegetali; più comunem., segno che rimane sulla pelle nel luogo di una ferita rimarginata: una c. gli tagliava il sopracciglio; far c., rimarginarsi, di una ferita, piaga, ecc. C. ornamentale, forma di tatuaggio (detta anche scarificazione) ottenuta incidendo profondamente la pelle e ritardando ad arte la rimarginazione, praticata da alcune popolazioni primitive. 2. fig. Segno lasciato nell’animo da un’esperienza dolorosa: di ogni dolore rimane una c.; il ricordo di quel triste episodio stava attenuandosi, ma egli ne portava ancora la c. dentro di sé.

Alain, il mio supervisore, ha una cicatrice sulla guancia. Lo sfregio è tanto più erotico in quanto deturpa un volto altrimenti perfetto. È forse questo il recondito obiettivo dei vandali che sfregiano le opere d’arte nei musei, renderne più evidente la bellezza? Si potrebbe, anche, pensare a una cicatrice – particolarmente nel caso in cui essa sfregia un volto – come a un repoussoir, quell’artificio visivo consistente in un elemento laterale inserito in primo piano dall’artista, con lo scopo di introdurci alla profondità di un’immagine; qualcosa che, nel respingere, attrae, risucchiandoci senza che possiamo opporre resistenza. Questa è la sensazione che provo ogni volta che Alain mi rivolge la parola, una specie di vertigine che mi istupidisce. Mi crede ritardata e mi ha umiliata più volte davanti a tutti, senza mai lasciarsi sfiorare dal sospetto che la fissità del mio sguardo sia dovuta all’estasi.
Ho sempre desiderato avere una cicatrice. Invidiavo i piccoli segni bluastri che la mia compagna di banco aveva sulla fronte, microscopiche particelle di pigmento rimaste intrappolate sotto la pelle in conseguenza di un incidente in moto. Quella mattina aveva saltato la scuola per andarsene sulla spiaggia ad amoreggiare col suo ragazzo e un’auto li aveva speronati mentre tornavano in città. Erano i segni del suo essere sessualmente attiva, che le invidiavo: una lettera scarlatta di cui anch’io avrei voluto marchiarmi. È da allora che associo il sesso alle cicatrici.
tatuaggi da asfalto. – In seguito a incidenti d’auto o in bicicletta o a ferite sportive particelle di catrame e/o sostanze pigmentate rimangono intrappolate nella cute. Per il pigmento residuo, quindi per tutti i tatuaggi così detti da asfalto o da trauma, come per i tatuaggi ornamentali o cosmetici, la rimozione è possibile tramite sistema laser Q-Switched.

Le cicatrici da taglio cesareo, così come quelle da episiotomia, sono, com’è ovvio, conseguenza di una precedente attività sessuale. Non rimane, invece, cicatrice della deflorazione, anche se un tempo ho creduto di sì. Pensavo che le donne sverginate portassero ben visibile sul corpo il segno della loro impurità. Era una credenza derivante da discorsi origliati da bambina, quando avevo sentito le zie biasimare la sciagurata figlia della sarta, che si era concessa al fidanzato per poi esserne abbandonata. Non la vorrà più nessuno, avevano sentenziato, ora che porta i segni di quello che ha fatto. Cercavo di immaginare quali fossero questi segni, riconoscibili ma non evidenti a tutti. Confidai le mie perplessità alla mia amica Adele. Lei architettò un piano ingegnoso: avrebbe approfittato dell’aiuto che la madre obesa le chiedeva per indossare il costume da bagno, in modo da scrutarne a distanza ravvicinata il corpo nudo. Eravamo convinte che i famigerati segni si dovessero trovare nelle vicinanze dell’organo sessuale, verosimilmente sul pube. Il solo pensiero della nudità di una donna adulta che conoscevo bene mi turbava: mia madre non si era mai mostrata a me, né avrei voluto che lo facesse. Adele tornò delusa, aveva scrutato ogni centimetro della pelle di sua madre ma non aveva visto nulla. Forse è nascosto tra i peli, disse. Per me fu un sollievo sapere che nessuna traccia della deflorazione era stata ritrovata.
Superata l’età dei giochi spericolati e quella dei parti mancati, nel quinto decennio di una vita nella quale nessun ago da sutura ha perforato la mia pelle, ho deciso che mi procurerò una cicatrice. Dovrà essere visibile senza suscitare ribrezzo, attirare l’attenzione, evocare circostanze avventurose o fantasie innominabili. Me la immagino lineare, sottile, con punti trasversali equidistanti: un manufatto di grande perizia. Non ho cistifellee da togliere né protesi da inserire, niente che possa giustificare un intervento chirurgico; sarà una piccola pallina dura sul polpaccio, che non mi procura alcun fastidio, il pretesto per ottenere il trofeo a cui ambisco. Pianifico il rito iniziatico come ho pianificato la mia deflorazione, affidandomi a una mano esperta che sappia fare un lavoro pulito. Il bisturi affonderà dentro la mia carne come un pene. Non sentirò dolore né piacere.
Un nugolo di camici verdi si affolla intorno al tavolo operatorio sul quale sono stesa. Chiacchierano e ridono, ignorandomi. Io sono vigile, vorrei che mi parlassero, ma non si parla a una gamba, così come non si parla a una vagina, si fa quel che si deve fare e basta. Dura in tutto una quarantina di minuti. Mi rivesto per andarmene. Prima di uscire mi ferma il chirurgo. Dermatofibroma, dice, un tumoretto benigno, comunque faremo l’esame istologico, è la prassi, ci vediamo tra una settimana per togliere i punti, le abbiamo fatto una sutura perfetta. Nell’accomiatarsi mi sorride, rivelando un bellissimo diastema.

Ogni società pensa il corpo a modo suo e cerca di renderlo conforme all’idea che vi prevale. Tutto avviene come se il corpo, fin dalla nascita, non fosse considerato mai perfetto e, dunque, come se fosse sempre necessario un intervento umano al fine di renderlo “conforme”. […] La “cosmetica permanente” del corpo comprende operazioni quali i tatuaggi, le scarificazioni, le cicatrizzazioni, i marchi a fuoco, le deformazioni (dei tessuti molli o ossei), la limatura e l’estrazione dei denti, le ablazioni, le forature, la circoncisione, l’escissione (o clitoridectomia) e l’infibulazione (Mauss, 1967). […] Le ferite causate da questo tipo di cosmetica possono essere viste come delle “soglie”, luoghi di uscita di sostanze (sangue, carne) e luoghi di entrata di una materia esterna. Dal punto di vista simbolico esse permettono dunque di studiare un tipo particolare di interazione tra il corpo e il mondo esterno. La pelle assume allora una dimensione di limite, di frontiera tra il corpo individuale e la società e la ferita diventa la soglia, il luogo di comunicazione tra i due.

Calderoli L., Cicatrici significative. Un approccio antropologico alle tecniche di modifica permanente del corpo, in: Nicola Pasini (a cura di), Mutilazioni genitali femminili: riflessioni teoriche e pratiche: Il caso della regione Lombardia, Milano, Regione Lombardia-Fondazione ISMU, 2007.
Mauss M., Manuel d’ethnographie, Payot, Paris, 1967.

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