Imparare a pensare la speranza
Cambiare il mondo senza prendere il potere vent’anni fa provocò scandalo nelle sinistre e discussione nei movimenti. A quel testo ci siamo aggrappati con forza ed entusiasmo, e non solo perché abbiamo contribuito alla sua uscita*. Crack capitalism ci ha poi aiutato a riconoscere le crepe che non smettono di aprirsi nel muro del capitalismo. Probabilmente Comune non esisterebbe senza quei due libri. La speranza. In un tempo di speranza, che ora chiude la trilogia di John Holloway, è un’opera che trasuda al tempo stesso rabbia e voglia di lottare e sovverte così pensieri e sentimenti che dominano questo tempo. Per Holloway imparare la speranza è imparare a pensare la speranza: Bloch la chiamava “docta spes” per differenziarla dal pio desiderio, che non fa nulla per cambiare il mondo. Per questo la nostra è spesso una speranza angosciata per quanto accade in ogni angolo del mondo, una speranza dunque che non è per nulla ottimismo. “Lottiamo non perché pensiamo di vincere, ma perché non possiamo accettare ciò che esiste – scrive Holloway – Gridare contro un sistema che ci disumanizza non ha bisogno di giustificazioni”. Imparare a sperare significa oggi partire dal “dove siamo”, il qui e ora, e non dalla paura, significa che l’anticapitalismo è radicato nella vita di ogni giorno delle persone comuni più di quanto non sembri, significa non smettere di liberare le infinite potenzialità creative ingabbiate dal dominio del denaro. Un capitolo di La speranza. In un tempo di speranza (Punto Rosso), un libro meraviglioso
Sperare è facile, ma spesso ha poca sostanza. Molto più difficile è pensare la speranza. È ciò che Bloch chiama una docta spes [1], una speranza ragionata e sorvegliata, una speranza compresa [2].
L’idea di docta spes è diretta contro il “pio desiderio”. Il pio desiderio non porta da nessuna parte. Rompe ogni connessione pratica tra soggetto e oggetto. “Non sarebbe bello se vivessimo in un mondo in cui i migranti non fossero ammucchiati dentro a un container come le sardine!”. Il pio desiderio non fa nulla per cambiare il mondo: al contrario, anestetizza.
Questo libro parla di speranza, non di un pio desiderio. Eppure, il pio desiderio è alle nostre spalle, uno spettro che non vogliamo vedere, ci sussurra ciò che non vogliamo sentire: cos’è tutta questa storia dell’anticapitalismo? Perché dici che un mondo diverso, un mondo di reciproco riconoscimento e amore, è possibile quando sai che non lo è?
Guardati intorno, guarda il computer che stai usando, guarda i vestiti che indossi, pensa alla serie che ti stai godendo su Netflix, pensi davvero che si possa creare un mondo non capitalistico? Dedichi la tua vita a pensare alla teoria critica, una forma di pensiero che trae la sua pretesa di validità dalla possibilità di creare un mondo oltre il capitalismo, ma pensi davvero che sia possibile? Tu e i tuoi lettori non state sprecando le vostre vite in un pio desiderio? Nonostante tutta la tua raffinatezza teorica, nonostante tutte le tue frasi latine, non sei semplicemente perso in un mondo del “non sarebbe carino”? Una docta spes, una speranza pensante, ci costringe a confrontarci continuamente con lo spettro del Wishful Thinking. “Parli di creare un mondo diverso, un mondo non capitalistico: mostracelo allora, mostracelo allora!”. Come possiamo dimostrare che questo mondo che non-è-ancora è più che fantasia, più che un pio desiderio?
Una risposta è che non importa. Lottiamo non perché pensiamo di vincere, ma perché non possiamo accettare ciò che esiste. Gridare contro un sistema che ci disumanizza non ha bisogno di giustificazioni. È semplicemente un’espressione di ciò che intende essere la nostra umanità. Il nostro anticapitalismo si basa sugli orrori del sistema, non sulla fiducia che possiamo creare qualcos’altro. Le nostre lotte non sono un mezzo per un fine, sono una dignità, un rifiuto, che nasce dal profondo del nostro essere.
La lotta contro il sistema che ci sta uccidendo non ha bisogno di speranza per giustificarsi. Se una società annuncia che aprirà una miniera a cielo aperto in una comunità agricola e la gente si rende conto che ciò esaurirà e contaminerà l’approvvigionamento idrico, la base della loro agricoltura, allora è probabile che resistano, indipendentemente dal fatto che sperino di vincere la battaglia. Eppure una sorta di speranza è quasi sempre presente.
La speranza, dice Bloch, proprio all’inizio del suo capolavoro, “è innamorata del successo piuttosto che del fallimento” (1959/1985, 1). Eagleton, che non è un fan di Bloch, qualifica questa frase come una “affermazione inquietante” (2015, 107).
È inquietante, forse, nel senso che può condurre facilmente ad un opportunismo in cui la speranza del successo è usata per giustificare i mezzi usati per raggiungerlo. Suggerisce anche che può esserci una facile definizione di successo. La rivoluzione russa è stata un successo o un fallimento? Vista da coloro che desideravano un altro mondo, si rivelò un terribile fallimento. Eppure Bloch ha ragione: la speranza ci indirizza verso una sorta di realizzazione, una sorta di successo.
Vogliamo fare di più che morire con dignità: vogliamo vincere.
Di fronte alla minaccia dell’annientamento umano, non vogliamo solo protestare, vogliamo spezzare la dinamica della distruzione. Vogliamo fermare il treno della morte, riuscire a tirare il freno di emergenza [3]. Vogliamo che la nostra speranza sia realistica. La speranza cresce dalla dignità, ma si spinge oltre. La dignità è al centro della lotta per un mondo migliore. L’enfasi zapatista sulla dignità sottolinea un cambiamento cruciale rispetto allo strumentalismo del precedente pensiero rivoluzionario. Combattiamo perché la nostra dignità di esseri umani lo richiede, non perché vogliamo raggiungere un obiettivo predefinito.
Coerente con questo è il loro rifiuto della Rivoluzione con la “R” maiuscola a favore della rivoluzione con la “r” minuscola, e il loro attuale accento su “resistenza e ribellione”, piuttosto che sulla rivoluzione. La nozione di dignità segnala uno spostamento di enfasi molto importante e molto gradito dall’oggetto della lotta (il capitalismo) al suo soggetto (la nostra dignità). Questo cambiamento è presente in molti altri movimenti di resistenza e ribellione e in molto di ciò che è stato scritto su di essi.
Eppure, è qui che la figlia ribelle che è questo libro diventa irrequieta e dice “sì, sì, dignità, dignità! Ma bisogna andare oltre, serve speranza, vogliamo vincere! Vogliamo vincere, anche se sappiamo che ciò che significa vincere può diventare chiaro solo nel corso del suo conseguimento. La speranza si basa sulla dignità, ma è più esigente. La speranza è la dignità che spinge oltre se stessa.
Note
[1] Bloch 1959/1985, 7: “Docta spes, speranza compresa, illumina così il concetto di un principio nel mondo, un concetto che non lo lascerà più”.
[2] Vedi Eagleton 2015, 61: “La ragione non può esistere senza speranza, scrive Bloch nel Principio speranza, e la speranza non può fiorire senza ragione”. E Eagleton, commentando direttamente: “L’autentica speranza … deve essere sostenuta dalla ragione” (2015, 3).
[3] Il freno di emergenza è un riferimento alla riformulazione della rivoluzione di Walter Benjamin, che svilupperò in seguito.
“Il capitale è la prigione degli sfruttati, delle minoranze, di tutti coloro che producono e obbediscono. Ci siamo dentro. Ma quando, lavorando e lottando, scopriamo l’al di là dell’orizzonte capitalistico, incarniamo la speranza in un movimento che rivela la fragilità del comando finanziario e apre la lotta per la liberazione. Noi, tutti noi, la moltitudine rivoluzionaria che il capitale non può più dominare, siamo armati di speranza. Con un tocco sicuro, Holloway ci guida attraverso questa sequenza, raccogliendo in questo volume, con grande forza, ciò che ha seminato in una vita di militanza” (Toni Negri)
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* L’operazione editoriale di Cambiare il mondo senza prendere il potere fu pensata e curata da Marco Calabria per il settimanale Carta, della cui cooperativa fu tra i fondatori e instancabile presidente. Il libro uscì in collaborazione con la casa editrice Intra Moenia. Le analisi di Holloway suscitarono uno straordinario dibattito in tutto il mondo, con centinaia di interventi critici, molti dei quali raccolti nella rivista argentina Herramienta.
Il nome Comune, per altro, deve molto a diversi interventi di Holloway (sul concetto di comunizar è tornato ad esempio in questo articolo fondamentale: Mettiamo in comune).
Qui il messaggio di Holloway scritto alcuni giorni dopo la scomparsa di Marco: Il tuo entusiasmo, la tua generosità, il tuo umorismo.
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