Pacifismo punto a capo
Viviamo in un clima di guerra con un aumento del numero di conflitti, delle vittime e delle spese militari. Con un ritorno dell’incubo di genocidi, di bombe atomiche e lo spettro di una terza guerra mondiale. Di fronte a questo scenario occorre ripensare e aggiornare le riflessioni e le pratiche politiche del pacifismo. Un elenco di segnavia per cominciare, curato da Marco Deriu per i Quaderni della decrescita
Un clima di guerra
Viviamo sempre più in un clima di guerra, sotto tanti punti di vista. Secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)1 nel 2023 si è verificato il 12% in più di conflitti rispetto al 2022 e un aumento di oltre il 40% rispetto al 2020. Tra questi i conflitti con i livelli più alti di violenza, sono almeno una cinquantina. Nel 2023 sono stati registrati oltre 147.000 eventi di conflitto e almeno 167.800 vittime.
L’invasione Russa dell’Ucraina ha riproposto una modalità di guerra tra Stati, mescolando forme novecentesche (eserciti nazionali, mobilitazioni su grande scala, fronti e scontri di posizione, kilometro per kilometro) con nuove armi e apparati tecnologici (satelliti, droni, I.A.), che ci ha portato molto più vicino alla forma di una nuova guerra mondiale, così come ha riproposto la paura delle armi atomiche, nonché i rischi connessi agli attacchi alla centrale nucleare di Zaporizha. Le stime dei morti parlano di quasi 11mila vittime tra i civili, di cui circa 550 bambini e, secondo le fonti governative, di almeno 31mila soldati ucraini, ma il numero è probabilmente più alto. Mentre le vittime tra i soldati russi, secondo BBC Russia e alcune fonti indipendenti sul campo,2 supererebbero i 50mila morti. Si tratta di un bilancio di molto superiore a quello ammesso da Mosca ed è comunque probabile che il numero effettivo di morti russi sia ancora più elevato.
Sul fronte palestinese, prendendo in esame solamente il periodo più recente, l’attacco terroristico dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Mentre il criminale bombardamento e l’invasione israeliana di Gaza ha causato la morte di almeno 32mila persone tra i palestinesi e oltre 250 soldati israeliani. Un’azione bellica che per le sue dimensioni e modalità che non hanno risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, impedendo anche gli aiuti umanitari e la distribuzione di alimenti, è stata considerata da molti osservatori una forma di genocidio. L’azione di Israele si è poi estesa ad altre regioni, dalla Siria all’Iran, colpendo prima l’ambasciata iraniana a Damasco e quindi lanciando missili ad Isfahan, la sede di impianti nucleari iraniani. Attacchi che minacciano di espandere ulteriormente il conflitto nell’area.
I conflitti in Ucraina e Palestina, per la loro rilevanza internazionale, i rischi di destabilizzazione complessiva e anche le minacce di pericolosi disastri nucleari, hanno trovato più attenzione sui media, ma ci sono molti altri paesi colpiti da guerre o violenze di notevole entità. Tra questi Myanmar, Siria, Colombia, Yemen, Sudan, Nigeria, e ancora Congo, Iraq, Pakistan, Mali, India, Burkina Faso, Bangladesh, Kenya, Honduras, per citare solo alcuni dei casi più rilevanti. Ci sono poi paesi che non registrano guerre in senso convenzionale, ma che fanno i conti con un livello molto alto di conflitti tra diversi gruppi e di vittime. È il caso di diversi paesi dell’America Latina: Messico, Brasile, Colombia e Haiti.
Attualmente circa una persona su sei vive in un’area attivamente in conflitto. Ci sono alcune zone del pianeta dove intere generazioni non hanno mai conosciuto la pace. Dove da 20, 30, 50, 70 anni i bambini e le bambine nascono e crescono nella guerra, in mezzo a violenza, scontri, bombe, paura, corpi straziati, lutti, dolore, rabbia, impotenza, risentimento. Paesi come il Congo, l’Iraq, la Somalia, l’Afghanistan, il Sudan, Myanmar, la Palestina, per ricordare alcuni dei casi più cronici. Questi contesti più estremi ci ricordano che iniziare una guerra è relativamente facile, mettervi fine è invece una faccenda molto più complessa. Se la guerra in sé è un fenomeno devastante, possiamo provare a immaginare quali possono essere gli effetti sull’ambiente e sul territorio, sull’economia e sul lavoro, sulla società e sulle relazioni, sulla cultura e sull’educazione, e infine sulla mentalità e sulla psiche delle persone. Quale eredità può lasciare a tutti questi livelli una guerra estesa e prolungata? Quanto tempo ci vorrà per ricostruire un tessuto socio-ecologico vivibile? Quanto per prosciugare l’odio?
L’eredità delle guerre e la mancanza di realismo del pensiero bellicista
Eppure nei paesi occidentali – l’Italia inclusa – domina nella classe politica e nei centri di potere mediatico e informativo l’idea che la guerra sia un’opzione realistica. Questo nonostante gli interventi in paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia, la Libia, la Siria, il Mali si siano rivelati inconcludenti o controproducenti. In nessuno di questi casi le missioni militari hanno prodotto situazioni di pace o di effettiva democrazia. Hanno invece radicalizzato e prolungato la violenza, ampliato il numero delle vittime, approfondito il risentimento, disseminato in grandi quantità le armi sul territorio, stimolato la nascita del terrorismo, prodotto un aumento strutturale di migrazioni forzate. A loro volta, le politiche securitarie e l’utilizzo di dispiegamenti militari per gestire o contenere i flussi migratori hanno prodotto una crescita del numero di vittime, di migrazioni irregolari e di respingimenti, aumentando la precarietà e l’instabilità sia per i migranti che per le popolazioni locali.
L’uso della guerra e della violenza come strumento per garantire la pace o la sicurezza è dunque più una narrazione ideologica che una descrizione credibile. L’interventismo militare va contestato non solo sul piano etico e ideale, ma anche per la sua lontananza dalla realtà concreta e per il fatto che normalmente produce – almeno dal punto di vista della popolazione – maggiore devastazione e insicurezza in termini materiali, ambientali, economici, psicologici e sociali.
In questo scenario inquietante, caratterizzato dall’aumento dei conflitti nel mondo, dal crescente coinvolgimento dei paesi europei in operazioni belliche, dalla crescita delle spese militari in tutto il mondo, dalla minaccia dell’uso di testate atomiche, dal rischio di una nuova guerra mondiale, dal crescente impatto delle guerre sull’ambiente e sul clima e dall’aumento del rischio di incidenti presso centrali nucleari, dal riproporsi degli stupri e di altri crimini di guerra, da un ritorno dell’incubo dei genocidi, dalla crescita delle migrazioni forzate e dalla militarizzazione dei confini, dalle trasgressioni del diritto internazionale umanitario, nonché da un restringersi degli spazi di discussione libera e democratica non soltanto nei paesi più direttamente coinvolti ma anche in Italia e in altri paesi europei, è inevitabile che il movimento pacifista sia sempre più profondamente interpellato, a proposito e a sproposito.
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Pacifismo: da dove ripartire?
Quello che mi appare chiaro è che in uno scenario di questo genere, il movimento pacifista deve considerare la necessità non solo di valorizzare il proprio patrimonio, ma anche di trovare le risorse e gli strumenti per compiere un salto di qualità. Tutti e tutte siamo chiamati a questo sforzo. Da dove ripartire dunque? Di seguito alcuni possibili segnavia.
- Ritengo sia saggio partire da una disamina onesta dei limiti che hanno caratterizzato negli ultimi decenni il movimento pacifista, nel nostro paese innanzitutto, e poi a livello internazionale. C’è un grande patrimonio di esperienze, di testi, di pratiche, di proposte, ma molte di queste vanno messe al vaglio di un mondo e di una realtà che si è trasformata sul piano delle dinamiche geopolitiche, delle forme delle guerre e delle violenze, degli strumenti offensivi. Così come occorre considerare la trasformazione dei contesti istituzionali, sociali, culturali, economici, nonché degli attori che li popolano.
- È necessario riflettere più a fondo sullo spartiacque del 2003. Il 15 febbraio di quell’anno in tutto il mondo oltre 110 milioni di persone si convocavano nelle strade e nelle piazze di oltre 600 città con lo slogan “Not in my name” per manifestare contro l’intervento militare in Iraq. A Roma la manifestazione coinvolse 3 milioni di persone. Il New York Times scrisse che era nata la seconda potenza mondiale del pianeta. Ma la più grande manifestazione per la pace della storia non impedì la guerra in Iraq. I capi di stato dei paesi occidentali, nonostante la contrarietà dell’opinione pubblica in Italia, in Europa e anche negli USA, attaccarono l’Iraq, sulla base di motivazioni false, devastando un paese e contribuendo in realtà a dare spinta al terrorismo internazionale. Quello che per molti versi è stato il punto più alto del pacifismo mondiale si trasformò in una constatazione di impotenza e inaugurò una fase di demoralizzazione e indebolimento del movimento per la pace. Quello spartiacque andrebbe rielaborato su diversi piani e per diversi aspetti.
- Un aspetto centrale da questo punto di vista è la connessione tra democrazia, guerra e pace. È possibile parlare di democrazia in sistemi nei quali le élites politiche possono prescindere completamente dall’opinione pubblica su una delle decisioni più importanti di una comunità politica: la scelta tra la pace e la guerra? Questo fatto richiede di approfondire il senso e il funzionamento delle istituzioni democratiche (su questo ma anche sulle sfide attuali come la crisi ecologica e climatica, il ruolo e la direzione delle nuove tecnologie, le pandemie ecc.). E d’altra parte dovrebbe spingere il pacifismo ad una riflessione più profonda su come la lotta per la pace sia contemporaneamente una lotta per un ripensamento profondo della democrazia: dalle forme di partecipazione alle forme di controllo democratico, dagli spazi pubblici di discussione al ruolo delle tecnologie robotiche e digitali ecc.
- Un altro aspetto centrale connesso a questo riguarda le pratiche politiche del movimento pacifista. Le marce, le manifestazioni, l’occupazione delle strade e delle piazze sono importanti ma possono non essere sufficienti. È ovvio che il movimento pacifista ha nel proprio zaino tanti altri strumenti e modalità di intervento – dalle missioni e carovane per la pace, ai progetti sui territori attraversati dalle guerre, dalla ricerca scientifica sulla pace e sulle guerre al lavoro di educazione alla pace nelle scuole e nelle università, dall’obiezione di coscienza ai corridoi di sostegno ai disertori e ai profughi di guerra, dalle campagne contro le armi a quella contro le banche armate, dalle forme di disobbedienza civile nonviolenta alle proposte di difesa popolare nonviolenta ecc. Senza rinnegare nulla, non possiamo tuttavia evitare di domandarci con coraggio se oggi è necessario provare ad aggiornare, rinnovare e ampliare questo patrimonio e a immaginare pratiche nonviolente più capaci di praticare il conflitto sociale e politico, anche con le stesse istituzioni. Occorre trovare nuovi modi per portare alla luce i conflitti, per disvelare l’ingiustizia, per coinvolgere l’opinione pubblica e per spingere i governi ad intraprendere responsabilmente azioni e misure adeguate in termini di democrazia, equità, giustizia ambientale e sostenibilità nei rapporti tra popoli, paesi, generi e generazioni.
- In prospettiva una sfida cruciale su cui occorre lavorare è immaginare un movimento pacifista in grado di elaborare una lettura più ampia e più profonda sulle forme del militarismo e della violenza nel mondo contemporaneo. Non solo disarmo, non solo rifiuto della violenza militare ma ragionamento più profondo sulle forme della violenza strutturale (economica, ecologica, sessista, razzista ecc…), delle forme di violenza più “lenta” e invisibile. Della connessione sempre più insidiosa tra forme di estrazione, forme di produzione e consumo e forme di distruzione. Oggi la doppia sfida di un pacifismo critico e di una decrescita democratica e nonviolenta è quella di comprendere più a fondo le connessioni tra mezzi di produzione e mezzi di distruzione, tra i modi in cui produciamo ricchezza e benessere economico e i modi sempre nuovi in cui si dispiegano guerre e violenza. Per il movimento pacifista è fondamentale riconoscere che non basta criticare le iniziative militari se non si costruisce un’opposizione sufficientemente forte ed organizzata per contrastare quel sistema economico e politico che giustifica esplicitamente o implicitamente quelle guerre per difendere gli interessi economici fondamentali dei paesi occidentali. Per il movimento della decrescita è fondamentale esplorare come il degrado dell’ambiente, il cambiamento climatico, il crescente esaurimento delle risorse e la stessa minaccia della catastrofe socio-ecologica rischino – in mancanza di un forte movimento partecipativo e democratico – di lasciar spazio ad una securitizzazione e militarizzazione della questione ambientale.
- Abbiamo bisogno di elaborare in maniera più profonda la connessione tra pace e giustizia sia sul piano sociale che ambientale. Per essere credibile, autorevole e durevole, dobbiamo approfondire la nostra concezione della pace. Come diciamo nella sezione monografica di questo numero, consideriamo inevitabile riflettere sull’iniquità del sistema capitalistico e del modello di crescita economica e viceversa sulla necessità di inventare forme di decrescita e benvivere come precondizione per la pace.
- Per compiere questo passaggio dobbiamo scavare più a fondo nel rapporto tra guerra e questione sessuale, ed in particolare tra guerra e cultura maschile. Ancora oggi la guerra rappresenta in primo luogo un gioco simbolico maschile che si fonda sul disconoscimento della comune vulnerabilità, sull’esibizione di potenza, sull’uso della forza, sull’imposizione della propria volontà e della propria superiorità militare. Il fascino della guerra si fonda ancora sull’idea di un’impresa esaltante e gloriosa finalizzata a conservare il potere ed il prestigio degli uomini. Da questo punto di vista occorre comprendere che la violenza sulle donne e gli stupri di guerra non sono semplicemente “una” delle forme della violenza, ma portano alla luce un nucleo culturale e simbolico fondamentale. C’è un legame tra l’ethos guerriero, la formazione degli eserciti e la struttura sociale che marginalizza le donne e le trasforma in trofei di guerra. C’è un legame tra la violenza verso le popolazioni nemiche e la violenza negli eserciti, nelle famiglie, nelle strade. C’è un legame tra le strutture patriarcali della guerra e l’ordinaria violenza contro le donne e contro tutte le soggettività non conformi agli stereotipi sessuali.
- Più in generale abbiamo bisogno di sviluppare un pacifismo “intersezionale”: capace di considerare e chiarire le interconnessioni tra violenza bellica, violenza sessista, violenza ecologica, violenza verso i migranti, violenza verso le future generazioni e verso gli animali. Quando oggi ci interroghiamo sulla questione della violenza, della sicurezza/insicurezza, della sostenibilità/insostenibilità dobbiamo sforzarci di tenere al centro la questione della giustizia. Dobbiamo chiederci: pace per chi? Sostenibilità per chi? Sicurezza per chi? Come considerare ed integrare le legittime aspirazioni alla giustizia dei diversi soggetti coinvolti? Dobbiamo considerare e garantire le condizioni di sopravvivenza e di rigenerazione per tutti/e.
- Il tema dell’informazione giornalistica e scientifica rappresenta un’altra questione fondamentale. Non solo perché l’informazione è oggi una delle dimensioni cruciali del warfare, un’arma di guerra e al contempo uno dei terreni più importanti su cui si dispiega la guerra (dalle operazioni psicologiche militari, al management dell’informazione e al marketing della guerra, fino alle forme di cyberwar). Ma anche perché la conservazione di uno spazio pubblico di discussione e di pluralismo dell’informazione è la condizione sine qua non di sviluppo di un discorso e di una comunicazione di pace. Occorre dunque ampliare e approfondire il lavoro di documentazione, di educazione (a partire dalle scuole), di ricerca scientifica (a partire dalle università), di giornalismo scientifico per contestare nel merito la retorica bellica, per far comprendere il reale impatto e l’eredità delle guerre sulla popolazione, sul lavoro, sull’accesso ai beni fondamentali, sui fenomeni migratori, sull’ambiente e sulle altre specie viventi, sul terrorismo.
- Occorre d’altra parte anche sviluppare una consapevolezza comunicativa, la capacità di interpretare autorevolmente i vissuti e le emozioni delle persone, contrastando la demoralizzazione, la paura e l’angoscia, supportandole nel riconoscimento e nell’elaborazione del lutto e della sofferenza, ma anche accompagnandole nella costruzione di emozioni positive e di scelte basate sulla fiducia, sul coraggio, sulla compassione, sul desiderio di riscatto, sull’empatia e sulla solidarietà.
Si tratta solo di appunti, di segnavia, che occorre discutere, integrare, precisare, ampliare. E per tutto questo occorre darsi delle occasioni di confronto: dedicare più spazio e più tempo non solo a parlare delle guerre, ma anche ad approfondire e immaginare l’idea della pace e le pratiche del pacifismo. In termini politici occorre riconoscere e confrontarsi con il patrimonio di riflessioni e di pratiche prodotte dal femminismo, dall’ambientalismo, dai movimenti della decrescita e per l’economia solidale, dai movimenti antirazzisti, dalle diverse tradizioni del pacifismo antimilitarista, operaio, internazionalista, laico e religioso ecc. Abbiamo bisogno di ampliare le nostre capacità di relazione e collaborazione per lavorare insieme in maniera più efficace. Questa rivista* e questo numero intendono portare un contributo in questo senso, offrendo spazi di confronto e discussione, mettendosi a disposizione e collaborando assieme ad altri e ad altre a creare nuove occasioni di incontro, condivisione e pratica politica fondate sull’impegno comune a rispettare e prendersi cura della vulnerabilità e mortalità piuttosto che sull’illusione di eliminarle.
(In memoria di Eugenio Melandri e Gianni Caligaris)
1 ACLED Conflict Index https://acleddata.com/conflict-index/
2 Olga Ivshina, Becky Dale & Kirstie Brewer, BBC Russian, “Russia’s meat grinder soldiers – 50,000 confirmed dead”
17 aprile 2024. Questi dati non includono i morti delle milizie di Donetsk e Luhansk, nell’Ucraina orientale occupata dai russi.
* Pubblicato sulla rivista Quaderni della decrescita (con il titolo completo Pacifismo punto a capo. Segnavia per ripartire), il cui ultimo numero è dedicato ai temi della pace
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