13 maggio 2024

UN FILO DI SPERANZA

 

                                                                    UC Berkeley. Foto di Chris Carlsson

Una luce di speranza


Raúl Zibechi
13 Maggio 2024

La grande rivolta giovanile nelle università degli Stati Uniti non smette di crescere e mostra una meraviglia di organizzazione e l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade delle grandi città. “Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento – scrive in un reportage di grandissimo interesse Raúl Zibechi da Philadelphia e Los Angeles – Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte…”



Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.

Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta accampamenti in tanti altri edifici accademici.

Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane, un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali, c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans. Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile nella storia dell’ebraismo. I canti risuonavano forti, cantati da una moltitudine che faceva eco ai “Viva la Palestina”. Né a Philadelphia né in nessun altro campus ha sentito il minimo insulto alla condizione di ebreo o di israeliano, nonostante ciò che dicono i media.

Qui c’è una parte della generazione di Occupy”, dice a Brecha un docente di origine peruviana di nome George, riferendosi al movimento Occupy Wall Street. Aggiunge che queste sono le mobilitazioni studentesche più grandi dalla guerra del Vietnam, un famoso commento che ormai è diventato di buon senso. Un piccolo gruppo chiede come furono smantellate le enormi proteste di Occupy Wall Street nel 2011, quando ci furono grandi manifestazioni in 52 città contro l’1 per cento più ricco della popolazione. “La repressione fu molto forte, con moltissimi arresti”, concludono in molti, ma una voce aggiunge che ci furono anche molte dispute interne tra le varie correnti della sinistra radicale, nella quale anarchici e marxisti inaspriscono le mobilitazioni fino a consumarle.

La Columbia ha fatto il primo passo, solido, potente, con un gran numero di studenti manifestanti, ma la reazione a catena è stata impressionante. In due settimane sono sorti più di 100 accampamenti e giorni dopo la cifra si è andata moltiplicando, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le occupazioni in California sono in parte diverse da quelle della costa orientale. La più numerosa e simbolica, quella del campus dell’Università di California, Los Angeles (UCLA), ha mostrato un ampio nucleo militante molto ben organizzato, capace di garantire cibo e assistenza sanitaria a centinaia di accampati, ma con alcune caratteristiche simili a quelle dell’accampamento della Columbia.

L’ingresso dei visitatori solidali era a carico di un gruppo di sicurezza con volti coperti e criteri stabiliti per evitare contrattempi, perché piccoli gruppi sionisti spesso provocavano e aggredivano i campeggiatori, con l’atteggiamento passivo e complice della polizia. Quando è stato annunciato lo sgombero della fortezza in cui si era trasformato il campo della UCLA, barricato da tutte e quattro i lati, i manifestanti hanno deciso di dividersi secondo tre colori: con il rosso chi non aveva problemi ad essere arrestato, con il verde o giallo chi non voleva. Nella lunga notte dello sgombero la polizia ha arrestato 200 giovani, circondati da mille mani solidali che gli portavano da mangiare, che manifestavano fuori dai commissariati contattando media o avvocati difensori. Una meraviglia di organizzazione in cui risaltano vastissime reti di solidarietà quasi spontanee, sorte dal senso comune dell’autodifesa non violenta.

È stato sorprendente arrivare fino all’Occidental College, un’università relativamente piccola in una zona benestante della città, sopra una collina. Più di cento tende in un ambiente rilassato, senza problemi con le autorità accademiche né con la polizia, che non si è mai presentata. L’unica guardia di sicurezza indicava ai visitatori dove si trovava l’accampamento. Invece la California State University, in un lontano quartiere di lavoratori e migranti, mostrava uno stile simile a quello delle grandi occupazioni, anche se con meno partecipanti.

Nei fatti ogni accampamento è un mondo a parte secondo il settore sociale a cui appartengono gli studenti, anche se è evidente che hanno molto in comune, nella forma come negli obiettivi. Uno di questi è il “disinvestimento”, disinvestire in tutte le aziende che fanno affari con Israele e con i fabbricanti di armi, obiettivo che alcune università sono vicine a conseguire e che è stato una delle richieste centrali oltre il cessate il fuoco.

Come evidenzia l’analisi del portale anarchico CrimethInc, “le università dipendono dai finanziamenti e dalle relazioni di ricerca con militari, produttori di armi e sionisti”. In accordo con il Dipartimento di Educazione statunitense, negli ultimi vent’anni un centinaio di università hanno reso note donazioni da Israele o contratti con il paese per il valore di 375 milioni di dollari, una cifra che un’analisi di Associated Press considera molto sottostimata rispetto al valore reale ancora da calcolare. La quantità di denaro investito dalle università degli Stati Uniti in aziende e progetti israeliani dell’industria bellica e di sicurezza è al momento sconosciuta. Gli studenti dell’Università del Michigan affermano che la loro istituzione invia più di 6.000 milioni di dollari a manager di investimento legati a imprese o contraenti israeliani. Secondo CrimethInc, che segue da vicino il movimento delle occupazioni, “la richiesta essenziale di vedere i palestinesi come esseri umani è incompatibile con i programmi del governo e delle università statunitensi”, perché questo paese “ha bisogno di Israele come socio strategico per mantenere la sua presenza in Medio Oriente”.

Mentre sgomberavano la UCLA, in altri atenei si preparavano per gettarsi nella mischia, come a Binghamton e Santa Cruz, quasi agli estremi di questa inafferrabile geografia. Inizia a nascere un sentimento comune ai giovani di rifiuto del massacro indiscriminato di bambini e bambine, che si esprime appena ve n’è possibilità, e le possibilità non sono poche nell’edificio lacerato del potere statunitense. In alcuni quartieri di New York ci sono più bandiere palestinesi che nelle città dell’America Latina. Nel New Jersey per esempio, anche nelle periferie come Paterson, città antesignana dell’industrializzazione, oggi abitata da peruviani, asiatici e arabi. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade della Grande Mela.

Le proteste contro la guerra in Vietnam, in cui gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo impiegando mezzo milione di soldati, sono iniziate nel 1963 e l’anno seguente centinaia di giovani iniziarono a bruciare in pubblico le cartoline di precetto per rifiuto al reclutamento. Con gli anni gli studenti sono diventati il centro della protesta, a cui si sono unite madri di soldati, afroamericani che protestavano contro la segregazione razziale, fino ai principali ambiti della società, tra i quali spiccano i militari veterani.

Ci furono enormi azioni di massa, come quella del 21 Ottobre 1967, quando 100 mila persone si riunirono davanti al monumento a Lincoln a Washington e più tardi almeno altre 50 mila circondavano il Pentagono. Nell’aprile del 1971 mezzo milione di persone marciò a Washington contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam. L’escalation di mobilitazioni giovanili cambiò il paese, che si polarizzò tra chi appoggiava e chi rifiutava la guerra. Il movimento ebbe una durata notevole e una decadenza lunga e turbolenta. Nel 1966 si era già esteso all’intero paese e a febbraio di quell’anno 100 militari tentarono di entrare nella Casa Bianca per restituire al presidente le loro medaglie. L’opposizione alla guerra continuò a raccogliere seguaci, a tal punto che la maggioranza assoluta degli statunitensi esprimeva il suo rifiuto nei sondaggi. Nonostante la repressione e l’infiltrazione di agenzie statali come l’FBI e la CIA, le manifestazioni non smisero di crescere e di espandersi, giocando un ruolo a parte nel formarsi di una coscienza globale contro la guerra in Vietnam. Artisti come Joan Baez e Bob Dylan, atleti come Muhammad Ali e moltissime altre note personalità contribuirono a espandere la coscienza del fatto che il loro paese non avrebbe dovuto combattere nel sudest asiatico.

Negli anni della guerra migliaia di reclute disertarono (le stime oscillano tra 80 mila e 206 mila); si calcola che mezzo milione di soldati abbandonò l’esercito e altro mezzo milione si licenziò senza onori, per disobbedienza. Cifre allucinanti che portarono la Casa Bianca a sospendere il servizio militare obbligatorio nel 1973. L’appoggio alla guerra cadde dal 61 per cento nel 1965 al 28 per cento nel 1971, ma alcuni fatti mostrano l’entità dell’opposizione: “Nel 1969, durante la cerimonia di apertura del corso della prestigiosa Brown University, due terzi dei laureati diedero le spalle a Henry Kissinger quando si alzò per pronunciare il discorso”, ha scritto lo storico Howard Zinn.

È evidente che la memoria di questo enorme ciclo di proteste aleggia sull’attivismo giovanile che trabocca dalle università. Però non è giusto fare troppi parallelismi o rallegrarsi troppo. L’1 per cento della popolazione quest’anno si sta giocando troppo. La vicinanza delle elezioni di Novembre sta accelerando i tempi della repressione, come si vede in questi giorni in cui sono state arrestate più di duemila persone che manifestavano nelle università. Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento. Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte.

Per gli analisti più critici, come il citato CrimethInc, gli Stati Uniti vivono una situazione inedita per l’alleanza tra repubblicani e democratici in sostegno di Israele. “Questo crea una situazione che potrebbe essere unica tra tutte le proteste di massa della storia recente”, afferma il portale. Come esempio cita la ribellione davanti all’omicidio di George Floyd nel 2020, soffocato dal ginocchio di un agente bianco. I grandi media e i democratici hanno tollerato le proteste senza censurarle o reprimerle, perché “pensavano di poterne approfittare per costruire una base elettorale contro Trump durante l’anno elettorale”.

La percentuale di votanti che approva la gestione del presidente Biden è la più bassa mai registrata, secondo Gallup. Con il 38,7% di sostegno resta sotto anche a Bush padre, che aveva il 41,8% e ha potuto governare per un solo mandato. Se si osserva la grafica, è troppo piatta, e secondo l’impresa di opinione pubblica la popolarità di Biden “non mostra segni di aumento” (Gallup News, 26-IV-24). La stessa impresa sostiene che l’opposizione a Biden continua a crescere e si situa già nel 58% dell’elettorato. Nel frattempo l’indice di fiducia economica è meno del 29% e solo il 23% crede che le cose vadano bene negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi l’immigrazione è considerata il primo problema e a livello finanziario l’inflazione è la preoccupazione più lontana dell’elettorato. Il fatto più noto però è che solo il 27% approva il suo coinvolgimento nella crisi tra Gaza e Israele. Una parte sostanziale delle critiche vengono dal suo stesso partito. La settimana scorsa 88 membri del Partito Democratico al Congresso hanno firmato una lettera diretta al presidente in cui denunciano gli ostacoli imposti da Israele agli aiuti umanitari nella striscia di Gaza, affermando che ci sono sufficienti prove per dire che la legge statunitense è stata violata.

In più aleggia il fantasma delle primarie nel Michigan, lo scorso Febbraio, quando 100 mila votanti democratici, per la maggioranza di origini arabe, oltre a giovani e progressisti, hanno voltato le spalle a Biden per via del suo appoggio incondizionato a Israele. “Storicamente, i capi di governo che vogliono essere rieletti con indici di approvazione inferiori al 50% poco prima delle elezioni, hanno perso”, evidenzia Gallup. Il ruolo degli elettori indipendenti sarà decisivo alle presidenziali di Novembre, oltre a un 10% di democratici che non voterebbe Biden anche se questo significasse il ritorno di Trump.

Con il passare dei giorni iniziano ad apparire dati rivelatori sull’atteggiamento della polizia, come il caso dello sgombero alla UCLA. “La notte di martedì un gruppo di persone in maschera ha circondato l’accampamento, lanciando petardi e attaccando violentemente gli studenti. Studenti e giornalisti di diverse testate hanno raccontato che le forze di sicurezza assunte dell’ateneo si sono rinchiuse in edifici là vicino e che la polizia è stata a guardare per ore prima di intervenire” (The Guardian, 2-V-24). Addirittura il pro Israele e lealista New York Times ha dovuto riconoscere, dopo aver revisionato 100 video, che “dei contromanifestanti” sionisti con indosso maschere bianche hanno attaccato l’accampamento pro Palestina per cinque ore davanti alla passività delle forze dell’ordine. Ovviamente il quotidiano newyorchese non ha detto che i violenti erano sionisti, ha detto solo che erano contro i manifestanti. The Times of Israel, edito a Gerusalemme, titola: “Studenti ebrei dicono che la violenza pro Israele nel campo di protesta della UCLA ne ha indebolito la difesa” (2-V-24). “La federazione ebraica di Los Angeles si è fatta portavoce del messaggio in una rara dichiarazione in cui critica le azioni dei sionisti nel campus”, scrive il quotidiano, e aggiunge che ora il prestigio di chi difende Israele è caduto molto in basso. Fatti come quelli della UCLA pongono due questioni fondamentali: che neanche i media più rispettabili possono più nascondere le atrocità del potere, e che il discorso di Biden che accusa gli studenti di violenza è molto lontano dalla realtà.

[10 maggio 2024]

[Traduzione per Comune di Leonora Marzullo


Articolo ripreso da https://comune-info.net/una-luce-di-speranza/

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