02 agosto 2024

MEMORIA CONTRO AMNESIA

 


Memoria contro amnesia. Dialogo sulla poesia tra Gisella Blanco e Alberto Bertoni.

G.B. : Tra “capovolgimenti edipici” e divertite ironie freudiane, Alberto Bertoni, nella sua ultima fatica letteraria, Libro dell’ansia (Book Editore, 2024), continua a ricordare la figura del padre, Gilberto Bertoni, la vita che ha condotto e la sua morte, per decodificare la propria, di esistenza, e per esorcizzare le proprie fobie, le piccole amabili stranezze che il poeta, critico anche e soprattutto di sé stesso, offre generosamente ai lettori con la sua poesia. E l’ansia diviene immancabile metafora della vita contemporanea e paradosso di ogni saggezza acquisita.

La morte appare come un rito da riformulare periodicamente per sopravvivere all’estenuante ansia sul proprio, sconosciuto destino (finanche quando al destino non si crede): ciò accade sia nei versi di Bertoni, dal forte impatto fonosimbolico, sia nel suo riproporli in libri e contesti diversi, come una lunga rielaborazione che non si può concludere, una metabolizzazione non solo del lutto ma anche di quello che ne consegue.

Quando si tratta di materiale prettamente psico-emotivo, prima che letterario, ecco che sopraggiunge il dialetto come linguaggio istintivo, come ritorno all’origine del dire, all’animalità dell’espressione, come un lapsus che irrompe nel discorso e lo lascia estendere fino a ciò che non si sa nemmeno di poter dire.

Benjamin sosteneva che “le allegorie sono nel regno delle idee ciò che le rovine sono nel regno delle cose”, e suggeriscono altro, di più di ciò che si intende dire in modo volontario. L’evento della perdita della figura genitoriale – superando il rischio del descrittivismo e dell’eccesso di personalismo, molto presenti nella letteratura di oggi – nei tuoi versi sembra diventare un’allegoria di quello che era prima e delle plurime possibilità di ciò che sarà dopo la morte, nella vita di chi rimane e continua a formulare linguaggi, ricordi, nevrosi e, in ultimo, simboli comunicativi. Ce ne parli?

A.B. : Prima di rispondere alla delicata e cruciale questione della figura paterna come allegoria, devo precisare che abbastanza spesso (soprattutto negli ultimi tempi) mi capita di concentrare il mio istinto sperimentale – questo è un presupposto della mia formazione poetica, nella Bologna degli anni ’70, con maestri come Anceschi, Guido Guglielmi, Niva Lorenzini, Alessandro Serra – nella macroforma del libro, piuttosto che nella metrica o nella lingua delle singole poesie. Libro dell’ansia ne è un esempio lampante, visto che è costituito di due parti poeticamente contrapposte. La prima è la quarta edizione, finalmente ne varietur, del mio libro più letto, Ricordi di Alzheimer, che raccoglie il frutto di più di un quarto di secolo di scrittura e che è dedicato alla vicenda davvero vissuta dei miei dialoghi e delle mie passeggiate (un po’ forzate un po’ spontanee) con mio padre Gilberto. Mi accorsi del suo Alzheimer incipiente nel maggio del 1997 e – in quanto figlio unico – l’ho accompagnato nel percorso della sua malattia fino alla morte per infarto, sul pianerottolo di casa, di rientro dalla passeggiata quotidiana, verso le 14 del 5 gennaio 2006. Da nove anni non scrivevo altro che di lui, nonostante che fra di noi non ci fosse alcuna confidenza che non riguardasse la nostra comune passione sportiva.

Avevo già più di quarant’anni, nel ’97, convivevo nella stessa casa modenese (quella d’infanzia e adolescenza) con lui e mia madre, ma lavoravo già all’università di Bologna come ricercatore, conducendo una vita indipendente (ero legato già da più di un decennio a una donna sposata, con la quale ci saremmo sposati altri vent’anni dopo la scoperta della malattia paterna) e avendo pubblicato da qualche mese il mio primo libro di versi, Lettere stagionali, nel quale di mio padre non si parlava proprio. Eppure, da quando percepii l’irrimediabilità della perdita progressiva di memoria che aveva cominciato ad affliggere mio padre, senza che neppure me ne accorgessi, cominciai a scrivere quasi solo di lui, della sua malattia e del mio ruolo di cronista/archivista/annalista del suo nuovo rapporto con il mondo.

Un po’ di tempo dopo la sua morte, mi accorsi che avevo il materiale sufficiente per un nuovo libro monotematico di poesia, che intitolai in un primo tempo Diario di Alzheimer e che in extremis corressi nell’ossimoro Ricordi di Alzheimer: mi sembrava più efficace, proprio perché provavo ad applicare quel potentissimo dispositivo memoriale che è la poesia coi suoi metri, i suoi ritmi e le sue musiche verbali all’esperienza di tabula rasa che mi veniva imposta dal cuore del mio dna. Nel lavoro di edizione (ed era già il 2008), mi vennero in soccorso due amici veri, Massimo Scrignòli alias Book Editore per dare alle stampe il manufatto; e Francesco Guccini, che mi donò una bellissima poesia in dialetto pavanese, trasformata anni dopo nella canzone Natale a Pàvana da Mauro Pagani.

Il libro uscì dalla cerchia ristretta dei membri della Società dei Poeti Viventi e raggiunse subito un pubblico più ampio: in parte perché l’Alzheimer stava diventando una sorta di malattia sociale, collettiva piuttosto che individuale; e in parte perché il libro venne adottato dall’associazione toscana dei parenti dei malati e in particolare da due persone di straordinaria verità umana quali Manlio Matera e l’attrice Daniela Morozzi. Quattro anni dopo, ci fu bisogno di una seconda edizione (bruciata tutta dalle associazioni toscane, cui si era unito un luminare nella cura dell’Alzheimer come il professor Marco Trabucchi con la cooperazione solidale ma autonoma di poetesse del valore di Franca Grisoni, Vivian Lamarque e Roberta Dapunt), e nel 2016 di una terza, arricchita dal testo introduttivo di Guccini, da una partecipe nota critica del poeta Milo De Angelis e da un mio lungo racconto intitolato Una storia, nel quale provavo a dire chi era mio padre al di fuori e al di là delle mie “croniche” poetiche e a descrivere il contesto nel quale si era dipanata la sua vicenda di malato mentale.

Nel frattempo, la mia poesia – per fortuna – era riuscita a imboccare anche altre strade, nel ’20-’21 c’era stato il biennio della pandemia, ma ogni tanto sentivo in agguato qualche altro ricordo di Alzheimer e non rinunciavo a scriverlo. A farla breve, dentro di me ero consapevole con persuasione sempre più accentuata che il libro non era ancora finito. Appreso da Scrignòli che anche la terza edizione era in via di esaurimento, ho avvertito il bisogno anche morale di denudare la trama poetica di tutti i paratesti con la quale l’avevo in precedenza sostenuta, consegnandola all’essenzialità della sua forma versificata: così, ho apportato alcune varianti testuali e soprattutto ho aggiunto in fondo un’intera sezione che ho intitolato Post Scriptum e che – in una sorta di passaggio di testimone dell’orrore – è dedicata al mio Alzheimer di poeta/archivista/giudice spietato di una vicenda antropologica tutt’altro che edificante. E così i Ricordi sono conclusi oggi da una poesia scritta addirittura a Varsavia nella tarda primavera del 2023, esattamente ventisette anni dopo la prima.

E mi fa piacere riportarla qui, perché vale proprio come lascito testamentario d’autore, casomai s’inveri quel 24,8% di possibilità di ammalarmi anch’io di Alzheimer, preconizzatomi un giorno da Marco Trabucchi. Ma oltre che autore, sono anche da sempre uno scommettitore ippico e – fossi sicuro che ogni cavallo che gioco ha il 75,2% di possibilità di vittoria o di piazzamento – aumenterei di molto la posta delle mie scommesse. Ma ecco la poesia composta l’anno scorso in Polonia:

Ha ragione l’amica, quando dice
Varsavia è una città che ti guarda
molto più molto meglio di quanto
possa mai tu, guardarla

Vede tutto, Varsavia
anche la tua
girovaga ignoranza
di lingua, cultura, luce
che sembra tagliata

Però ti rilassi,
placata finalmente l’ansia
che da tempo attanaglia
ogni movenza del tuo corpo
e non ti dà tregua, rende
quasi impossibile ogni dopo
fra te stesso e la mente

“Alzheimer cancro colpo
definitivo al cuore
se mai di qualcosa si muore”

Troppe chiese, d’accordo
per l’ateo che sono
e per l’occhio concentrato
a enumerare perdite
nei destini precoci delle foglie
che cadono per prime, lentamente
nonostante tutto il verde
pronto lì sotto ad accoglierle
intanto che t’illudi di risorgere
dal senso comune mentre crede
di ricomporre insieme
il buio e la luce,
la frenesia e la quiete
suddividendoti equamente
fra le ore di cieco lavoro
e il sogno di morte che non vuole
più nessun quando
o dove

G.B. : Dopo il poemetto sul momento della morte del padre, seguono una serie di testi intitolati goliardicamente (e ironicamente) a Kafka che, prendendo spunto da elementi tratti dall’esperienza del quotidiano, sembrano riprendere il tema giudiciano dell’”Autobiologia”, in cui si estremizza il rapporto dell’etica con il reale, senza lesinare un drammatico approccio ilare allo sguardo sulle cose, e sul sé.
“Resto qui solo con il mio occhio esperto/ma non tocco il segreto”. Riprese da Ricordi di Alzheimer – Una storia (Book Editore, 2008), queste poesie contengono una oscurità relativizzata che non riduce l’esperienza del lutto al solo dolore individuale. Ci dici di questo aspetto della tua poetica?

A.B.: L’intrapresa dei Ricordi di Alzheimer mi ha posto fin dall’inizio un problema di coscienza: io che ho sempre diffidato della poesia del dolore individuale, esposto in forma autobiografica, senza il filtro allegorico dell’arte e delle sue consapevolezze formali, tutte di secondo grado, ecco che – messo alla prova di questo elemento tremendamente distruttivo che è l’Alzheimer – ne rimango talmente coinvolto da mettere a nudo aneddoti, affetti, tracolli, sentimenti, disastri “tutti realmente accaduti”. A cose fatte e a catarsi ormai compiuta (il tema alzheimeriano non fa più parte della zona inconscia, censurata e rimossa da cui scaturiscono le poesie), credo che a salvarmi sia stato proprio il lavoro ininterrotto che – fra il 1997 e il 2023, fra una notte ambiguamente tiepida nella zona sud di Modena e un pomeriggio soleggiato di Varsavia – ha prodotto le quattro edizioni dei Ricordi, nessuna uguale all’altra.

E quello che dici in proposito (“la perdita della figura genitoriale… nei tuoi versi sembra diventare un’allegoria di quello che era prima e delle plurime possibilità di ciò che sarà dopo la morte…”) è proprio il compimento figurale di un dilemma di coscienza che prescindeva anche dalla qualità poetica delle singole componenti e che per l’appunto richiedeva anche all’io recitante di uscire dalla “bolla” di sicurezza della finzione suprema, per precipitare nella vita nuda, che non fa sconti, che non offre trame coerenti e che è paurosamente altalenante fra qualche sparso apogeo e moltissimi ipogei. In quest’ultima e definitiva edizione dei Ricordi mio padre ed io siamo due maschere allegoriche (sospese come tutte le maschere vere fra commedia e tragedia) e non due piccoli soggetti transeunti della middle class piccolissimo-borghese e provinciale diffusa in tutto l’odierno “primo mondo” occidentale. 

G.B.: Non mancano i calembour, i riferimenti al calcio, alle corse di cavalli, alle gare di macchine, all’evasione che conduce a nuove consapevolezze, a quella “certezza dell’errore” che sprona al dubbio come strenua risorsa di autoconservazione.

E se nella vecchia pubblicazione, a seguire era la sezione Larva, qui il titolo sarà al plurale. Che sia una scelta o un caso, le Larve insidiano la vita – e la coscienza – dell’uomo, come i topi einaudiani[1], nel solco scavato dalle memorie e negli strani scambi tra vivi e morti attraverso le cose del mondo, in un tempo che, tra i versi, perde perfino il suo ordine cronologico.

“Il mondo è irrevocabile” è, forse, la parafrasi del rapporto dell’io con i propri versi.

“Ogni uomo è un universo”, e ancora, “siamo così piccoli e così insignificanti”: sono palinodie (i versi si trovano in testi tipograficamente vicini) e, contemporaneamente, modi d’investigare l’esistenza umana da punti di vista diversi.

In una generosa intervista comparsa su Il Tasto Giallo tra Bertoni e Rosanna Frattaruolo, l’autore afferma: «Poi, certo, alla fine affiora sempre la questione della scrittura in prima persona. Capita una mattina di alzarsi e dire: “Oggi può essere un giorno di poesia”, che vale in realtà un “oggi forse scrivo”, perché c’è un movimento che sta coagulandosi e che ha bisogno di essere disteso in una serie di frasi versificate, ritmate, plasmate dentro un crogiuolo metrico. Sono giornate in cui la prima parola che mi viene in mente appena mi sveglio è una parola che fluisce in modo anche musicale e sono le giornate in cui appunto a bassa voce mi dico: “Oggi potrei scrivere una poesia”. Bisogna anche “aver qualcosa da dire”, però, e spesso invece, anche nei giorni in cui il pensiero fluisce in forma musicale, accade che non si disponga di un oggetto, di un evento, di un argomento (comunque derivato da un aneddoto esperienziale), di una piegatura particolare del reale, di un Tu destinatario/a del discorso o di un paesaggio (non importa se interiore o esteriore) da modellare, da esprimere». Tali riflessioni, necessarie oggi più che mai a chi decide di scrivere e, in particolare, di scrivere poesia, aprono la strada al tema dell’io. Se l’utilizzo dell’io, non solo come effettiva prima persona ma come filtro espressivo, ha accompagnato tutta la storia della poesia, sin dai primordi e dalla mìmesis, rimane anche oggi uno degli aspetti più scottanti dell’atto della scrittura. 

La seconda parte del libro, L’epoca dell’ansia – Libera versione e adattamento dell’”ecloga barocca” The Age of Anxiety di W. H. Auden, si apre con una introduzione in cui l’autore spiega il senso del “convulso”, e cioè uno stato emotivo e psicologico che si collega all’opera in traduzione del poeta americano.

“La poesia comincia sempre (per tutti) da uno scricchiolio o – come preferiva Majakovskij – da un ritmo-rimbombo dal quale, a poco a poco, il poeta comincia ‘a estrarre le parole’”.

Davanti a “un’ecloga barocca composta nel cuore del Novecento, vale a dire un poema strutturato drammaticamente, fra dialoghi e soliloqui”, il traduttore non ha smarrito l’intuito ritmico-contenutistico del poeta, mettendo a contatto le due anime con quella – immancabile – del critico. E non stupisce che la scelta, da parte di Bertoni, sia ricaduta su un autore che, con disinvolta grazia dissacrante, lascia profeticamente combaciare il sacro con il profano, l’amore con il disamore, la rabbia con la seduzione, il gioco con il dolore, l’attualità con un perdurante passato.

Nella prefazione, Bertoni cita Brodskij e Heaney come poeti affini ad Auden: la realtà efferata continua a mostrare le sue strazianti meraviglie, e si dispiega attraverso i suoi simboli, la giustizia e le ingiustizie mischiate fra loro, come nell’Antologia di Spoon River.

È possibile – mi permetto di formulare questa ipotesi – che in Auden (ma non anche in Brodskij e Heaney, i cui toni appaiono maggiormente apodittici) compaia quella oscurità relativizzata, a tratti ilare, di cui si parlava a proposito della poetica di Bertoni.

Torno a Benjamin, alla sua idea di traduzione in cui, in un paradosso, “giungono a fondersi libertà e letteralità”: così, il filosofo, in una lunga riflessione sulle insidie del tradurre poesia, afferma che “la versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione”.

Ci parli della tua idea e della tua esperienza sulla funzione traduttiva, e di come si relaziona al tuo atto autoriale?

A.B.: Per creare un giusto e necessario effetto di contrasto narrativo, ho deciso di accoppiare all’incandescenza della ne varietur il risultato del lavoro quadriennale (indotto dall’esplosione della pandemia, tra febbraio e marzo del 2020) di traduzione del fondamentale poemetto The Age of Anxiety di Wystan H. Auden, pubblicato in prima battuta a New York nel 1947. Con dissimulato raccapriccio, mi sono accorto – presentando o regalando in giro il mio libro – che quasi nessuno lo conosce, anche fra i poeti e le poetesse fregiati/e di laurea. L’inglese lo conosco poco e male, ma la colpa della scelta ricade questa volta su mia madre. Ed è un vero paradosso che un figlio unico privo di confidenza e di “amicizia” con i propri genitori sia stato da loro condizionato fino a questo punto in un’avventura letteraria intrapresa a quasi settant’anni di età. “Scherzi della vernaccia”, chioserebbe forse il Manzoni, o qualcosa di oscuramente freudiano che riemerge da profondità abissali? Da sempre, preferisco Manzoni a Freud, ma chissà… Prima di tutto, in ogni caso, da mia madre ho ereditato il convulso, un misto di perenne tensione, disagio e paura nel rapporto quotidiano con il mondo: una forma di ansia al quadrato. Così non deve stupire che, quando siamo entrati quasi d’improvviso nel primo lockdown (al principio di marzo del 2020, più o meno in coincidenza col decimo anniversario della morte di mia madre), io abbia deciso di rileggere il poema noto in italiano come L’età dell’ansia A dire il vero, la prima volta lo avevo letto solo in modo fuggevole, sull’edizione approntata nel ‘94 dal Melangolo di Genova e dotata di un’acuta introduzione del mio amico Valerio Magrelli. Veniva lì ripresa la prima e finora unica traduzione italiana, portata a compimento e curata dal poeta Antonio Rinaldi con la collaborazione di Lina Dessì, nel 1966 per la collana dello Specchio Mondadori: un libro ormai introvabile, che mi sono dovuto procurare in modernariato. Lontana, mi riecheggiava nella mente la metafora d’incipit del discorso di Magrelli, secondo la quale “si può arrivare a Auden seguendo uno scricchiolio”.

Infatti, è tremendamente vero che la poesia comincia sempre (per tutti) da uno scricchiolio o – come preferiva Majakovskij – da un ritmo-rimbombo dal quale, a poco a poco, il poeta comincia “a estrarre le parole”. Da dove poi scaturisca il fenomeno, rimane per il poeta russo un mistero: niente di trascendente né di originario, a suo dire, ma forse solo il “ripetersi d’un suono, d’un rumore, d’un dondolio…”.  A ogni modo, quando ho ripreso in mano il testo di Auden in uno di quei primi, interminabili pomeriggi di pandemia e di segregazione domestica, più che lo scricchiolio mi hanno colpito  l’evidente processo di invecchiamento e le difficoltà di resa in una lingua poetica italiana davvero novecentesca che incrostavano la traduzione esistente: a miglior titolo perché L’età dell’ansia è una sorta di prosimetro d’impianto drammaturgico, metricamente polifonico, nelle sue componenti di prosa-prosa, di verso libero tendente talvolta alla prosa e talaltra a una straniata, prosodicamente composita melodia e di inserti non troppo rari di versificazione chiusa, fra gli estremi dello slogan pubblicitario, del titolo di giornale e della canzonetta.

Scoperta al volo in Rete l’edizione critica compiuta nel 2011 da Alan Jacobs e pubblicata a Princeton (in parte anche commentata e ben documentata tanto sul piano della fisionomia testuale quanto su quello storico-editoriale), l’ho ordinata su Amazon e ricevuta nel giro di una ventina di giorni. A quel punto mi sono avventurato in una traduzione che – al modo di Attilio Bertolucci – è anche se non soprattutto un tradimento, in quanto orientata molto più a un gioco di equivalenze poetiche (e metriche, prosodiche, linguistiche) che all’esattezza letterale della lingua di Auden: d’altra parte, non sono un angloamericanista, il mio inglese parlato è incerto e non più che elementare, quello letto un po’ migliore, ma in ogni caso non sarei stato in grado di sostituirmi agli specialisti, se non al prezzo di esiti risibili. Il lavoro è durato quattro anni e si conclude adesso, a pandemia ufficialmente terminata.

Naturalmente non è questo il luogo per ribadire il rilievo critico e l’attualità del poema (per intitolare il quale in italiano ho preferito rendere Age con epoca piuttosto che con età), alla cui interpretazione e collocazione dentro la storia compositiva di Auden contribuiscono fra i molti due Premi Nobel a lui straordinariamente empatici come Iosif Brodskij e Seamus Heaney. Ora e qui, vale piuttosto la pena di concludere queste scarne righe di giustificazione alla mia temerarietà nel confrontarmi con un tale gigante del Novecento occidentale, chiamando in causa la parentela figurativa dell’ambientazione e della struttura “spaziale” del poema di Auden con il dipinto Nighthawks (Falchi notturni, alla lettera, ma per consuetudine reso con I nottambuli), compiuto dal pittore americano Edward Hopper nel 1942, benché lì i personaggi siano solo tre, due uomini e una donna, cui si aggiunge il barman.

A poco a poco mi sono abituato a convivere col mio miraggio. E dopo l’abitudine è sopraggiunta la passione. Per i primi due anni il tempo a disposizione è stato molto e il velleitario esercizio si è a poco a poco trasformato in un matto e disperatissimo lavoro, condotto in solitario. È dunque ovvio che io solo sono il responsabile di tutti i fraintendimenti, i tradimenti, i tagli di percorso, le omissioni, gli errori materiali nel rendere dall’inglese in italiano qualche singola parola o qualche sintagma: e che io solo sono colpevole anche delle declinazioni fantasiose di certi passaggi della “gelida, arguta, aspra ricchezza” poetica di Auden, al di là del fatto che troppo arduo e vano sarebbe risultato lo sforzo di addentrarmi nei meandri dello slang americano, che viene sapientemente fatto collidere dall’autore con un buon numero di sequenze espresse invece in un inglese grammaticale, talora quasi oxoniense.

Per questo insieme di ragioni, preferisco dichiarare la presente intrapresa un “libero adattamento”, piuttosto che una traduzione vera e propria. Mi impegno però a rassicurare i lettori e le lettrici che nell’edizione presente il testo dell’Epoca dell’ansia “c’è tutto”, dal momento che non ho rinunciato a cimentarmi anche coi suoi passi più impervi, che non sono pochi. A incoraggiarmi, mi ha raggiunto da lontano la voce di Giovanni Giudici che – negli anni ’90 del Novecento, quando ho avuto la fortuna di frequentarlo da vicino – mi ripeteva spesso che, per tradurre bene la poesia, occorreva conoscere la lingua poetica di arrivo meglio di quella di partenza. Ed è senz’altro il mio caso, visto che ho sempre considerato un peccato di hybris provare a imparare un’altra lingua con la stessa precisione e competenza del mio proprio idioma, prima materno e poi scolastico. Senza considerare che, una volta, Francesco Guccini mi ha definito un sordastro musicale: e dunque è già tanto che da quasi settant’anni io limiti il mio impegno linguistico a perfezionarmi più che posso nel volgare di sì.

Parimenti, una sconfitta che riconosco subito è quella di non essere riuscito – fin dalle prime prove – a mantenere lo stesso numero di versi dell’originale. E forse, certi nomi propri – evocativi, allusivi e il più delle volte composti – avrei dovuto provare a volgerli più sistematicamente in italiano: ma non avrebbe potuto essere un’operazione omogenea e onnicomprensiva, perciò, – dopo lunga riflessione e svariati tentativi – ho lasciato perdere, limitandomi a italianizzare i casi più eclatanti. Per di più, la lingua poetica italiana com’è venuta definendosi in questo primo quarto di XXI secolo è molto lontana dall’inglese e dallo stile effettivamente barocco di un Auden trasferito negli Stati Uniti fin dal 1939: e il poema – non si deve mai dimenticare – è davvero un’ecloga barocca composta nel cuore del Novecento, vale a dire un poema strutturato drammaticamente, fra dialoghi e soliloqui, la cui declinazione pastorale (soprattutto per quanto concerne talune allegorie dell’origine) e antropologica rimanda di volta in volta a effetti metapoetici e/o a interrogativi pressanti sulle cose ultime della nostra esistenza umana e terrena, percepita dal buco nero di una guerra. E non posso negare, in conclusione, che questi elementi non abbiano che fare molto da vicino con la mia scrittura poetica del “dopo Alzheimer”.

 ________________

[1] A. Bertoni, L’isola dei topi, Einaudi, 2021.

 

Nessun commento:

Posta un commento