28 ottobre 2011

MANGIARE E BERE SANO

Riprendiamo la rubrica tesa a promuovere una nuova educazione alimentare, pubblicando parte dell'articolo di Piero Careddu pubblicato sul Manifesto Sardo del 16 ottobre scorso:


Ci sono persone amiche che storcendo il naso mi chiedono come faccio a scrivere di eccellenze enogastronomiche con la povertà diffusa che non risparmia ormai nessuna latitudine. E’ vero che quel poco di biologico che si riesce a rimediare con fatica costa di più della massa di cibo avvelenato che acquistiamo e con la quale, per pigrizia, fretta e ignoranza, siamo costretti a nutrirci quotidianamente. E’ anche vero che una bottiglia di vino prodotto senza aiuti chimici e da una vigna viva e non trattata ha un costo mediamente superiore a quello di uno convenzionale. Ed è una realtà, ultima ma non meno importante, che anche quella del biologico si sta da tempo trasformando in una tendenza, con un’offerta piuttosto aggressiva e soprattutto poco controllata.
Oggi avere una certificazione bio non è un’impresa titanica e gli organismi preposti ai controlli sono pochi e non riescono a coprire tutto il territorio nazionale, pertanto avere la certezza che un prodotto sia realmente naturale, aldilà di quello che dichiara l’etichetta , non è facile. Tant’è che molti produttori che hanno avuto la certificazione, e che lavorano seriamente, spesso rinunciano a dichiararla per non confondersi con la massa emergente di quei “convertiti dell’ultim’ora” al biologico che ne hanno subodorato il businnes.
CHE FARE?
Come fare allora a raccontare all’operaio e a sua moglie, che con un reddito di 1000 euro e due figli devono fare alchimie per arrivare alla fine del mese, che mangiare conservato e chimico fa male al corpo e alla mente? Come fare a spiegargli che è giusto che il pomodoro sano del contadino, il vino pulito del produttore biodinamico, la bistecca dell’allevatore rispettoso dell’ambiente e degli animali, non possono costare quanto carne, vino, frutta avvelenati che compriamo della grande distribuzione?
E c’è da dire che le risposte sono di una semplicità disarmante: chi fa la scelta coraggiosa di produrre cibo rispettando l’ambiente e la salute di chi glielo acquisterà si espone, non essendo i suoi prodotti “protetti” da fitofarmaci, a rischi enormi e a percentuali di scarto importanti e ha bisogno di un apporto maggiore in termini di manodopera: tutto questo aumenta inevitabilmente i costi e, unito a una rete di distribuzione schizofrenica, non può non riflettersi sul prezzo finale. Eppure in qualche modo dobbiamo uscire da questo circolo vizioso perché, come ho avuto modo di affermare in un articolo precedente, la catena subdola che si è formata all’interno di questo sistema liberista malato è profitto=superproduzione=chimica=sottosuolo e acqua avvelenati=emissioni=cibi malati.
L’unica via d’uscita è di una difficoltà spaventosa ma da tentare senza perdere un minuto di più: provare a cambiare lentamente stile di vita. Siccome non è da questi rozzi governanti che possiamo aspettarci dei segnali di inversione di tendenza, credo che tocchi a noi che abbiamo una visione della società e della vita stessa proiettate in altro modo, lavorare intanto per cambiare le nostre pessime abitudini e poi per fare un diffuso e paziente lavoro di educazione alimentare e ambientalista.
Quella che una volta chiamavamo fase di transizione passa anche attraverso il bere meno vino e solo di qualità, ingurgitare meno cibo e solo sano, muoversi meno in automobile e riprendere l’abitudine ad andare a cercarci le cose buone da mangiare, fuori porta. Solo applicando queste poche prime regole possiamo abbattere i costi della vita quotidiana, migliorandone radicalmente la qualità a noi e ai nostri figli.
Non è riempiendoci le buste di porcherie nei supermercati low-cost che risolviamo i problemi della sopravvivenza: eliminando le bibite gasate, i dolciumi carichi di grassi idrogenati, le carni gonfie di antibiotici scopriremo con stupore che riprendere a farsi da mangiare semplice e sano a casa è possibile.
E spenderemo meno in medicinali…
Non dimentichiamo che l’ obesità infantile, con tutte le gravi patologie che porta con sé, ha una percentuale di diffusione nettamente superiore fra le fasce di popolazione più disagiate. Si tratta di capire che praticare la cucina “vera” di casa, farsi le torte per la colazione, tirare una sfoglia per fare un po’ di pasta fresca è un gesto d’amore verso noi stessi e le persone che ci circondano. Riscoprire la ritualità dello stare a tavola, ricostruendo rapporti, ritrovando il piacere della conversazione. Il tutto possibilmente con la televisione spenta. Non è un utopia.

Piero Careddu

Nessun commento:

Posta un commento