22 novembre 2016

UNGARETTI, PAROLE COME CARNE


Ungaretti. Le parole come carne 

Alberto Asor Rosa

Sulla prima pagina della prima raccolta poetica di Ungaretti, L'allegria in quella sezione che contiene le poesie datate 1914-15 (e dunque del periodo lacerbiano e parafuturista) troviamo il componimento Eterno: due versi che, nella loro spoglia ma canora nudità, segnano già in apertura i precisi confini di una ricerca istintivamente ben formata: “Tra un fiore colto e l'altro donato / L'inesprimibile nulla”. A questa data, e più per forza d'istinto che di riflessione critica, Ungaretti ha impostato la parte essenziale della sua rivoluzione. 
Il futurismo è appena dietro le spalle: Ungaretti non ne ha ritenuto la retorica delle macchine, ma sì l'appello a puntare sulla riduzione all' essenziale del linguaggio poetico; ovvero, per dirla con le parole di Marinetti, a “le metafore condensate, le immagini telegrafiche, le somme di vibrazioni, i nodi di pensieri... gli scorci di analogie... il tuffo della parola essenziale nell' acqua della sensibilità, senza i cerchi concentrici che la parola produce...”. Più che a Mallarmé o a Leopardi di là da venire , il giovane Ungaretti, reduce da un bagno nella Senna, guarda per ora a quella zona assai mobile dove la tradizione simbolista si disfa e, celebrando i suoi ultimi trionfi, si versa e al tempo stesso si disperde nei mille e diversi rivoli di una poetica dell'essenza pura (molto Apollinaire, ad esempio). Egli nasce perciò, probabilmente senza volerlo, come un poeta fortemente avanguardista, uno dei pochi veramente autentici del nostro Novecento: tutti gli altri, compreso Montale (che si apprestava a declinare di lì a qualche anno le eterne ragioni del povero antico poeta malato di spleen: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / L' animo nostro informe...”), gli stanno per allora dietro, raggruppati sulla bella riva della nostalgia o della memoria e penosamente incerti se lanciarsi o no nell'onda perigliosa e sconosciuta che gli scorre davanti. 
“Quest'onda perigliosa e sconosciuta si chiama crisi della parola poetica, una parola in istato di crisi” (Ungaretti, in "Ragioni di una poesia"; ma il testo citato risale al 1933). Ungaretti la riafferra per i capelli, con forza più barbarica che civilizzata, e le restituisce dignità di strumento d'interpretazione o, meglio, di valorizzazione del mondo.
Che questo avvenga, è più facile constatarlo che spiegarlo (nonostante l'apparente, ingannevole semplicità della soluzione adottata). La mia ipotesi è questa. Diversamente dai futuristi, di cui pure riprende le intuizioni fondamentali, Ungaretti non è interessato ad una dinamica degli eventi ma ad una fenomenologia dei sentimenti. Per lui, forse, esserci era e restò più importante che poetare, anche se poetare fu per lui l'unico modo di esserci. Se è un po' sciocco e banale leggere la poesia di Ungaretti come un documento autobiografico, è altrettanto e forse più sciocco procedere a tale lettura prescindendo del tutto dal fondamento esistenziale, anzi biologico, profondissimo, di tale poesia, quasi che Ungaretti fosse davvero un manierista tardorinascimentale (non sarà per un caso fortuito, almeno, che da un certo momento in poi egli abbia cominciato a marcare le sue raccolte con il supra-titolo di Vita di un uomo). Questa biologia, però “Tra un fiore colto e l' altro donato...” porta nel suo seno una fessura non nascosta né occultabile, attraverso cui lo sguardo s'arrischia a scoprire, con una sorta di riluttante stupore ma anche di allegra meraviglia, la presenza di un Ente indefinito e misterioso: “L' insopprimibile nulla...”.
La parola di Ungaretti è quello sguardo che, calato negli interstizi di una realtà biologica paradossalmente contraddittoria, contempla il primigenio stato dell'essere ciò che già c'è prima che il resto ci sia. Io non credo, tuttavia, che questo si possa definire, almeno all'origine, il frutto di un atteggiamento religioso (in senso proprio). Se è lecito dissentire per una volta da un maestro come Contini, a me pare infatti che la rivoluzione di Ungaretti non consista nel rimettere al centro dell'ispirazione poetica la Parola, orficamente intesa. La parola, in un suo senso più dimesso e quotidiano, è invece alla base di una nuova sintassi: una sintassi, tuttavia, che, tanto per esser chiari, muove in una direzione completamente opposta rispetto alla nuova sintassi montaliana: quest'ultima, infatti, delucida ed argomenta una nuova e diversa interpretazione del mondo; l'altra, invece, quella ungarettiana, la presuppone.
La sintassi poetica ungarettiana si fonda dunque su di una metafisica; quella montaliana, invece, risolutamente la esclude. Ma la metafisica ungarettiana anni 1912-18 non presuppone (a me pare) un ulteriore rimando: c' è in quanto c' è e perché c' è il che vuol dire che lo sguardo-parola per ora si autogiustifica. Da questo punto di vista a me sembra che Ungaretti riveli un lato fortemente materiale, sensibile, anzi decisamente sensuale, anzi molto carnale, e una percezione fisiologica estremamente vigile e circostanziata del proprio essere (Stamani mi sono disteso / In un' urna d' acqua / E come una reliquia / Ho riposato...).
A quest'altezza cronologica la forza che dissolve il contesto semantico-storico (ossia, se si preferisce, l' immensa mole dell'eredità classica) e sprigiona tanta potenza evocativa è più nichilistica che dogmatica, ma di quell'allegro, sfrontato nichilismo dissolutore, la cui radice ben conosce chiunque conosca un libro come La gaia scienza (anche se bisogna ammettere che le vie del signore sono infinite...). Dunque, se una sintassi è un modo articolato e non volgarmente intuizionistico di leggere il mondo, non v'è ombra di dubbio che L'allegria rappresenti l'emergere di una nuova sintassi; e se nuova sintassi c' è, non se ne può ridurre la portata ad una semplice ripresa di illuminazioni rimbaudiane: per Ungaretti Je n' est un autre; se mai, è vero il contrario, e cioè che la rete delle sensazioni, tenacemente tirata da un punto all'altro del suo essere uomo-poeta, tende sempre a raccontare una storia, mai ad esaurirsi in un rapido bagliore nel buio. Qui, per la concreta costruzione del testo poetico, Bergson vale ancora più dei simbolisti, o almeno quanto loro: i celebri quadretti lirici dell'Allegria sono racconti, da cui il tempo è stato risucchiato per rimpiazzarlo con una durata, che ne slarga i confini fino ad ottenere esiti smisurati, un ampliamento e una moltiplicazione degli echi, che non ha più bisogno di parole per suggerire l' ulteriore sviluppo di una narrazione (Sono una creatura, 1916: Come questa pietra / E' il mio pianto / Che non si vede. / La morte / Si sconta / Vivendo' ' ; I fiumi, 1916: ...Mi sono riconosciuto / Una docile fibra / Dell' Universo. / Il mio supplizio / E' quando / Non mi credo / In armonia' ' ; Soldati, 1918: Si sta come / D' autunno / Sugli alberi / Le foglie' ' ).
Già lo accennavamo: una nuova sintassi è sempre, in qualche modo, l'adozione d'un nuovo codice. La scansione degli eventi esiste, e come, anche in questa poesia ungarettiana; ma essa è ridotta agli elementi stessi del codice che la descrive. Parola e sentimento tendono a coincidere: il resto, il lettore sa che bisogna cercarlo nell' alone che circonda e al tempo stesso espande il quadro un quadro a cui la cornice sia stata tolta onde consentire il pieno respiro della visione. Ardua doveva essere l' impresa di tenere sempre a questo altissimo livello il gettito di una vocazione poetica, che presupponeva una perfetta fusione della lingua già avvenuta in interiore homine. Non c' è dubbio per me che, dopo L' allegria, Ungaretti vada incontro a momenti successivi e progressivi di istituzionalizzazione. L' incontro con l' idea di Roma e dunque con l' implicita classicità, di cui quella città è simbolo e ancor più con il barocco, che soddisfa in termini ben noti quella sete di meraviglioso, pur implicita fin dall' inizio nella novazione ungarettiana, sposta l' accento su di una ricerca che arditamente sviluppa l' idea, anch' essa originariamente presente ma non ancora chiaramente formulata, di un rapporto necessario tra parola e mistero (“Il mistero c' è, è in noi... La parola ci riconduce, nella sua oscura origine, e nella sua oscura portata, al mistero, lasciandolo tuttavia inconoscibile” ; in Ragioni di una poesia).
Questa fase va dalla splendida O notte, del 1919 (Dall' ampia ansia dell'alba / Svelata alberatura...), al componimento conclusivo della raccolta Sentimento del tempo, del 1931, di cui si potrebbe dire che evidenzia e mette allo scoperto quella sintassi, che le poesie dell'Allegria coglievano e al tempo stesso liberavano, dilatandone gli echi al di là dei confini dell' udito umano: E per la luce giusta, / Cadendo solo un' ombra viola, / Sopra il giogo meno alto, / La lontananza aperta alla misura, / Ogni mio palpito, come usa il cuore, / Ma ora l' ascolto, / T' affretta, tempo, a pormi sulle labbra / Le tue labbra ultime. La modulata, sapiente musicalità di quest' unica, formidabilmente costruita impalcatura poetica, attinge al linguaggio alto d' un Petrarca o d' un Gongora (e più d' un Gongora, se non erro, che non di un Petrarca). E come in ogni linguaggio alto, lo stile è depositario e veicolo insieme di un concettismo, che, inevitabilmente, fa da sgabello materiale alla ricerca delle verità esistenziale e sentimentale. Il rischio di questo spostamento del baricentro è l' oratoria, che il poeta, fra alti e bassi, dovrà d' ora in poi e fino all' ultimo cercare di scansare. Ma la ricerca dell' essenza, la vivente esperienza di quel fenomeno ormai quasi incomprensibile nel post-moderno, per cui la poesia non è altro che voce del Dio che parla per la bocca del Vate queste caratteristiche al tempo stesso antichissime e sempre nuove, e assai rare, almeno in ambito italiano , Ungaretti le praticò con un'intensità, che, ripeto, coinvolgeva ogni fibra del suo essere, anzi, di più, della sua carne debole e transeunte: sensuale, direi, almeno per quanto era mistico ed invasato.
Ho ancora nelle orecchie la cavernosa dizione, il vero e proprio soffio del demone, quando leggeva poesie sue o di altri in una oscura aula della Facoltà di Lettere dell'Università di Roma, metà degli anni Cinquanta. Sottoposto al ludibrio ridanciano degli studenti d'ingegneria, che accorrevano in massa a bearsi dello spettacolo di questo peraltro indifferente e impenetrabile invasamento, non gli mancò neanche lo scherno del volgo per essere in tutto e per tutto, anche nella vita, il grande poeta ch'egli era.
“la Repubblica”, 4 febbraio 1988 

Nessun commento:

Posta un commento