17 novembre 2016

J. CORTAZAR, UN CLASSICO DEL 900



Julio Cortázar. Un classico suo malgrado

 Antonio Melis


Con la recente edizione dei Racconti (a cura di Ernesto Franco, Einaudi-Gallimard) Julio Cortázar irrompe di nuovo, in grande stile, sulla scena letteraria italiana, dopo un periodo di precoce silenzio. Negli ultimi anni, infatti, solo due pubblicazioni hanno rotto una sorta di congiura intorno al nome dello scrittore argentino. Un’iniziativa dell’associazione culturale «Julio Cortázar», che da anni si dedica con passione e intelligenza all’opera del narratore scomparso nel 1984, ha riunito per le edizioni di Linea d’Ombra una scelta di testi inediti in italiano, dedicati soprattutto a temi di politica culturale ( Ultimo round e altri scritti politici 1966-1983, a cura di Assunta Mariottini, Milano, 1992). Ernesto Franco, curatore di questa Plèiade einaudiana, poco tempo fa aveva presentato, sempre per Einaudi, una delle prime opere edite di Cortázar, Ire, un singolare poemetto drammatico ispirato a una rilettura della figura del Minotauro.

Inquiete presenze
Si potrebbe avanzare qualche ipotesi su questa momentanea eclissi. Non è arbitrario pensare che questi sono tempi duri per i cronopios . Queste creature inventate da Cortázar, infatti, rappresentano quanto di più estraneo si possa concepire nei confronti dell’ordine costituito, di ogni ordine costituito. Resta da augurarci, allora, che questa edizione non sia solo il frutto di una felice programmazione editoriale, ma rappresenti il sintomo di un’inversione di tendenza nella grigia stagione dell’apologia dell’esistente.
Pochi autori, infatti, sono come lui portatori di una carica altrettanto eversiva di liberazione, interamente risolta nel tessuto di uno stile inimitabile e non affidata a proclami esteriori. Lo scrittore argentino era arrivato piuttosto tardi al racconto o, per meglio dire, decise abbastanza tardi di dare alle stampe il frutto di un’attività di scrittura che era iniziata fin dall’adolescenza. Proprio per questo rigore autocritico, l’esordio con la raccolta Bestiario (1951) - alcuni racconti, comunque, erano stati anticipati su riviste - fu folgorante. Fin dal testo di apertura, Casa occupata, ci troviamo di fronte a una situazione di rischio incombente, di sottrazione successiva di spazi, che genera un’angoscia indecifrabile o almeno irriducibile a una chiave univoca di lettura.
Con il secondo racconto si precisa anche il senso del titolo della raccolta, con la sua allusione alle presenze animali inquietanti che la percorrono. I coniglietti vomitati dal protagonista di Lettera a una signorina di Parigi appartengono a quel repertorio degli «animali del sogno», che si affacciano in forme diverse in tanta parte della narrativa e della poesia ispanoamericana. In Cortàzar, questi fantasmi dell’alterità vengono assorbiti all’interno di un quadro di normalità apparente.
La logica formale offre un’ancora di salvezza che finisce però, paradossalmente, per fare emergere con maggiore forza l'assurdo quotidiano.
Con Lontana (e siamo solo al terzo racconto) il tema dell’alterità si collega a quello del linguaggio, attraverso il ricorso agli anagrammi, ai palindromi (alle frasi cioè che sono identiche anche se lette a rovescio) e ad altri giochi di parole. Giochi, appunto, come suonerà il titolo di una delle sezioni in cui lo scrittore dividerà i suoi racconti, che tuttavia dischiudono una porta su una realtà parallela, fino a una rilettura del grande tema del doppio.
A partire da queste premesse si svolge tutta la sua produzione successiva, articolata sia nelle raccolte di racconti che nei romanzi. C’è un affinamento progressivo della tecnica narrativa, fondato anche sulla pratica costante della traduzione di grandi scrittori di lingua inglese e francese (tra gli altri, Poe, Chersterton, Defoe, Gide, Yourcenar). Cortázar forgia così un linguaggio che lo distingue, con una voce originale, nell’ambito del filone fantastico, così radicato nelle terre rioplatensi. A questo risultato contribuisce un rapporto stabilito in termini rinnovativi e dinamici con le avanguardie storiche, e in particolare con il surrealismo. A differenza di altri grandi scrittori ispanoamericani, come il cubano Alejo Carpentier, i guatemaltechi Miguel Angel Asturias e Luis Cardoza y Aragón (quest’ultimo pressoché sconosciuto in Italia), Cortázar, per ovvie ragioni cronologiche, non ha frequentato i surrealisti dell’epoca eroica. Da loro, tuttavia, ha ricavato una lezione di radicalità letteraria che lo spinge all’esplorazione continua di nuovi mondi.
Nella seconda raccolta, Fine del gioco (1956) ritorna fin dal titolo il motivo ludico, anche in questo caso tuttavia contraddetto da risvolti inquietanti. Il gioco della letteratura, e della lettura in particolare, si risolve nell’irrompere di un’aggressione omicida che infrange la finzione, come nel celebre e brevissimo Continuità dei parchi. I trapassi e le contaminazioni tra dimensioni diverse della realtà si allargano alla sfera del mito. Anche in questo caso, è interessante sottolineare le analogie ma anche le differenze con il modello offerto da Jorge Luis Borges.

Distrazione dal mondo
Cortázar cominciò a pubblicare nell’ambito del gruppo di Sur, che esercitava una salda egemonia sulla letteratura argentina del tempo. Tuttavia, fin dalle sue prime prove, andava rivelando alcuni tratti irriducibili al clima di quell’ambiente letterario. C’è in lui, soprattutto, un’adesione vitalistica all’esperienza immediata che si contrappone alla grandiosa inerzia malinconica di Borges, appena corretta da una nostalgia di azione e di violenza destinata alla sconfitta.
Ernesto Franco, nella sua ampia introduzione, offre un itinerario di lettura particolarmente suggestivo e non prevaricante. Sottolinea, per esempio, il ruolo decisivo che svolge nell’opera di Cortázar la distrazione, come sentimento del mondo. In effetti, è persistente in lui il ricorso alla sfasatura, alla dissonanza, come percezione di un altrove in continua dislocazione. La poetica del camaleonte, che lo scrittore ricava dall’amato John Keats, esprime con efficacia l’aderenza cangiante ai dati del reale. In questa prospettiva si colloca anche l’adesione profonda dell’autore a fenomeni extraletterari, nei quali avverte una consonanza stilistica. Il jazz, in particolare, è presente non solo a livello tematico, come nel lungo racconto Il persecutore, recentemente riproposto dalla stessa casa editrice in un volume autonomo, o in tante pagine del romanzo Il gioco del mondo. Quell’esperienza musicale gli offre un modello di sintesi tra il rigore formale e una creatività senza limiti. Influisce certamente anche sull’evoluzione dell’elemento ludico all'interno della sua opera. Il gioco sembra infatti liberarsi, a volte, delle connotazioni inquietanti, fino a dispiegarsi nelle figure aeree dei cronopios come trasgressione incontenibile.
Basterebbe confrontare, a questo proposito, le esilaranti «istruzioni» di Storie di cronopios e di famas (per piangere, per cantare, per salire le scale, ecc.) e la loro scomposizione straniata dei movimentipiù banali, con la versione tragica dello stesso procedimento nel raccontoNon si dia colpa a nessuno, imperniato sul gesto solo apparentemente innocuo di infilarsi un pullover. Non è un caso, allora, che nel libro Il giro del giorno in ottanta mondi, qui rappresentato dai testi di carattere narrativo, figuri un affettuoso omaggio a Louis Armstrong, «enormissimo cronopio».
Ernesto Franco definisce anche la collocazione di Cortázar all’interno della grande letteratura fantastica rioplatense, indicando coincidenze e differenze. Rispetto a Borges, sottolinea soprattutto, come si è già accennato, la presenza irriducibile del vissuto personale. Più discutibile è forse l’accostamento a Macedonio Fernández, il grande padre della letteratura argentina contemporanea (compreso lo stesso Borges), non solo per i suoi scritti ma anche, e soprattutto, per il suo magistero orale.

Voci dal passato
Certamente la sua presenza si avverte anche in Cortázar, ma quest’ultimo evade poi sempre dall’orizzonte della parola, creando una tensione profonda e feconda tra la parola stessa e l’altro. Semmai, bisognerebbe ricordare tra le altre presenze argentine importanti nella sua formazione - Cortázar era il primo a riconoscerlo - la singolare figura di Leopoldo Marechal. Cortázar fu uno dei pochi a dedicare una calorosa recensione al suo Adán Buenosayres (1948) - uno dei romanzi ispanoamericani più importanti del Novecento, ancora sconosciuto in Italia - quando Marechal era messo al bando dall’intellettualità egemonica, a causa del suo peronismo.
Già allora, come tante volte in futuro, Cortázar dimostrò la sua capacità di «essere altrove», anche sul terreno della politica culturale. L’analogia con Marechal non si trova soltanto in alcuni importanti aspetti formali - in particolare il plurilinguismo -ma anche in alcuni assi portanti della visione del mondo. Basterebbe citare l’idea eraclitea secondo cui bisogna immergersi fino in fondo nell’abiezione, per poter iniziare la risalita.

Sull’arte del racconto
Al di là di questi riferimenti, quello che conta è poi il sigillo inconfondibile di Julio Cortázar, che ci regala diversi racconti degni di figurare in qualunque antologia universale di questo arduo genere letterario. Questa raccolta dei suoi racconti offre un’immagine impressionante della continuità creativa dell’autore. Accanto ai testi già tradotti in passato - ma introvabili da anni in libreria - leggiamo per la prima volta in italiano nuovi racconti.
Nelle appendici finali, inoltre, rintracciamo i primi abbozzi narrativi dell’autore, analizzati con grande finezza da Ernesto Franco nell'introduzione. Due scritti teorici sull’arte del racconto rivelano tutta la profonda autocoscienza dello scrittore. In effetti, ritroviamo in queste pagine il risvolto di quella che sembrerebbe una prodigiosa e per così dire «naturale» vocazione di narratore.
Con questa edizione, accompagnata da un’accurata cronologia, da una bibliografia essenziale e da puntuali note ai testi, Cortázar entra nell'Olimpo dei classici. Lui certamente ne avrebbe riso divertito, in armonia con ii suo rifiuto costante e gioioso di ogni solennità. Ma noi vediamo in questa consacrazione un atto di giustizia verso uno dei grandi artisti del nostro tempo.


“il manifesto”, 25 febbraio 1995

Nessun commento:

Posta un commento