17 novembre 2016

MASCHIO E FEMMINA. Il ritorno di un classico dell'antropologia culturale



Valeria Ribeiro Corossacz

Margaret Mead, quando i ruoli sessuali erano complementari

Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1949, Maschio e Femmina dell’antropologa Margaret Mead è ora riedito per i tipi de Il Saggiatore (pp. 410, euro 28), che lo aveva pubblicato nel 1966 nell’attuale traduzione. Si tratta di un classico dell’antropologia, che ebbe un grande successo di pubblico, e in particolare di un testo di riferimento per quella che sarà la futura antropologia di genere, sviluppatasi proprio dalla ricezione del lavoro di Mead. 

Il volume - che può essere utilmente affiancato al testo divulgativo Margaret Mead Quando l’antropologa è donna, a cura di Silvia Lelli (2016) - presenta materiali e riflessioni basati su diverse campagne etnografiche, condotte tra il 1925 e il 1939 presso sette popolazioni del Pacifico meridionale e occidentale: i samoani (Polinesia), i manus, gli arapesh, i mundugumor, i ciambuli (Nuova Guinea), gli iatmul (Papua Nuova Guinea) e i balinesi. L’oggetto di queste ricerche sul campo sono quelli che l’autrice stessa definisce i problemi su cui ha meditato tutta la sua vita professionale, ovvero cosa siano mascolinità e femminilità.

Oggi potremmo dire che Mead studiava, in diverse società, i processi culturali della costruzione del maschile e del femminile, quelli che definiva ruoli sessuali, una tappa fondamentale nella formazione della nozione di genere. Il libro si contraddistingue per proporre un messaggio ottimista, basato sulla sua fiducia nelle capacità delle scienze sociali di poter trasformare in meglio le relazioni tra uomini e donne e così l’intera società americana. In Maschio e Femmina Mead dimostra come, sin dalla primissima infanzia, uomini e donne sono socializzati in base a un modello maschile e femminile previsto dalla propria società, a cui gli individui si devono adeguare. Quello che in una società può essere considerato un comportamento tipicamente femminile (passività), in un’altra può essere ritenuto maschile. A volte però le caratteristiche individuali non trovano spazio nei modelli sessuali promossi e approvati socialmente.
I ruoli sessuali sono dunque appresi, sono delle «parti da recitare», ma secondo l’antropologa hanno comunque un fondamento naturale e sono complementari. Mead non mette in discussione la divisione sociale tra maschile e femminile, ma afferma che ci sono delle variazioni culturali nei comportamenti maschili e femminili. Il libro si caratterizza per il suo impianto comparativo, basato sull’idea che l’antropologia compara società diverse trovandovi un «filo conduttore», che permise a Mead di avvicinare i comportamenti di bambini e adolescenti statunitensi a quelli delle popolazioni da lei studiate insinuando in un vasto pubblico il dubbio che non tutto era «naturale» nei giochi, nelle preferenze dei vestiti delle bambine e nelle scelte professionali delle donne.

Inoltre Mead sviluppa la lezione di Boas, di cui fu allieva, sulla plasticità dell’essere umano, osservando come sessualità, matrimonio e riproduzione siano condizionati dal contesto culturale. Mead era estremamente consapevole della forza dei condizionamenti culturali, per esempio di quanto fosse difficile per una donna fare l’antropologa, osservando come le antropologhe siano più sensibili dei colleghi a quanto succede nella propria famiglia quando sono sul campo e come questo influenzi l’esperienza stessa del campo.

Tuttavia, leggendo il testo ci rendiamo conto come anche Mead rimanesse immersa nella cultura della sua epoca, come quando afferma che lo stupro non è un «atto riconosciuto socialmente», ma piuttosto che esso «può svilupparsi come una deviazione di speciali situazioni sociali», ovvero quando ci sono delle diversità di educazione o di classe. Sappiamo quanto sia difficile ancora oggi riconoscere la violenza sessuale contro le donne.
Maschio e femmina può apparire scritto in un linguaggio datato, lontano dall’attuale letteratura degli studi di genere, ma ci è quanto mai utile per comprendere la complessità dell’impresa iniziata dall’antropologa americana. Il lavoro di Mead ha rappresentato, infatti, il punto di partenza delle riflessioni che identificano sesso (natura) e genere (cultura) come separati, ma anche di quelle che riconoscono come il genere venga prima del sesso, poiché gli esseri umani investono gli attributi naturali di significati prodotti nelle relazioni sociali.

Mead ha contribuito ad avviare questi sviluppi, che lei non avrebbe affatto condiviso, attraverso le sue ricerche sul campo in cui osservava come i modelli educativi di bambine e bambini possono variare in modo considerevole da una società all’altra. La prospettiva comparativa e l’insistenza sulla plasticità delle esperienze umane hanno reso il suo lavoro la base da cui si svilupperà poi l’antropologia femminista. Mead prese sempre le distanze dalle rivendicazioni femministe dei suoi tempi. Eppure la sua opera è stata un ponte per le lotte contro l’oppressione delle donne, poiché in essa l’antropologa dimostra che non esistono basi biologiche per la discriminazione sociale delle donne e denuncia quelle visioni che «sopravvalutano il ruolo delle diversità fra i sessi e le estendono arbitrariamente ad altri aspetti della vita».

Come ricorda la figlia Mary Catherine Bateson, il cambiamento era uno dei temi principali del lavoro di Mead, ovvero l’idea che la cultura non è un destino innato, ma un artefatto umano che può essere modellato. Seguendo proprio questa strada, l’antropologia femminista ha scardinato l’idea che in ultima istanza le donne siano determinate dalla loro capacità riproduttiva, dalla loro specifica natura. Ci auguriamo che la riedizione di questo classico indichi la strada per la pubblicazione di altri testi antropologici che ormai da anni studiano l’organizzazione sociale dei rapporti tra uomini e donne, l’eterosessualità come una delle molteplici opzioni a disposizione degli esseri umani per vivere la sessualità, gli affetti e la famiglia, e come essa si fondi, nella maggior parte delle società umane, sullo sfruttamento maschile delle donne.


il manifesto – 11 ottobre 2016



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