27 novembre 2016

MICHELE PANTALEONE E LEONARDO SCIASCIA

Quando gli scrittori di mafia erano due, Sciascia e Pantaleone

di Antonino Cangemi

Oggi sono in molti a scrivere di mafia, anche se non di rado in modo inappropriato e strumentale. Scorrendo indietro di alcuni decenni, nel panorama editoriale italiano (di certo più ricco dell’attuale) gli scrittori di mafia erano due: Leonardo Sciascia e Michele Pantaleone. Non che non ce ne fossero altri ( pochi comunque), ma Sciascia e Pantaleone avevano infranto ogni tabù e remora del tempo nel raccontare la mafia per quella che era e con l’autorevolezza e lo spessore delle loro limpide personalità al punto da assurgere a portavoce dell’impegno civile contro Cosa nostra. E scrivere sulla mafia, cinquanta e passa anni fa, non era facile: per farlo occorreva correre tutti i rischi che ciò comportava, munirsi di una corazza morale impermeabile agli strali che sarebbero arrivati, anche inattesi, da tutte le parti. Quella corazza morale, Sciascia e Pantaleone seppero indossarla per non essere trafitti dalle tante acuminate e velenose frecce che gli furono scagliati.
Di ciò, del travaglio di due esistenze caparbiamente controcorrente, ci racconta Gino Pantaleoni nel saggio “Servi disobbedienti” edito da Dario Flaccovio, sottotitolo: “Leonardo Sciascia e Michele Pantaleone: vite parallele”.
Il titolo del libro di Gino Pantaleone richiama De Andrè, e in particolare l’invocazione (“ricorda Signore/ questi servi disobbedienti alle leggi del branco,/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti”) contenuta in un suo brano. Già, perché Sciascia e Pantaleone furono dei “servi disobbedienti”: fedeli sempre a se stessi e al rigore della loro coscienza, si avventurarono tra i fili spinati, navigarono in “direzione ostinata e contraria” per cercare ad ogni costo la verità, pur consapevoli di non poterne essere i detentori assoluti (“contraddicendo e contraddicendosi”), e da eretici, “uomini di tenace concetto” come il Diego La Mattina di “Morte dell’inquisitore”, subirono gli attacchi più violenti e volgari.
Gino Pantaleone, poeta e saggista già autore di un’interessante biografia di Michele Pantaleone (“Il gigante controvento”), ripercorre la vita e le opere dei due scrittori evidenziandone i tanti tratti comuni. A cominciare dai luoghi in cui sono nati e cresciuti e ai quali sono rimasti, anche dopo averli lasciati, particolarmente legati: Racalmuto e Villalba, due piccole comunità della Sicilia interna. Per soffermarsi, poi, sulla loro consapevolezza del fenomeno mafioso, sulla produzione letteraria illustrata nel rispetto di un ordine cronologico che scandisce l’evoluzione della criminalità organizzata (romanzi come “Il giorno della civetta”, “A ciascuno il suo”, “Todo modo” di Leonardo Sciascia e saggi come “Mafia e politica”, “Mafia e droga” “Antimafia: occasione mancata” di Michele Pantaleone sono pietre miliari nella letteratura d’impronta civile), sul controverso e sofferto rapporto col partito comunista, sulle loro predizioni (prima tra tutte, l’uso opportunistico dell’antimafia).
Infine, il libro di Gino Pantaleone racconta le “disavventure” di Sciascia e di Pantaleone, la loro solitudine (più accentuata quella del saggista di Villalba) soprattutto negli ultimi anni, l’essere addirittura additati, in modo diverso ma con pari vergognosa volgarità, di essere affiliati o affini alla mafia, di coltivare legami con boss o con figure compromettenti. Tutte accuse assolutamente infondate, come acclarato in atti giudiziari e dimostrato nel saggio di Pantaleone, che coniuga passione e metodo, di regola ossimori, e anche per questo meritevole e di stimolante lettura. Accuse infamanti e paradossali ma, sebbene campate in aria, non prive di fondamento –in una logica, s’intende, perversa di un sistema perverso- se rivolte alle voci di “servi disobbedienti”, che comunque nessuno riuscirà a far tacere.

Da   http://www.siciliainformazioni.com

1 commento:

  1. Ho avuto la fortuna di essere stato amico di Michele Pantaleone. Io essendo nato a Mussomeli ove avevano cercato di farlo fuori: (Così circolavano le voci) e incazzatissimo perché essendo siciliano in ogni occasione mi punzecchiavano: tu di mafia te ne indenti. Ho voluto bene a lu zi Michele perché era il simbolo, come Sciascia, del coraggio civile e morale. Tutta la mia vita ho dedicato, dedico e dedicherò contro ogni sopruso contro i deboli, l'arroganza. Tutte le mie opere, e i miei amici possono affermare quel che ho scritto qui. Chi sono? Sono uno che con la quinta elementare è diventato uno dei più grandi poeti viventi: così dicono le visualizzazioni dei miei blog. Ciao Calogero Di Giuseppe.25 10 2018 Pioltello (MI)

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