13 ottobre 2017

COLTIVARE IL DISSENSO INTELLIGENTE


Contro chi saccheggia la nostra terra e uccide il futuro

Polemos affronta il tema di come coltivare dissenso. Sarà per i falsi profeti di rivolte del marketing, per gli urlatori di slogan, per i troppi paraculi che girano, ma in certi giorni, in certi momenti, bisogna ricordare che esiste qualcosa di più. Che ci sono persone belle, studiosi, artisti, capaci con semplicità di percorrere una strada diversa. Più raffinata, più saggia. Troppo spesso sopraffatta dal rumore e dalle false bandiere.



Questo testo è dedicato al seme che sotto la neve attende il suo tempo per diventare piantina e poi un giorno fiore o albero. Per poter difendere la vita e il mondo, portando in sé colori della natura che ci affascina, e la memoria di quando gli antichi sapevano che ogni albero, ogni sorgente, ogni collina o valle possedevano il proprio genius loci, lo spirito custode del luogo.
Un seme (e poi un albero) per difenderci da noi stessi, dalla follia tecnologica che si è fatta religione del tempo, dogma indiscutibile, pensiero unico di sfruttamento, guerra, Isis, terrorismo e distruzione. Religione bellica e finanziaria, basata sul credere e sul credito (quindi sul debito), così come sull’assenza di sentimenti verso la natura, vista solamente come oggetto inanimato da sfruttare, da saccheggiare ovunque nel mondo. Nel nome del progresso. Di un sistema che si basa sull’ingiustizia sociale tra gli uomini e su un dominio ottuso dell’uomo sulla natura. Fino alle estreme conseguenze, mi sembra di capire.
Un seme, un fiore, un colore, un albero. Un piccolo gesto di ribellione con un valore gigantesco. Per riprendere a tessere una cultura della condivisione degli spazi nei quali vivere, con la natura e con le altre specie animali. In un saggio apparso su “Science” nel 1967, The Historical Roots of Our Ecological Crisis, lo storico delle tecniche Lynn White jr. (1907-1987) afferma:
San Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale nella storia dell’Occidente, suggerì una nuova visione cristiana del rapporto uomo-natura: sostituire il dominio illimitato dell’uomo con il concetto di uguaglianza di tutte le creature, uomo compreso. Il tentativo di Francesco è fallito. Ai nostri giorni scienza e tecnica sono sempre più caratterizzate dalla proterva ortodossia cristiana nei confronti della natura e non è da loro che ci possiamo attendere una soluzione alla crisi ecologica. Poiché le radici dei nostri problemi sono essenzialmente religiose, il rimedio deve essere religioso, qualunque definizione attribuiamo a tale termine. In altre parole dobbiamo giungere a un diverso modo di intendere la nostra natura e il nostro destino. Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione.
Questo è il mese di San Francesco, il poverello d’Assisi, venerato in tutto il mondo; il santo del Cantico delle creature, il testo più poetico e antico della letteratura italiana. Non siamo uomini di chiesa, e non serve esserlo per cogliere la forza rivoluzionaria del francescanesimo, il più radicale movimento tra quelli che in un certo momento della storia hanno scosso la Chiesa di Roma. Quando l’influenza della Chiesa sul potere civile era enorme.
Il pensiero va alla poesia del santo, alla sua statua che sembra abbracciare la piazza delle grandi manifestazioni laiche, piazza San Giovanni a Roma, ai tempi oscuri di politica mediocre e devastazioni sociali; di obbedienze truccate da ribellione, di conformismo fin nei minimi dettagli, d’identità strappata come blue jeans, di false trasgressioni per ricucire a ogni passo, a ogni azione più o meno bardata da cultura, il tessuto potente di un sistema che governa e ci governa come una religione. Che poi è l’ipotesi di Walter Benjamin, che parla del capitalismo come della religione più feroce e implacabile che sia mai esistita. Terribile perché senza redenzione né tregua. E come una religione che si rispetti ha la Banca come chiesa e oscuri funzionari, manager invisibili, come preti che gestiscono il credito, la fede, la fiducia. Il credito, da credere…
Il pensiero va al potere indiscutibile e benedetto dalla Chiesa della Banca. E al francescanesimo. La proposta più radicale e rivoluzionaria che la storia ricordi e che l’Occidente ha rifiutato. Il filosofo Giorgio Agamben ha scritto un grande libro, Altissima povertà (Neri Pozza Editore) su regole monastiche e forma di vita. Un gioiello che tanti politici, intellettuali, sapienti dell’epoca, giornalisti, dovrebbero leggere per mettere in dubbio, per lo meno, le certezze assolute che barricano il pensiero unico dominante (sebbene sotto la parvenza della molteplicità apparente).
Scrive Agamben:
Il libro si chiude, pertanto, su una interpretazione del messaggio di Francesco e dei teorici francescani della povertà e dell’uso che, da una parte, una precoce leggenda e una sterminata letteratura agiografica hanno ricoperto con la maschera troppo umana del pazzus e del giullare o con quella, non più umana, di un nuovo Cristo, e, dall’altra, un’esegesi attenta più ai fatti che alle loro implicazioni teoriche ha rinchiuso nei confini disciplinari della storia del diritto e della Chiesa. In un caso come nell’altro, ciò che restava indelibato era il lascito forse più prezioso del francescanesimo, con il quale sempre di nuovo l’Occidente dovrà tornare a misurarsi come al suo compito indifferibile: come pensare una forma-di-vita, cioè una vita umana del tutto sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che non si sostanzi mai in un’appropriazione. Cioè ancora: pensare la vita come ciò di cui non si dà mai proprietà ma soltanto un uso comune.
Un tale compito esigerà l’elaborazione di una teoria dell’uso, di cui mancano nella filosofia occidentale anche i principi più elementari, e, a partire da essa, una critica di quell’ontologia operativa e governamentale, che, sotto i travestimenti più svariati, continua a determinare i destini della specie umana.

Parole distillate che risuonano nel pensiero. Sarà per i falsi profeti di rivolte del marketing, per gli urlatori di slogan, per i troppi paraculi che girano, ma in certi giorni, in certi momenti, bisogna ricordare che esiste qualcosa di più. Che ci sono persone belle, studiosi, artisti, capaci con semplicità di percorrere una strada diversa. Più raffinata, più saggia. Spesso sopraffatta dal rumore e dalle false bandiere. Così, da laico, festeggio Francesco e il francescanesimo con “Altissima povertà” di Agamben. Che chiude così: “L’altissima povertà, col suo uso delle cose, la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica”.
Ora che la consumazione storica è davanti ai nostri occhi, che l’epoca si compie a colpi di brigantaggio mediatico e sciacallaggio, di razzismo senza neanche doversi celare dietro al cappuccio del Ku Klux Klan, in città irrespirabili e terrorizzate, con focolai di guerra che punteggiano le nostre mappe, possiamo cominciare a riflettere sul crollo degli obiettivi di progresso. E su come fare per sottrarsi al gregge indifferente dei complici, riprendendo in mano i libri di un tempo, considerando la propria vita e quella dei nostri figli, un seme, un fiore. Per coltivare qualcosa che parli di uguaglianza al futuro di tutti. Un solo gesto può darsi che non muti la storia del mondo, ma la nostra sicuramente sì.

Articolo ripreso da  https://www.remocontro.it/2017/10/08/37190/


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