11 ottobre 2017

LA RIVOLUZIONE NELLA PITTURA DI VELAZQUEZ



Mauro Covacich

La rivoluzione di Velázquez: i quadri ci guardano



Chi guarda chi? È solo a un primo sguardo distratto, come capita spesso passando in rassegna le sale di un grande museo, che si ha l’impressione di guardare i quadri. Poi, prestando maggiore attenzione, risulta evidente che sono i quadri a guardare noi. I quadri ci guardano e, lo sappiamo bene, ci interrogano, innanzitutto sulla loro permanenza. I modelli ritratti sono morti da un pezzo ma non i loro volti, che noi manteniamo in vita o, meglio, riaccendiamo fungendo da innesco spirituale, per certi aspetti telepatico, al materiale inerte di cui sono composti.

« Las Meninas è come una camera della mente, un luogo in cui i morti non muoiono», dice Laura Cumming quasi all’inizio di Alla ricerca di Velázquez (Neri Pozza). A monte di questa intuizione c’è il movente personale dell’autrice che inizia la sua ricerca per caso, di fatto schivando l’arte e tutti i suoi contenitori urbani, ancora in preda al dolore per la scomparsa del padre, pittore scozzese alle cui opere la figlia offre in cuor suo una promessa di fedeltà — non avrò altro artista all’infuori di te — finché non incontra Velázquez, finché non si affaccia alla sala del Prado dominata da Las Meninas dove, nel varco casuale, quasi proditorio, creatosi tra i visitatori, il quadro la convoca a una resa dei conti.
Chi guarda chi: nessuno come Velázquez pone la questione con uguale radicalità. Dobbiamo entrare bene nel gioco di rimandi escogitato dall’artista in Las Meninas . Sulle prime sembrerebbe il ritratto della principessina Margherita circondata dal suo seguito, le damigelle (da cui il titolo), la nana, il cane, un probabile giullare e altri due personaggi in secondo piano. Poi però ci accorgiamo della presenza del pittore, cioè di Velázquez stesso ritrattosi accanto a questa allegra combriccola, intento a dipingere su una grande tela di cui vediamo il telaio posteriore.

Quindi il soggetto del quadro è l’artista? No, anzi sì, in un certo senso: l’artista nell’atto stesso di dipingere ciò che non vediamo nel dipinto, ovvero ciò che lui sta dipingendo sulla tela a noi celata, ovvero ciò a cui tutti i personaggi in scena, in modo più o meno irriguardoso, sono venuti a osservare, ovvero i due regnanti, Filippo IV e consorte in posa per un ritratto, che solo ora catturano la nostra attenzione, minuscoli, appena riconoscibili nello specchio alle spalle della principessina. Sono loro a essere dipinti dal Velázquez al lavoro nel quadro. Noi stiamo vedendo il quadro del quadro o, se vogliamo, la realtà delle damigelle dal punto di vista del quadro in fieri , ovvero dal punto di vista dei regnanti in posa. Noi osservatori diventiamo il quadro che i personaggi stanno osservando (e gli occhi pestiferi della principessina ne sono la prova evidente).

Questo rovesciamento non è la fine del gioco di specchi, perché a uno sguardo più attento ci rendiamo conto che tutto ciò è possibile grazie a un’apertura sullo sfondo, dove un uomo, il ciambellano di corte, tiene scostata una tenda su una scalinata, probabilmente dopo aver fatto passare il re e la regina (quindi i regnanti si sono appena messi in posa?, o la seduta sta finendo?), e il suo gesto permette alla luce di illuminare le loro figure, altrimenti in ombra e ora invece ben riconoscibili nello specchio sulla parete alle spalle della combriccola. Ma forse potremmo dire che il gesto del ciambellano rende possibile l’intera raffigurazione, come se schiudesse il foro stenopeico di una camera oscura, lo spiraglio che permette la proiezione delle immagini sulla parete opposta.

È lui ad aprire al mondo di fuori, lo spazio esterno alla stanza, l’unica realtà possibile, visto che noi osservatori siamo dal lato di chi viene ritratto nel quadro e i personaggi in scena davanti a noi sono una pittura a olio. Forse quel punto luce è la rappresentazione della nostra pupilla e l’intero quadro non è altro che l’allegoria della visione umana.

L’ultimo cerchio della spirale è, per forza di cose, andato perduto: il quadro, ultimato dal maestro nel 1656, a quattro anni dalla morte, era esposto nella residenza reale dell’Alcazar prima che venisse bruciata; per di più collocato — site specific davvero ante litteram — nella stessa sala rappresentata nel quadro, dove Velázquez era solito lavorare e dove la principessina Margherita, le damigelle e il resto della combriccola hanno dovuto posare. Se aggiungiamo il fatto che i personaggi sono dipinti a grandezza naturale, possiamo immaginare l’effetto vertiginoso che dovevano destare quelle figure alla vista dei visitatori del palazzo, a maggior ragione se erano visitatori abituali o, esageriamo, le stesse damigelle e la principessa venute a farsi osservare dai loro sembianti, intente a studiarsi nell’atto di farsi studiare dal signor ciambellano quella volta che le dipingeva facendo finta di dipingere il re e la regina venuti a guardarle eccetera eccetera.

A confronto, l’autoritratto di Van Eyck sullo specchio dei coniugi Arnolfini è un semplice salto mortale dal trampolino di un metro. Ma la teatralità della scena, il gusto barocco per la spirale e l’iperbole, non bastano a spiegare la visione letteralmente paradossale di Las Meninas . Bisogna tornare al punto di partenza: chi guarda chi. Michel Foucault ne Le parole e le cose dedica all’opera uno dei primi saggi ecfrastici della filosofia francese (poi verrà La verità in pittura di Jacques Derrida, sempre sulla scia degli zoccoli da contadina di Heidegger). Foucault sostiene, come dicevamo sopra, che il soggetto vero del quadro è invisibile, trattandosi dello sguardo dell’artista colto nell’atto creativo, impegnato a strutturare la rappresentazione.

Il soggetto del quadro è il Soggetto, inteso come le facoltà del cogito (che non a caso trionfa proprio nel Seicento cartesiano), nella cui rete cognitiva qualcosa come una rappresentazione può configurarsi e poi diventare olio su tela, sempre rinviando all’essere di cui è immagine, ovvero quel suo costitutivo «oltre» che inesorabilmente si sottrae, l’inafferrabile essenza noumenica che, se ci è concessa una brutale semplificazione, potremmo anche chiamare vita.

Un dipinto sul senso del dipingere: su questo lavora Velázquez negli ultimi anni, così fondamentali eppure poco prolifici, gravati dai mille impegni di un’esistenza ormai consacrata all’amministrazione della reggia. «Un rivoluzionario silenzioso» lo definisce giustamente Laura Cumming, lontano dal maledettismo caravaggesco, un pittore di corte (oggi si direbbe: di regime), una specie di funzionario artistico dalla vita tutt’altro che avventurosa.

Con lo stile piano e colloquiale tipico dei divulgatori anglosassoni la Cumming scrive un libro non banale sul maestro spagnolo. Lo fa intrecciando la biografia a un lungo racconto nel quale ricostruisce il ritrovamento, avvenuto a metà Ottocento, di un ritratto di Carlo I eseguito da Velázquez ma attribuito a Van Dyck. Ci sono vicissitudini giudiziarie in abbondanza, aste, perizie e contestazioni varie, tutto condito da grande acribia investigativa. Insomma, si tratta di un libro per appassionati del genere, che però ci consente di riavvicinarci al mistero di Velázquez, un merito non da poco. Semmai è discutibile, a mio avviso, il bisogno di emozionarsi, ribadito quasi a ogni pagina. A me Las Meninas non provoca la stessa commozione che scuote l’autrice, a me quel quadro spacca il cervello in mille pezzettini. E temo non sia un problema solo mio.

Il Corriere della sera/La Lettura – 8 settembre 2017

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