26 ottobre 2017

PER CHI SUONA LA CAMPANA, IERI E OGGI


1937, Ernest Hemingway in Spagna, sui campi di battaglia

Per chi suona la campana. A Guernica e Guadalajara 50 anni dopo 

Sandro Viola


GUERNICA
Nel bordello di Burgos riservato agli ufficiali tedeschi vi fu, la sera del 26 aprile 1937, un gran via via. Quasi tutti i quarantatré piloti della Legione Condor che avevano preso parte all'attacco contro Guernica, vi andarono infatti a scaricare i nervi. Mancava il loro comandante, Wolfram von Richthofen, fratello di quel "barone rosso" che nella Prima guerra mondiale era stato il grande asso della Luftwaffe. Ma c'erano altri giovani aristocratici, il magro e nervoso "Bubb" von Moreau, lo spavaldo Hans von Beust, l'elegantissimo Karl von Knauer, oltre al capo di squadra aerea Klaus Fuchs, e come s' èdetto la maggior parte degli altri piloti che due ore prima erano rientrati dall'operazione del pomeriggio. Von Richthofen non frequentava il bordello, e comunque quella sera era totalmente impegnato nella stesura del rapporto sul bombardamento. Guernica era stata infatti un'azione "sperimentale", un test, e a Berlino Goering attendeva con impazienza di sapere come fosse andata.
Come andò, a Guernica, quel pomeriggio di quarantanove anni fa? Ne parlo a lungo con alcuni sopravvissuti nel "Club de jubilados", i pensionati, della cittadina basca. Come allora, è un pomeriggio di lunedì. Ferve il mercato settimanale, migliaia di persone sono venute dalle campagne e dai paesi vicini, i bar sono strapieni. Anastasio, il gerente del circolo, ci ha sistemati ad un paio di tavolini, me e cinque vecchi operai. Il fumo dei sigari forma una nube spessa. Beviamo caffè e anice forte, attorno s'è raccolto un capannello d'altri anziani. Il racconto della distruzione di Guernica affiora abbastanza ordinato, abbastanza lucido, malgrado sia trascorso mezzo secolo e le teste dei testimoni non siano più limpide come un tempo. Lo schema dell'operazione, quanto meno, risulta chiaro. La gran folla del giorno di mercato, l'assenza di contraerea; la prima ondata del bombardamento, mentre i Messerschmitt mitragliavano la folla in fuga; poi la seconda ondata, e infine le bombe incendiarie. La città ridotta ad un enorme rogo (la maggior parte delle case di Guernica era allora in legno), le condutture saltate e quindi nessuna possibilità di spegnere gli incendi. Milleseicento morti e mille feriti sulle seimila persone (tra residenti e gente venuta per il mercato) che si trovavano sul posto. Un ex falegname di 85 anni, Juan Olaochea, ricorda nitidamente il mitragliamento sulla strada di Mùgica, dove un fiume di fuggiaschi correva allo scoperto tentando d'allontanarsi da Guernica. "Gli aerei", racconta, "s' abbassavano sino a un paio di centinaia di metri dalla strada sparando senza requie... Hombres, mujeres y nios can como moscas". Un marmista di 79 anni, Eugenio Torre Alday, ricorda invece l'effetto delle bombe incendiarie: "Bruciava tutto", continua a ripetere sorseggiando il suo anice, "bruciava tutto...". La sola mitragliatrice in città, dice l' impiegato comunale Josè Lopez de Larrucea, "l'aveva il battaglione Saseta, e la manovrava mio fratello. Dopo cinque minuti s'inceppò". La guerra di Spagna durava ormai da nove mesi, e l'intervento straniero s'era fatto sui due versanti in conflitto (il governo legittimo della Repubblica, il movimento militar-fascista) sempre più scoperto e massiccio. Da una parte volavano gli aerei sovietici Natascia 204 e Katuska, dall'altra i Caproni, i Savoia-Marchetti, gli Heinkel, gli Junkers e gli Stukas inviati da Mussolini e da Hitler. Sul terreno, le truppe italiane avevano già partecipato a due grosse battaglie: la presa di Malaga, e il tentativo d'attacco su Madrid da Guadalajara, risoltosi in una disfatta clamorosa. Ma Guernica rappresentò l'apice, e il simbolo più sinistro, della internazionalizzazione del conflitto. Più che alle necessità tattico-strategiche della guerra spagnola, il bombardamento sull'antica cittadina basca servì infatti come prova tecnica della Luftwaffe. A Norimberga, nove anni dopo, Goering lo disse apertamente. Lo Stato maggiore tedesco aveva inteso provare la sua aviazione, ma soprattutto studiare gli effetti psicologici del bombardamento. E, certo, la materia era da studio: perché Guernica fu il più tremendo attacco di sorpresa contro un obbiettivo indifeso mai tentato nella storia.
Guernica dopo il bombardamento
I quarantatré aerei tedeschi si lanciarono sul piccolo centro - l' antica patria delle libertà basche - in tre ondate successive. È probabile che se non avevano mai fatto un volo di ricognizione sulla zona, i piloti della Condor restassero stupiti - come accade a qualunque straniero che venga per la prima volta in questa parte del Paese basco - alla vista del paesaggio. Questa Spagna è infatti una specie di Svizzera: uno scorcio alpino, le case con i tetti spioventi, le foreste d'abeti, i prati verdissimi. In ogni caso, gli Junkers 52 al comando di von Beust e gli Heinkel 111 di von Moreau provvidero a sganciare trenta tonnellate di bombe dirompenti, mentre i caccia Messerschmitt Bf-109 mitragliavano i fuggiaschi. L'ultima ondata fu ancora degli Heinkel, stavolta con quindici tonnellate di bombe incendiarie, le Ec.B 1, le più micidiali che esistessero a quel tempo. Ventiquattr'ore dopo, la tragedia di Guernica dava luogo ad un intermezzo farsesco. Le autorità nazionaliste, a cominciare da Franco, negarono persino che vi fosse stata un'operazione aerea sulla cittadina basca. Col passare dei giorni dovettero ammettere il bombardamento, ma continuarono a sostenere che la maggior parte delle distruzioni era stata opera dei "rossi", un complotto destinato a screditare le forze nazionaliste. E infatti nel "Club de jubilados" Josè Lopez de Larrucea mi mostra una fotocopia del "Diario de Burgos" del 4 maggio, con questo titolo a quattro colonne: "La destrucion de Guernica fuè obra de los incendiarios rojos". In quei primi di maggio, racconta un capomastro di 74 anni, "nacionales" le Camicie nere italiane erano ormai entrate a Guernica. "Si cominciò a sgombrare le macerie. Ai giornalisti che seguivano le truppe di Franco eravano costretti a dire che l'incendio l'avevano appiccato i comunisti e gli anarchici. Intanto gli italiani avevano montato una grossa tettoia in piazza, e la sera invitavano le ragazze a ballare. C'erano quattro o cinque Camicie nere che suonavano benissimo la fisarmonica...".
Vero o falso, Juan Olaochea racconta d'essersi comportato invece con più coraggio: "Quando lo chiesero a me, chi aveva distrutto la città, io glielo dissi che erano stati i fascisti. Mi riempirono di botte e feci quasi due mesi di carcere...". Nella primavera del 37 l'intervento straniero aveva ormai determinato i caratteri più peculiari, la fisionomia stessa, della guerra civile spagnola. Essa era divenuta infatti, oltre che lo scontro tra le "due Spagne", il banco di prova dei rapporti di forza in Europa. L'intervento s'era prodotto quasi subito, dieci giorni dopo la sollevazione dei generali ribelli contro la Repubblica. Il 28 luglio Hitler aveva fornito gli aerei necessari per trasportare dal Marocco a Siviglia duemila uomini dell'Armata d'Africa, "regulares" marocchini e "banderas" della Legione straniera, la truppa che sarebbe servita da ferro di lancia delle prime offensive dei nazionalisti. Con quel "ponte aereo" (il primo mai tentato, un'innovazione decisiva nelle tecniche militari del secolo) cominciavano gli esperimenti che tre eserciti europei, il tedesco, l'italiano e il sovietico, avrebbero condotto lungo i due anni e mezzo della guerra civile. Qualche giorno dopo sarebbe stata la volta dell'aviazione italiana, che scortò con i suoi caccia le navi trasporto a bordo delle quali altri duemila uomini passarono dal Marocco in Spagna. Intanto giungevano a Madrid gli uomini di Stalin: Togliatti (in missione speciale, prima di stabilirsi definitivamente nella capitale spagnola), Jacques Duclos, Vittorio Vidali, l'ungherese Ern Ger. E quasi subito cominciarono ad arrivare gruppi di antifascisti italiani e tedeschi dai paesi dove vivevano in esilio. Alcuni si trovavano già nel luglio, per caso, a Barcellona, dove le sinistre repubblicane avevano organizzato in concorrenza con le Olimpiadi di Berlino una "Olimpiade dei lavoratori". S'arruolarono nelle file della Repubblica, formando il primo abbozzo delle Brigate internazionali: gli italiani costituirono il battaglione Sozzi, i tedeschi la centuria Thalmann. Ma altri ne arrivavano, via Parigi, in continuazione. Verso la fine d'agosto giunse il gruppo di Giustizia e Libertà che Carlo Rosselli aveva organizzato a sue spese, e quasi immediatamente fu inviato sul fronte di Huesca. Teoricamente, le potenze europee avrebbero dovuto restar fuori dal conflitto. Già nelle prime settimane della guerra la Gran Bretagna e la Francia (benché questa avesse ormai un governo di Fronte popolare e un primo ministro, Lèon Blum, che sulle prime era parso incline a fornire un aiuto militare alla Repubblica) avevano proposto a Roma e a Berlino un patto di non intervento. I ministri degli Esteri delle due potenze fasciste, Ciano e von Neurath, lasciarono trascorrere un po' di tempo durante il quale prestarono - come s' è visto - un appoggio decisivo alle forze nazionaliste, quindi accolsero l'idea del patto. Fu così istituito un Comitato di consultazione e controllo degli accordi di non intervento, e la sua prima riunione si tenne a Londra, il 9 settembre, in un salone del Foreign Office. Ma tutto si risolse, nei due anni e mezzo successivi, in un intreccio di doppi giochi. L'"appeasement" inglese e la debolezza del Fronte popolare in Francia si trovarono dinanzi l'arroganza, l'euforia dei vincitori che spirava ormai a Roma e a Berlino, i cui governi erano decisi a favorire in ogni modo possibile la vittoria dei militar-fascisti in Spagna. La situazione che scaturì da questa discrepanza d'atteggiamenti risultò gravemente svantaggiosa - e forse mortale - per la Repubblica. Le potenze democratiche osservarono infatti quasi del tutto gli accordi di non intervento, mentre si faceva sempre più decisivo il sostegno nazi-fascista sul lato dei "nacionales". A bilanciare il rapporto di forze tra le due parti in conflitto, fornendo sino all'ultimo aiuti militari rilevanti, restò così la sola Unione Sovietica.
Ma se da un lato c'erano gli Stukas e le "Frecce nere" di Mussolini, dall'altra c'era quella che Andrè Malraux avrebbe chiamato l'"illusione lirica". Qualcosa che non era mai accaduto nella storia, si stava infatti verificando con l'ingresso nell'esercito della Repubblica di decine di migliaia di volontari europei ed americani, e con l'adesione alla lotta antifascista d'una intera generazione intellettuale. Madrid assediata divenne uno straordinario punto d'incontro di scrittori, poeti e giovani idealisti, alcuni col "mono" (la tuta) delle milizie repubblicane, altri soltanto testimoni degli eventi, ma testimoni partecipi, appassionati, di quella che per tanto aspetti si presentava come una partita decisiva tra libertà e totalitarismo.
1937, Combattenti repubblicani in Spagna - Dietro, con gli occhiali, si riconosce E. Hemingway
Nasceva una leggenda: la guerra di Spagna come "A Poet's war". Un giovane volontario canadese, Ted Allan, s' affacciò una sera nella hall dell'albergo "Florida", e si vide passare sotto gli occhi Pablo Neruda e Dos Passos, Malraux e Arthur Koestler, Hemingway ed Ehrenburg, Saint-Exupery, Lilian Hellman e Rafael Alberti. Sbalordito, scrisse la sera stessa ad un amico: "Ci sono tutti, ti dico tutti, salvo Shakespeare".
Andrè Malraux era stato uno dei primi ad arrivare, l' 8 agosto, con una ventina d' aerei Potez-540 acquistati in Francia per conto del governo spagnolo. Il suo quartier generale, prima che la squadriglia venisse trasferita ad Albacete, era appunto l' hotel "Florida". Lo scrittore già famoso s'era improvvisato un abbigliamento di tipo militare, trasferendovi lo "chic" particolarissimo, insieme trasandato ed avvertito, che Malraux aveva quando vestiva panni borghesi. Il berretto a visiera con i gradi di colonnello, un giubbotto di camoscio sui pantaloni di "tweed", la cravatta in tinta, un lungo soprabito di pelle nera. "L'hotel "Florida"" - annotava Pietro Nenni - "è una specie di Torre di Babele. Vi abitano gli aviatori di Malraux, i giornalisti, gli ospiti d'onore del governo, e la banda d'avventurieri che non manca mai agli appuntamenti con la guerra o con la rivoluzione. Magro, il bel volto tutto intelligenza, Malraux si prodiga senza risparmio, da vero combattente...". "Il suo prestigio", scrisse più tardi Georges Soria, che si trovava a Madrid come corrispondente de l'"Humanitè", "era immenso. Quando entrava al "Florida" tutti gli si facevano incontro, specie le volte che tornava da una delle folli missioni aeree alle quali partecipava da mitragliere. La semplicità con cui dimostrava la sua dedizione, il suo impegno politico era pari soltanto alla sua ignoranza di cose militari".
La sera, poi, s' usciva. "L'Alcalà, la Puerta del Sol" - è ancora Nenni che scrive - "sono animate sino alle tre del mattino. I caffè affollatissimi. Vado a volte in un ristorante basco con Malraux e sua moglie, con Rafael e Teresa Alberti, con Soria, il russo Koltzov, l'intellettuale cattolico Bergamìn, Corpus Barga eccetera. Si commentano appassionatamente i fatti del giorno, ci sentiamo tutti come archi tesi da un arciere invisibile e tuttavia presente: la Rivoluzione...". "La sera", mi racconta Enrique Lister, il comandante del Quinto Regimiento, "proprio quando si cominciava a tirare il fiato dopo la giornata di lavoro, al mio quartier generale arrivava Hemingway. Cercava notizie ma anche vino, e per prima cosa dovevo mandare a prendere un paio di bottiglie di Rioja...".
Dell'hotel "Florida" non rimane più niente. Ma la sua leggenda resiste, e infatti ogni volta che in questi trent'anni m'è capitato di passare dalla plaza Callao, dove si trovava, non ho mai potuto fare a meno di gettare uno sguardo verso il grande magazzino che ne ha preso il posto. Il "Florida" non era propriamente, a parte l'atmosfera, un luogo di piaceri. Gli ascensori smisero di funzionare nel primo mese della guerra, durante la battaglia del Jarama mancò l'acqua per molti giorni, e il paio di prostitute che vi erano ammesse (una certa Carmen, ex campionessa di lotta femminile, e una marocchina di nome Fatima) facevano da informatrici per l'ambasciata sovietica.
Rafael Alberti aggiunge che era anche un posto pericoloso. Nei giorni della prima offensiva su Madrid, nel novembre ' 36, il "Florida" s'era trovato esposto al fuoco che veniva dall'artiglieria franchista situata tra il Manzanarre e la Città universitaria. Alberti mi racconta che in quell'occasione Ernest Hemingway trattò col direttore dell'albergo un cambio di camera. Lo scrittore ne aveva una sul retro dell'edificio, di quelle che adesso - col cannone dei franchisti così vicino - erano più richieste, e propose di cambiarla con una sul davanti purché gli venisse data a metà prezzo. L'aneddoto è vero, o si tratta d'una delle mille dicerie che nacquero con gli anni attorno al famoso romanziere americano, cui persino un testimone smaliziato ha finito col credere? Non lo so. Alberti insiste, in ogni caso, sulla vicinanza dell'albergo al fronte, e racconta che una mattina di quel novembre vide improvvisamente una pattuglia di marocchini che avanzava circospetta sulla Gran via.
Fu in questa prima battaglia di Madrid che entrarono in azione alla Città universitaria le Brigate internazionali. L'idea delle Brigate era venuta a Maurice Thorez, segretario del partito comunista francese. Thorez l'aveva esposta a Mosca verso la fine di settembre, e Georgy Dimitrov - segretario generale del Comintern - ne era stato entusiasta. Così tutti i responsabili del Comintern vennero subito mobilitati attorno al progetto, da Togliatti a Josìp Broz Tito, e un mese dopo le Brigate internazionali erano una realtà. Venne aperto un ufficio di reclutamento a Parigi, e il primo contingente di cinquecento uomini arrivò in Spagna, il 14 ottobre, col treno 77 partito il giorno prima dalla Gare d' Austerlitz. Mi diceva l'altro giorno Santiago Carrillo: "Lei non può immaginare che cosa significò veder sfilare le prime Brigate, centinaia, migliaia di volontari venuti a combattere per la libertà della Spagna. Sfilavano cantando l'Internazionale e la Giovane guardia, la folla scandiva il motto della resistenza al fascismo - No pasaràn -, l' entusiasmo era enorme. Ora so che si discute molto su quello che fu il loro effettivo apporto militare nella guerra, se importante o marginale. Intanto non bisognerebbe dimenticare che molti dei volontari avevano combattuto nella prima guerra mondiale, dalla quale gli spagnoli erano invece restati fuori, e che questo rappresentava un capitale d'esperienze nient'affatto trascurabile. Ma il vero apporto, di significato vastissimo, fu quello morale, psicologico. Il segno che la causa della Repubblica era sostenuta da tutti i democratici in Europa e in America...".
Spagna 1937 - Brigatisti internazionali a Guadalajara
La verità è che le Brigate internazionali furono e sono un mito, uno dei più radicati nella memoria europea dell'ultimo mezzo secolo; e come ogni mito anche questo contiene aspetti ambigui, un po' di scorie, e ha comportato qualche rimozione. Certo, si trattò d'uno straordinario concorso morale, politico e di sangue alla giusta causa della Repubblica. E in esso confluirono spinte e sensibilità diverse, ideali democratici e progetti rivoluzionari. Non tutti i membri delle Brigate erano infatti comunisti: Hugh Thomas calcola che i comunisti fossero il sessanta per cento, e che un altro venti per cento dei volontari entrarono nel partito durante la guerra di Spagna. Ma sarebbe assurdo non tenere in conto che le Brigate internazionali finirono col diventare uno strumento del Comintern, di Stalin. Qui sta la loro ambiguità. Da un lato quei volontari rappresentarono la materializzazione d'uno dei grandi sogni del XIX secolo, appunto il sogno internazionalista; dall'altro le Brigadas internacionales vennero largamente usate, e manipolate, negli interessi del comunismo e dell'Urss. Un altro mezzo, oltre agli invii di armi e munizioni, che consentì al Cremlino delle grandi purghe di prendere a poco a poco il controllo - attraverso il suo rappresentante in loco, Palmiro Togliatti - del campo repubblicano. Governo, rapporti internazionali, comandi militari, propaganda, tutto.
Beninteso, resta una grande differenza tra chi combatté dal lato della Repubblica e chi lo fece nelle file di Francisco Franco. Una grande differenza tra gli italiani che, da una parte e dall'altra, si spararono addosso nei dintorni di Palacio Ibarra. Sono venuto a trascorrere una giornata in queste campagne della Nuova Castiglia tra Guadalajara e Alcalà de Henares, dove nel febbraio 37 si svolse - in piena guerra civile spagnola - una furiosa battaglia tra italiani. La battaglia detta di Guadalajara, il massimo tracollo dell'intervento mussoliniano (che fu assai più teatrale, più ideologico di quello dei nazisti) nella tragedia spagnola. La rotta di Guadalajara nacque dalle impazienze di Mussolini e di Ciano, infastiditi dalle esitazioni di Franco (che intanto era divenuto il capo del governo nazionalista) e convinti che Madrid dovesse essere conquistata subito. Ne parlo con Lister, che al comando del settore centrale della battaglia fu il vero stratega delle forze repubblicane, e al quale Antonio Machado dedicò dopo Guadalajara quei suoi celebri versi: "Valesse questa penna il tuo revolver/di capitano, contento morirei...". Il comandante del Quinto Regimiento non è più il bell'uomo d'allora, naturalmente, e il suo cervello di stalinista non ha conosciuto col tempo il minimo ripensamento, alcuna evoluzione. Ma il volto del vecchio conserva un certo magnetismo, dalla gola a pieghe come quella d' un "bull-dog" gli esce ancora una voce possente. "Sì, Guadalajara fu una smargiassata italiana. In gennaio le Camicie nere avevano avuto un ruolo importante nella presa di Malaga da parte dei ' nacionales' , e a quel punto Mussolini pensò di poter entrare anche a Madrid. Per conto mio ho sempre pensato che gli italiani volessero umiliare i loro alleati spagnoli facendogli vedere come si doveva combattere. E i nazionalisti, d'altra parte, furono segretamente contenti della disfatta italiana. Il mio nome, dato che comandavo il grosso delle forze repubblicane, diventò popolare anche nei settori più franchisti della Spagna occupata...".
L'offensiva del generale Roatta ebbe inizio l'8 marzo, e dovette essere assai mal preparata se è vero - come scrive John Coverdale in un suo libro di dieci anni fa, Italian intervention in the Spanish civil war - che il comando italiano aveva come sola mappa dei luoghi una carta stradale Michelin a scala 1:400.000. Curvandosi su un foglio di carta bianca (il vecchio, adesso, è patetico: quante volte deve aver fatto questo stesso gesto nei decenni dell'esilio), Lister dice che le forze italiane ammontavano a ventimila uomini. In realtà dovevano essere di più, attorno ai trentamila, con le Fiamme nere del generale Coppi, la divisione Littorio del generale Bergonzoli, le Frecce nere del generale Nuvolari, le Camice nere al comando del generale Rossi. Alla vigilia dell'offensiva, Roatta aveva trasmesso ai comandi l'ordine del giorno 3.002 ("Preparazione morale") con cui suggeriva di suscitare negli uomini "uno stato d' esaltazione": "Non dimenticate che qui, in terra straniera, noi rappresentiamo l' Italia fascista...". "Le nostre difese", racconta Lister, "erano esigue, e gli italiani sfondarono subito. Il 9 e il 10 ripresero ad avanzare entrando a Trijueque e a Brihueha, mentre noi facevamo affluire i rinforzi. C'era un tempo infernale, il peggiore che mi ricordi nelle varie battaglie della guerra, pioggia, freddo, nevischio. Il primo colpo all'avanzata italiana lo dettero gli aviatori sovietici, che malgrado il cattivo tempo riuscirono a decollare da Barajas. Il 12 operammo una serie di contrattacchi: io a cavallo della strada d'Aragona, gli altri - il Campesino, gli italiani della Garibaldi e i carri armati del generale Pavlov - in altri settori. Per qualche giorno la battaglia ristagnò, e infine, il 18 marzo, passammo all' offensiva. La sera i fascisti erano in fuga...".
Sono venuto a vedere, come dicevo, i luoghi della battaglia. I paesi (Torija, Brihueha, Trijueque) dove ancora si levano i castelli dei mori, la campagna verdissima - così rara nella nuova Castiglia -, le masserie dove si svolsero alcuni combattimenti decisivi. Palacio Ibarra, per esempio, dove per gli italiani schierati dalle due parti si svolse l'episodio più carico di significati. La mattina del 12 marzo il battaglione Garibaldi della XII Brigata internazionale circondò una villa fortificata con davanti un paio di casali contadini, che stava al centro d'un latifondo di milleduecento ettari appartenente ai marchesi Ibarra. Negli edifici della masseria c'erano le Fiamme nere del generale Coppi. Lì - ha scritto Hugh Thomas - "gli italiani combatterono una guerra civile per proprio conto". E in effetti, parecchi anni prima dell'inizio della guerra partigiana, era la prima volta che fascisti e antifascisti si trovavano di fronte in formazione di battaglia. Tra gli assedianti, sotto gli alberi imbiancati dalla neve, c'erano Luigi Longo, Vittorio Vidali e Pietro Nenni, che comandava una compagnia. Il comandante e il commissario politico della XII Brigata erano due intellettuali, due scrittori: l'ungherese Mata Zalka, che in Spagna si faceva chiamare generale Lukacs, e il tedesco Gustav Regler. Il combattimento durò accanito per varie ore, sinché ci fu luce, tanto che ancor oggi si vedono due casali diroccati. Poi, scesa l'oscurità, i "garibaldini" misero in funzione gli altoparlanti. "Fratelli italiani", gridavano Vittorio Vidali e Luigi Longo, "unitevi a noi. Gli uomini del battaglione Garibaldi vi accoglieranno come compagni...". Oppure facevano parlare i prigionieri catturati nei giorni precedenti: "Venite con i garibaldini! Noi siamo stati trattati come fratelli... Tutte le storie dei 'banditi rossi' sono una menzogna". C' era un certo nervosismo tra le file degli assedianti. I volontari polacchi volevano assaltare la masseria, e si rivolsero a Gustav Regler: "Ma cosa siamo, l'Esercito della Salvezza? Se davvero quelli lì vogliono disertare non devono far altro che sparare in bocca agli ufficiali...". Ma Regler dette ragione a Longo, e in effetti durante la notte qualche decina di Fiamme nere saltò i muri di cinta della masseria e si arrese. L'attacco finale si svolse due giorni dopo e i "garibaldini" presero Palacio Ibarra. Ci furono molti morti, una parte delle enormi perdite che l'esercito mussoliniano avrebbe subito nel corso di tutta la battaglia: duemila morti e quattromila feriti.
A Brihueha incontro un uomo molto simpatico, don Enrique Riasa Sais, veterinario e bibliotecario della cittadina. I "nacionales" gli fucilarono il padre nel ' 36 a Guadalajara, e lui è restato per tutta la vita antifranchista. Racconta: "Quando i repubblicani riconquistarono Brihueha, una pattuglia di anarchici iniziò la solita caccia al prete. Ma inutilmente: qui i preti erano già stati fatti fuori nelle prime settimane della guerra...".


“la Repubblica”, 8 giugno 1986 

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