31 ottobre 2017

CHI MINACCIA LA DEMOCRAZIA OGGI



“Cinque monopolisti minacciano la democrazia”. 

Intervista a Joseph Stiglitz  a cura di Andrea Affaticati

Sono bastati meno di trent’anni per stravolgere le regole del capitalismo che hanno dominato negli ultimi due secoli lo sviluppo economico dell’Occidente. Due gli attori principali: la globalizzazione e le nuove tecnologie. Una rivoluzione che ha prodotto crescente disuguaglianza e l’affermarsi di grandi monopoli digitali. Un mix che potrebbe risultare fatale per gli strati sociali più deboli così come per le nostre democrazie, sostiene Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia del 2001, del quale Einaudi ha appena pubblicato L’Euro – Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa. Pagina99 ha incontrato Stiglitz una settimana fa, a margine del ciclo Milano Talks, incontri sul futuro del lavoro, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
Manhattan, New York - Il premio Nobel Stiglitz alla finestra
In un articolo scritto un anno fa su Social Europe, lei sottolineava che anche i cinque colossi del digitale – Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft – contribuiscono ad aumentare le ineguaglianze. Perché?
I motivi sono diversi. Cominciamo da quello tecnologico. Se ci si muove sulla stessa piattaforma, è logico che chi si è assicurato la posizione migliore tenderà a concentrare su di sé il maggior numero di utenti. Da qui, per esempio, la posizione di monopolio di Facebook. Il fatto è - seconda considerazione - che questo predominio è in mano a un privato che determina i prezzi, potendoli far lievitare a proprio piacimento. Così tutti pagano di più, mentre i profitti finiscono a un unico soggetto. Infine c’è una terza considerazione che non avevo fatto nell’articolo di un anno fa, ma che risulta non meno allarmante. Questi cinque colossi oggi veicolano notizie, informazioni, conoscenza, decidendo cosa diffondere e cosa no. Questo loro potere è un pericolo per le democrazie e al tempo stesso produce ineguaglianza. Siamo in una fase di profonda trasformazione, che spinge verso una società dell’apprendimento in tutti campi, economia e innovazione comprese. L’accesso alle conoscenze deve essere libero e garantito a tutti.

Ma c’è anche una gestione monopolistica del know how da parte di questi big?
C’è questa storia che mi pare interessante raccontare. Apple tempo addietro era riuscito a convincere gli altri attori della Silicon Valley – a sua volta un attore monopolista nell’ambito dell’information technology – a sottoscrivere un accordo con il quale tutti si impegnavano a non sfilarsi reciprocamente i collaboratori. L’obiettivo era tenere basse le remunerazioni. Solo che sono proprio le conoscenze e le capacità creative a costituire la base remunerativa di questi collaboratori. Detto altrimenti, queste compagnie cercavano di derubare surrettiziamente e per conto dei loro azionisti questi lavoratori. La giustizia è intervenuta solo nel momento in cui c’è stata una denuncia.

Sommando i valori di capitalizzazione di borsa dei Big Five si ottiene una cifra che corrisponde al Pil del quinto Stato più ricco al mondo, prima di Italia, Francia e Regno Unito e dopo la Germania.
Si tratta di una altissima concentrazione di potere economico che permette di influenzare in senso più lato anche le politica. A Cupertino sono più o meno convinti di poter dettare loro la politica fiscale. Di poter dire: «Se non cambiate la legge sulla tassazione, noi non riportiamo indietro i nostri soldi». Un potere che un normale cittadino non ha. Non peccano di presunzione, questo potere ce l’hanno veramente e ciò costituisce un pericolo.

Dunque ci sarebbe bisogno di una normativa aggiornata?
Certo, ci vorrebbe per gli Stati Uniti così come per l’Europa. Meglio ancora se Usa e Ue ne elaborassero una comune. Ci sono però tre motivi per cui fino a oggi ciò non è avvenuto. Il primo è che, fino a non molto tempo fa, non era così evidente questo potere. In secondo luogo gli Usa, e in particolare i repubblicani, così come in Europa i partiti di centro destra, non hanno mai creduto veramente nella necessità di una regolamentazione. Infine, come già detto, queste compagnie sono potenti. A provarlo è stato Apple quando ha dovuto rendere conto davanti al Congresso per non aver pagato le tasse in Irlanda. Anziché essere considerato un evasore, l’amministratore delegato Tim Cook è stato trattato con tutte le attenzioni che si riservano a un corporate leader.

C’è da supporre che l’attuale amministrazione americana guidata da Donald Trump non abbia alcun interesse a cambiare le cose?
No, proprio no. Anche se i repubblicani, difensori da sempre di una bassa tassazione, sanno bene che una simile fiscalità presuppone che tutti paghino il dovuto. Con questo voglio dire che anche tra i repubblicani c’è chi non è contento che queste aziende la facciano franca perché così finiscono per pagare di più i cittadini. Per questo sono convinto che sarebbe possibile arrivare a definire una normativa quadro che costringa i Big Five a fare la loro parte. Certo per arrivare a questo risultato dovrebbe nascere un movimento dal basso.

Nell’articolo pubblicato nel volume Ripensare il capitalismo, curato da Mariana Mazzuccato e Michael Jacobs e appena pubblicato in Italia, lei sostiene che un eccesso di diseguaglianza frena la crescita. Capitalismo ed eguaglianza non sono una contraddizione in termini?
Non intendo un’eguaglianza totale. Quella non esiste. Mi riferisco alle distorsioni che hanno portato a un sistema economico sempre meno inclusivo negli Usa, così come in altri Paesi. E che queste distorsioni non siano inevitabili lo dimostrano Paesi come quelli scandinavi, che hanno sì, economie di mercato, ma più eque.

Quello dei Paesi scandinavi è un esempio che lei fa spesso, spiegando che alla base di questi risultati c’è una maggior apertura verso l’esterno. Apertura economica o di mente? Tenendo conto che siamo in un momento in cui si assiste a un ritorno di nazionalismi.
Sia economica che mentale, direi. Gli scandinavi sono partiti dalla constatazione di essere Paesi piccoli e che dovevano aprirsi alla globalizzazione se volevano avere successo. Questa apertura implica però una certa volatilità del mercato. E per evitare di ritrovarsi un giorno con cittadini che si ribellano perché si sentono dei perdenti, era necessario far sì che nessuno rimanesse indietro. Da qui la decisione di sostenere questo modello di sviluppo con l’introduzione di meccanismi di protezione sociale.

Lei sostiene che non sia la globalizzazione di per sé a essere negativa, ma il modo in cui è stata gestita finora. Cioè, svuotando il potere contrattuale dei lavoratori, abbassando i salari e indebolendo i sindacati. E questo è uno dei motivi alla base della nascita dei movimenti populisti. Ma come si può ora invertire la rotta?
C’è bisogno di forme di protezione sociale per sostenere persone che hanno perso il lavoro o i cui salari si sono drammaticamente ridotti. Inoltre vanno introdotte opportunità di riqualificazione. Dobbiamo essere consapevoli dell’incredibile rivoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi decenni. Penso agli operai dell’industria automobilistica americana. Per vent’anni hanno lavorato, avuto una vita assolutamente decente. E oggi, arrivati alla soglia dei 50 anni, non è che li si possa accusare di non aver imparato a usare il computer a scuola. Ai loro tempi il computer non c’era. Sono stati travolti da questa rivoluzione tecnologica e abbiano il dovere di dare loro una mano.

Anche la Commissione Ue ha preso finalmente preso atto della necessità di correggere le storture della globalizzazione e contrastarne le ripercussioni soprattutto sugli strati sociali più deboli. Ma la Germania continua a essere inflessibile sui conti pubblici. Esiste una via di uscita?
I tedeschi sono convinti – odio dirlo, ma è così – che i popoli mediterranei, greci, italiani e via dicendo, siano tendenzialmente fannulloni. E dunque non bisogna aiutarli perché ciò non farebbe che incentivarli nei loro comportamenti. Si tratta di una visione totalmente sbagliata, moralistica, priva di qualsiasi empatia. Se poi vogliamo vederla da un punto di vista squisitamente economico, è fuori dal mondo. Basta ricordare che addirittura i repubblicani in America sono convinti che in presenza di una recessione c’è bisogno di incentivi.

Anche la politica della Bce, cioè di Mario Draghi, come specificherebbero i tedeschi, ha prodotto ineguaglianza in Europa?
Una domanda difficile. Perché il quantitative easing, cioè l’allentamento monetario, ha normalmente due effetti principali. Spinge in alto il prezzo di certi beni, assets, generando maggior ricchezza per chi li possiede. Il che significa un ulteriore allargamento della forbice della diseguaglianza. Inoltre bisogna tener presente che i titoli di stato non vengono comperati indiscriminatamente. Quelli più richiesti sono quelli più sicuri. Così, anche in questo caso a essere svantaggiati sono i Paesi già deboli. Certo, alla base della strategia di Draghi c’era la speranza di incentivare la domanda e far ripartire il mercato del lavoro. Detto ciò, è innegabile che se Draghi non fosse venuto in soccorso alla Grecia o all’Italia, le conseguenze sarebbero state drammatiche.

Tornando ancora una volta sui Big Five e alla loro posizione di monopolio che va espandendosi in tutti gli ambiti, dall’informazione e comunicazione alla logistica, all’industria automobilistica, alla sanità. È realistico immaginare un futuro nel quale questi colossi avranno in mano anche tutto il potere politico?

Non userei mai l’espressione “tutto il potere”. Perché non vi sarà mai un grado di concentrazione tale da rendere possibile uno scenario simile. Ciò non toglie però, che stanno già esercitando una influenza fatidica. Prendiamo il dibattito sulla privacy che contrappone il Vecchio Continente agli Usa. Mentre in America l’attenzione è più concentrato sui profitti, che crescono in proporzione inversa alla privacy, in Europa l’enfasi è sulla protezione della sfera privata e dunque sulla necessità di una normativa antitrust. Personalmente sono dell’avviso che gli europei facciano bene a preoccuparsi. Bisogna ridefinire la normativa antitrust, non partendo però da un sistema di mercato tradizionale, come l’abbiamo conosciuto fino a ora, ma tenendo conto di queste nuove forme di potere, di influenza a 360 gradi, che hanno i colossi digitali. Certo c’è ancora bisogno di un ampio dibattito. Un dibattito già in corso in Europa, non così negli Usa.

pagina 99, 19 maggio 2017

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