15 ottobre 2017

CHE COSA RESTA DI CALVINO


È uscito il nuovo saggio di Massimo Rizzante. Si intitola Il geografo e il viaggiatore. Lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sulla prosa di Italo Calvino e Gianni Celati (Effigie). Ne pubblichiamo alcune pagine

Lettere agli amici ignoti. Che cosa resta di Calvino


di Massimo Rizzante

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Trent’anni dopo la sua morte, siamo agli inizi del millennio che Calvino non ha conosciuto. Che cosa resta dei suoi valori letterari? Dei suoi amori? Delle sue lettere inviate agli amici ignoti che noi siamo?
Nel 1984 l’Università di Harvard invita Italo Calvino a tenere sei conferenze durante l’anno accademico 1985-1986. Calvino si mette al lavoro. Il tema è libero. Gran problema la libertà in arte. Soprattutto per Calvino, che da tempo ha imparato l’importanza delle contraintes. La letteratura è un gioco che ha le sue regole. Meglio, che deve inventare ogni volta le sue regole. Mi domando: le regole da inventare sono formali o toccano anche i temi? Si può inventare un tema? Dipende da quello che intendiamo per tema. In questo caso Calvino non ha bisogno di cercare molto lontano.
Vuole parlare di letteratura e, in particolare, di alcuni valori letterari che dovrebbero essere conservati nel prossimo millennio. Scrive cinque conferenze (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità), mentre la sesta (Consistency) resta incompiuta. La morte sopraggiunge nel settembre del 1985, un mese prima della partenza per gli Stati Uniti. Le Lezioni americane usciranno postume nel 1988.
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Nel libro c’è una breve prefazione. Non occupa neppure una pagina. Il nuovo millennio si avvicina. Nessuno, afferma l’autore, sembra esserne molto preoccupato. Che cosa ha caratterizzato il millennio che sta per finire? Calvino: a) la nascita e lo sviluppo delle lingue moderne dell’Occidente e delle letterature che, di queste lingue, «hanno esplorato le possibilità espressive, cognitive e immaginative» b) il libro che, nel corso dei secoli, ha preso «la forma che ci è familiare». Poi, tocca il punto vulnerabile: «Forse, il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui ci si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica cosiddetta post-industriale».
Durante questi ultimi trent’anni quante volte ci si è posti la stessa questione? Aprendo ancora oggi i giornali, ho la sensazione che non si sia fatto altro. La tecnica avanza, accelera sempre di più, «la forma del libro che ci è familiare» da molti secoli è praticamente scomparsa e con essa le forme letterarie che abbiamo imparato a conoscere e a giudicare – nel frattempo, dalla morte di Calvino, si è passati dalla nozione di forma a quella di formato – e continuiamo a interrogarci sul loro destino. Perché? L’uomo ha paura di non essere più in grado di sondare, attraverso mezzi diversi da quelli letterari, le sue «possibilità espressive, cognitive e immaginative»? O è stato sequestrato da una sorta di frenesia nostalgica provocata da una sindrome di abbandono? La tecnica ha superato la sua volontà individuale ed egli non si sente più responsabile di nulla: è il passato che lo abbandona, è il libro che si trasforma in qualcosa di estraneo, è la letteratura che gli appare come un tesoro inutile. L’uomo è diventato invulnerabile, privo cioè di quel vulnus che si chiama ferita storica. Questo bambino abbandonato dal passato e in balia del presente non ha colpe. E non avendo colpe, non può avere neppure una fede. Cosa che Calvino, anche se il suo habitus stoico-umoristico non gli permette di avventurarsi in facili previsioni, conserva ancora: «La mia fiducia nell’avvenire della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici».
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Nel corso delle conferenze non farà che ripeterlo: la letteratura è una conoscenza specifica che non può essere sostituita da nessun’altra. La sua fiducia nell’avvenire della letteratura si fonda sul passato della letteratura che, afferma nella sua prima conferenza, Leggerezza, è «un universo infinito» proprio perché ci saranno sempre «vie da esplorare, nuovissime o antichissime». Di più: «la nostra immagine del mondo» possiamo interpretarla grazie a quel che c’era ancora prima della nascita della letteratura: il mito. Se convoca Ovidio, Lucrezio, Cavalcanti, Dante, il Rostand del Cyrano de Bergerac, Galileo, Leopardi, Montale, Kafka, Kundera e altri per esemplificare la «leggerezza della pensosità», è il mito di Perseo e della Gorgone che incarna la sua situazione di uomo e di scrittore.
Calvino non è mai riuscito a scrivere un romanzo realista. Durante gli anni quaranta e cinquanta, spinto dall’esperienza della guerra, dagli amici del partito comunista, dalla sua fede nella Storia, ci ha provato varie volte. Ma ha sempre fallito. Non riesce a mostrare il dramma del mondo senza far ricorso al gioco, all’ironia, a quella «leggerezza della pensosità» che annulla ogni gravità senza per questo cedere alla frivolezza. Il caso del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, è paradigmatico.
Il realismo sociale, trionfante a quell’epoca, per lui è un tabù: «In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra […]. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa». Il solo eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo dai sandali alati. Perseo non guarda direttamente il mostro, ma solo la sua immagine riflessa sullo scudo: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello». La realtà non è uno specchio, ma quel che il nostro specchio-scudo cattura di essa. Per questo è necessario restarsene a una certa distanza e dotarsi di un paio di sandali alati: ciò ci permetterà di muoverci con più rapidità, di precisare meglio i contorni delle cose, di renderli più visibili e di rivelarli in tutta la loro molteplicità, cioè in tutte le loro possibili combinazioni.
Nel gesto di Perseo sono presenti già tutti i valori che Calvino ha voluto trasmettere ai suoi lettori futuri. E che noi, lettori dell’inizio del XXI secolo, non riusciamo più a intendere: ho l’impressione che siamo diventati tutti dei Perseo che, scordato il nostro scudo di bronzo, ci crediamo più leggeri. E anche più coraggiosi, poiché ci sentiamo liberi di affrontare direttamente la Gorgone. Solo che così facendo non è la sua testa che tagliamo, ma il nodo plurimillenario con la civiltà della visione indiretta.
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Le leggende, le fiabe… Calvino, scrittore della forma breve, poeta della prosa per la sua ricerca della parola giusta, autore «fantastico», come lo hanno subito definito i critici italiani, soprattutto i suoi amici marxisti devoti al realismo sociale, le ha sempre amate. Quel che adora è il loro ritmo, la loro capacità di cogliere l’essenziale, il loro tempo: allegro, vivace, presto. Da qui il suo elogio, nella seconda conferenza, della Rapidità.
Tutti i valori che Calvino vorrebbe trasmettere ai suoi lettori sconosciuti si incrociano. Nella prima conferenza, allo scopo di chiarire meglio quel che per lui significa «leggerezza», ne dà tre accezioni: a) un linguaggio la cui sintassi verbale è priva di peso b) una narrazione o una descrizione dove c’è un «alto grado di astrazione» c) «un’immagine figurale» emblematica. Queste tre accezioni della «leggerezza» si possono integrare alla nozione di «rapidità». Non è un caso se «un’immagine figurale» spunta diverse volte anche nel corso di questa conferenza: quella del cavallo, che Cal- vino riprende dapprima da Boccaccio per infonderle, più tardi, grazie all’opera di Galileo, un significato più profondo. Sceglie l’episodio di Madonna Oretta che, stanca di un cavaliere maldestro, lo prega di farla scendere «dal cavallo della novella» per andare a piedi. «La novella – afferma Calvino – è un cavallo»: ha la sua andatura, che deve essere mantenuta a seconda del percorso. Anche le parole devono adattarsi al percorso. Tutto ciò necessita di un’agilità del pensiero e dell’espressione. È questo che conta e che Calvino sottolinea ancora di più quando introduce il Galileo del Saggiatore. Contro il suo avversario, che sostiene la sua tesi appoggiandosi su un gran numero di citazioni antiche, Galileo afferma che «il discorrere è come correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà più che cento frisoni». Tale dichiarazione, aggiunge Calvino, è «il programma stilistico di Galileo, stile come metodo di pensiero e come gusto letterario». Il programma di Calvino è prossimo a quello del suo maestro: «Il mio lavoro di scrittore è stato fin dall’inizio quello di seguire il percorso folgorante dei circuiti della mente che catturano e legano i punti lontani dello spazio e del tempo».
Calvino, che vive l’inizio della nostra epoca dell’accelerazione tecnica e del trionfo della comunicazione mediatica in tempo reale, si volta indietro di quasi quattro secoli per cogliere la sua vocazione alla rapidità. Perché si allontana così tanto dal nostro presente? Perché la rapidità della comunicazione è un valore misurabile dal progresso tecnico, mentre la rapidità mentale «non può essere misurata […] vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere». Al progresso, e ai record che segnano le sue tappe verso l’appiattimento finale di ogni comunicazione, Calvino oppone la sola forza capace di esaltare la differenza in quanto tale: il piacere che, come la corsa del «caval barbero» di Galileo, non ha bisogno di essere cronometrata per comunicare la bellezza della sua andatura.
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Calvino non era un uomo molto loquace. A volte, quando doveva prendere la parola in pubblico, gli capitava di balbettare. Era fisicamente allergico ai luoghi comuni. Verso la fine della sua vita, gli sembrava che il linguaggio fosse stato contagiato dalla «peste», a tal punto le sue manifestazioni gli parevano sprovviste di ogni forza cognitiva ed espressiva. Ne parla nella terza conferenza: Esattezza. Alla perdita di forma, Calvino oppone ancora una volta la specificità dei mezzi della letteratura, che giunge a chiamare «la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere».
Per spiegare «l’esattezza» Calvino declina di nuovo le tre accezioni della «leggerezza». Così «l’esattezza» significa: a) un disegno dell’opera ben calcolato b) la creazione di immagini visuali nette, incisive, memorabili c) un linguaggio «il più preciso possibile» sia nel lessico sia nel descrivere le sfumature del pensiero e dell’immaginazione. Porta alcuni esempi. Ci sono autori già citati: Valéry, Borges, Leopardi, Montale, Mallarmé, Poe, Lucrezio. E altri: Ponge, William Carlos Williams, Musil, Leonardo. La presenza di Leonardo è qui ancora più significativa di quella di Galileo nella conferenza dedicata alla «rapidità». E ancora più intimamente legata all’estetica di Calvino.
Calvino distingue coloro che credono che la parola conosce solo se stessa e che al di fuori di essa nessuna conoscenza del mondo è possibile; e coloro che concepiscono «l’uso della parola come un incessante inseguire le cose, un’approssimazione non alla loro sostanza, ma all’infinita loro varietà». È a questo punto che Leonardo fa la sua apparizione. Leonardo? Non conosceva il latino e la grammatica non era il suo forte. Eppure, verso la fine dei suoi giorni, non smetteva di sottomettersi alla tortura della parola scritta. Mescolati ai suoi studi scientifici si trovano frammenti, fiabe, facezie, storie esemplari: un piccolo catalogo di forme brevi. Tale materiale testimonia in Leonardo, sempre secondo Calvino, il suo bisogno di descrivere in modo dettagliato la forma fisica dell’oggetto e di coglierne simultaneamente le varianti. Per portare a termine questo compito la matematica e la geometria non sembrano essere sufficienti. Ha bisogno di far ricorso alla prosa. La prosa per Leonardo, come per Calvino, diventa così una messa a fuoco continua, attraverso il pensiero e l’immaginazione, allo scopo di trovare la parola e l’immagine le più vicine possibili alla cosa, nella consapevolezza di non poter cogliere la sua sostanza invisibile.
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La quarta conferenza, Visibilità, è un elogio all’immaginazione, meglio, all’«alta fantasia», come la definisce Dante nel Purgatorio, che, a differenza dell’immaginazione corporale che si manifesta attraverso il caos onirico, funziona come una cinepresa ad alta precisione che proietta le sue immagini su uno schermo separato dalla realtà oggettiva. Calvino la chiama anche «immaginazione visiva» o «figurale». Può venire dalla parola e giungere all’immagine o, al contrario, partire dall’immagine e arrivare alla parola.
Come sempre, la scelta di Calvino, quando intravede all’orizzonte un sentiero che si biforca, è quella di prendere le due direzioni. La sua più grande ossessione in quanto scrittore è: perché questo e non quello? Perché questo racconto e non un altro? Perché le cose sono andate così e non in un altro modo? Per questa ragione scrive che il suo ideale di immaginazione è quello che la concepisce come «repertorio del potenziale, dell’ipotetico». E, come nel caso di Galileo e di Leonardo, trova questo ideale nella nozione di «spiritus phantasticus» di Giordano Bruno, un altro antico maestro del Rinascimento. Per Bruno, l’immaginazione è un «golfo, mai saturabile, di forme e d’immagini» e Calvino, mescolando ancora una volta i suoi valori-amuleto, afferma che la mente dello scrittore (e talvolta anche quella dello scienziato e del filosofo) funziona come una «macchina elettronica» in grado di attingere da questo golfo con rapidità, esattezza e tenendo conto della molteplicità delle immagini e di tutte le loro possibili combinazioni.
La mente di ogni uomo è «una macchina elettronica» capace di attingere da un golfo infinito di immagini… Non si può comprendere il grande omaggio reso all’immaginazione, l’amore di Calvino per questa «facoltà umana fondamentale di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi» nella solitudine, nell’assenza, nella camera oscura dei nostri esercizi spirituali, senza tremare di inquietudine.
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Calvino non era un romanziere. Lo sapeva: «In questa predilezione per le forme brevi non faccio che seguire la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio di sé in testi in cui il massimo d’invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine, come quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette morali di Leopardi». Ecco l’ideale estetico di Calvino: la concentrazione estrema della poesia e del pensiero in un’operetta di qualche pagina… O, come scrive nella sua ultima conferenza, Molteplicità, nella prosa del poeta Valéry.
Solo che l’allievo di Leopardi e di Valéry si sente obbligato a rendere omaggio alla grande forma, al romanzo. Offre, come sempre, alcuni esempi: Flaubert, Gadda, Musil, Proust, artisti molto diversi e lontani da lui. E, per la prima volta, cade nella trappola in cui un artista non dovrebbe mai cadere: lo spirito del suo tempo. Definisce il romanzo, in quanto luogo privilegiato della molteplicità, come «enciclopedia aperta», come «rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». Trasforma il romanzo nello specchio della realtà comunicativa in tempo reale che lui stesso aveva criticato quando aveva concepito la rapidità mentale (Galileo) e lo «spiritus phantasticus» (Giordano Bruno) come bastioni di un altro tempo, di un’altra immaginazione, fondati sul piacere individuale, incommensurabile e inconnettibile, capaci di creare un mondo potenziale, ipotetico dove, per dirla con Musil, «un cavallo di genio» è più vero di un cavallo da corsa.
Il Calvino più vicino alla sua vera natura lo si ritrova alla fine della conferenza dove tornano i nomi di Ovidio e Lucrezio, gli antichi maestri della «poesia delle potenzialità infinite», con i quali aveva debuttato nella prima conferenza dedicata alla «leggerezza».
Alla fine della sua operetta è a loro, demiurghi e distruttori dell’universo dove tutte le forme hanno lo stesso valore, che Calvino si affida per dichiarare, ancora una volta, la sua vocazione antipsicologica e «cosmologica»:
Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…

Testo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=29398

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