13 novembre 2017

L'ULTIMO ROMANZO DI VELTRONI E' PEGGIORE DEL SUO PD




      Rimango convinto del fatto che i libri cattivi non vanno mai recensiti perchè anche la peggiore stroncatura finisce, senza volerlo, per fare pubblicità al libro e al suo autore.
    Pubblicando il pezzo seguente so di contraddirmi. Ma ho deciso di farlo solo perchè, prima ancora di parlare del suo ultimo libello (da non comprare e da non leggere!), C. Raimo parla soprattutto del peggiore uomo politico della smarrita sinistra italiana. (fv)


LA MISTIFICAZIONE CULTURALE E POLITICA DI W. VELTRONI

di Christian Raimo

Come tutta la produzione artistica e intellettuale di Veltroni (i suoi film, i suoi romanzi, i suoi saggi politici, le sue recensioni cinematografiche, le sue poesie, le sue infinite prefazioni, qualunque cosa abbia scritto), anche l’ultimo romanzo di Veltroni, Quando, edito da Rizzoli, è molto brutto, di una tale bruttezza che diventa interessante parlarne per due ragioni: primo per ragionare sul senso della narrativa pubblicata in Italia, secondo per comprendere attraverso il progetto fallimentare di un romanzo, che non è soltanto un vanity project, le ragioni ideologiche che spingono uno degli uomini politici più importanti degli ultimi venticinque anni a realizzare opere così mediocri.
Occuparsi di Veltroni è utile anche per un altro motivo, che riguarda il modo di condurre battaglie politiche. Recensire i suoi libri con cura e stroncarli, purtroppo inequivocabilmente – sono terribili in un modo difficile da credere per chi non l’ha letti – non ha il valore di un accanimento, ma di una critica culturale e – malgré soi – politica. Veltroni utilizza strumentalmente la narrativa e il cinema per occupare un ruolo pubblico, soprattutto da quando non ha più una carica politica, e fare i conti con la storia d’Italia, soprattutto della sinistra, del Pci e della sua eredità: documentari su Berlinguer, libri sul terrorismo, programmi tv per la Rai. In un modo che risulta chiaramente irritante per la disonestà intellettuale, mette in bocca ai suoi personaggi giudizi sulle vicende storiche di cui lui è stato protagonista fingendosene estraneo, spesso autogiustificando certe scelte politiche disastrose con il pretesto della finzione narrativa.
Ma partiamo dalla bruttezza. Una bruttezza dicevamo tipica dell’autoparodia involontaria, come spesso capita con i suoi libri. Nel peggiore, di una classifica difficile da stilare, Quando l’acrobata cade entrano i clown, Veltroni scriveva addirittura poesie, versi come “il dolore non è un ciao”, o “la violenza che ruba la vita e prende a bottigliate il futuro”, che sembravano uscire da un personaggio di Corrado Guzzanti, tipo Kipli e Brunello Robertetti. Il livello di antiartistico che ha per chi lo legge la funzione degli Occhi del cuore per chi vede una puntata di Boris. Il tono caricaturale: la storia di Quando è quella di Giovanni, un uomo di mezza età che è caduto in coma nel 1984 il giorno del funerale di Enrico Berlinguer e si sveglia miracolosamente trent’anni dopo, mentre è ricoverato in ospedale e si mette a cantare l’Internazionale. Già questa trama ovviamente fa ridere: non è nemmeno kitsch nel senso di Milan Kundera né trash nel senso di Tommaso Labranca, quanto una sgangheratissima ideuzza, che assomiglia poco alla discronia malinconica di Goodbye Lenin e molto al compagno Antonio, il personaggio di Antonello Fassari di Avanzi del 1993, anche lui comunista caduto in coma, eskimo e baffoni, che si risvegliava dopo aver ascoltato Contessa di Paolo Pietrangeli (“Compagni dai campi e dalle officine…”) nel mondo post-Bolognina e post-muro e non rassegnava alla fine del sol dell’avvenire.
Sembra che sia così: la storia si ripresenta tre volte, prima in tragedia poi in farsa poi in romanzo di Veltroni.
La bruttezza dello stile.
Ogni scrittore ha i suoi tic e i suoi difetti: aggettivazione pletorica, enfasi nelle metafore, punteggiatura ad effetto, difficoltà a caratterizzare i personaggi. Ci si lavora, ma non è facile emanciparsi da tutti i propri limiti. La caratteristica di Veltroni invece è che fa tutto male. E quindi si possono prendere i suoi libri come una specie di manuali di scrittura al contrario, e capire in quali errori si può incorrere facendo narrativa.
Esempi a caso presi quasi tutti solo dalle prime 30 pagine. L’incidenza di questi errori marchiani è di circa quattro a pagina.
1. Doppiette o triplette che ripetono lo stesso significato: “saliva, forte e stentoreo, un inno”, “salutare ogni giorno un corpo spento, senza soffio di vita”, “Si sentivano soltanto i passi di altri che si precipitavano correndo”, “un gesto lento che serviva a effondere sicurezza e fiducia”, “Come un giorno che non scorre, resta fermo, rifiuta il tempo”, “si beava della luce sbarazzina e irriverente” (luce sbarazzina sì),
2. Didascalismi: “la mano sulla testa per trattenere la cuffia che nel suo ordine chiamavano “cornetta””.
  1. Virgole incidentali pleonastiche che rompono il ritmo: “Non voleva credere a quello che, mentre si avvicinava, le veniva da pensare”. “E quella [voce], stranamente adulta, di un compagno di banco che lo cercava e gli ricordava – a Giovanni sembrava lo facesse sorridendo – la maestra che, sciagurata, li bacchettava sulle dita quando…”
  2. Virgole incidentali assolutamente inutili: “Lì, infatti, giaceva come corpo inerte…”, “Giovanni sognava e il suo universo onirico, ora, non era più quello…”, “Lui, al contrario, si beava della luce…”, “Quell’estate, in spiaggia, Flavia non l’aveva mai degnato di un’occhiata”.
  1. Registri incompatibili accostati: “Tutti questi pensieri, insieme a una specie di time lapse del volto di Giovanni che invecchiava” (tutta la scena è scritta con uno stile vagamente anni cinquanta)
  2. Metafore scontate: “la piccola folla che si era accalcata si aprì come le acque che si dividono”.
  3. Parafrasi per evitare le ripetizioni: “Giovanni sognava e il suo universo onirico”,
  4. Narratore che commenta: “Lui, al contrario, si beava della luce sbarazzina e irriverente, che lo rendeva, non sembri assurdo, felice”, “L’unica concessione, ma era un segno di libertà, era il rifiuto del reggiseno, considerato, giustamente, un’inutile gabbia alla natura delle proprie forme”, “avrebbe dovuto salutarla, al mattino, quando arrivava in spiaggia. Ma era sicuro, non raccontiamoci storie, che non ne avrebbe mai avuto il coraggio”, “Era cosciente, queste cose si sanno e danno sicurezza, di essere considerato uno dei “belli” della spiaggia”
  5. Ripetizioni: “la meravigliosa confusione di quella soffitta”, “era di una bellezza meravigliosa e mascherata”, “provò la meravigliosa sensazione…”, “decidere nelle interminabili e meravigliose assemblee…”, “rivivere l’incanto e la meraviglia della Festa dell’Unità…”
  6. Registri antinarrativi: “In macchina erano in sei, uno in eccesso ai posti di norma” (da verbale di polizia), “All’ultimo rigore Graziani spedì il pallone sulla traversa, invece che nella porta di quel fanfarone di Grobelaar”, “Aprì gli occhi, vide una suora, neanche male, che lo guardava allibito” (colloquialismi)
  7. Dialoghi spiegoni: “«Mi viene da piangere. Giovanni, se muore Berlinguer, finisce tutto»”, “Carmela [una suora] diventò una furia la fulminò sibilando: «Te ne accorgerai ora che non c’è più la Democrazia Cristiana. Vedrai quello che accadrà ai nostri valori…»”
  8. Virgolette usate come nei temi liceali: “Dall’altra parte Pier Paolo Pasolini, per le cui idee “irregolari” Giovanni e Flavia litigavano spesso”, “Era cosciente, queste cose si sanno e danno sicurezza, di essere considerato uno dei “belli” della spiaggia”
  9. Brutte metafore: “Era stato il dubbio, proprio il dubbio, la prima fermata d’autobus del suo viaggio verso Gesù” (per una vocazione di una suora)
Questi errori, e sarebbe complesso elencare con precisione tutta la non letterarietà di certe scelte stilistiche, mostrano un grado abissale di insipienza artistica che si riflette anche sulla costruzione narrativa nell’insieme. Di fatto Veltroni non riesce a distinguere per esempio tra un narratore focalizzato e uno onnisciente, per esempio: ossia scrive, senza soluzione di continuità pagine in cui non si capisce se siamo nella testa di Giovanni o della suora Giulia o è il narratore che commenta gli eventi. Oppure immagina soluzioni narrative non credibili, scontate, involontariamente ridicole o da soap-opera da Chiquito e Paquito.
Ci sono dei controesempi? In tutto il libro un paio che si possono notare. Pagina 44 è buona, e a pagina 99 c’è una similitudine molto bella: “Giulia […] prese la mano di Giovanni tra le sue e la tenne come un’ostrica che protegge la sua perla”.
Purtroppo c’è anche da dire che la stessa similitudine – che in rete si trova identica in alcune fanfiction di Harry Potter – viene estenuata per quattro pagine, spiegandola fino a farla diventare trash: “Per questo non si sottrasse neanche quando l’uomo, all’interno di quel giaciglio di pelle calda, scelse la mano destra di Giulia e scansò la sinistra. Lei dischiuse la conchiglia, e Giovanni, audace o afflitto, intrecciò le dita con quelle ormai aperte e indifese della suora”, “Come marziani, erano figli consapevoli di due millenni diversi. Li univa il calore di un gesto, che li faceva umani. In quella stanza, in quel giorno d’estate, con il sole che, crescendo, illuminava il loro gesto. Il gesto di un amore”.
La mediocrità stilistica però non è il peggior disvalore di quest’opera; nonostante, forse è opportuno ricordarlo, Veltroni sia stato anche ministro della cultura. Quando non parla solo di vicende private. Prendiamo pagina 298, quasi alla fine del libro, per spiegarci. A questo punto Giovanni ha già ripreso le sue relazioni famigliari, amicali e affettive importanti che erano state interrotte dall’incidente di trent’anni prima. Andrea, un suo vecchio amico con cui la famiglia, il padre soprattutto, condivideva la passione e la militanza politica, gli prova a spiegare le trasformazioni degli ultimi decenni dal Pci in avanti.
“Proseguì Andrea: «Vedi Giovanni, per quanto tu possa essere stato informato, non potrai mai comprendere davvero la profondità sconvolgente di quello che è accaduto alle nostre coscienze. Avevamo una casa, qualcosa di grande e confortevole, in cui ci sentivamo come una famiglia. Eravamo coscienti che dovevamo ammodernarla in fretta, e credevamo di avere gli utensili giusti per riuscirci. Ma a un certo punto è venuta giù una frana enorme dalla montagna […] Invece i detriti della montagna fecero un deserto. Bisognava risorgere come un fiore nella pietra. Sai, Giovanni, chi usò quella metafora nella più infuocata delle assemblee della svolta? Tuo padre. Aveva le lacrime agli occhi ma esortò tutti a continuare. Ci diceva: “Ora che non abbiamo più montagne da cui doverci difendere. Ora dobbiamo riempire la nuova terra dei semi. Dei nostri fiori avranno bisogno. Sempre, tutti”. Per lui i fiori erano i valori profondi della sinistra. “Ora siamo più liberi di lasciarli vivere, è proprio questo il nostro momento”. Così Ettore convinse i più anziani e diede una speranza ai più giovani. E quando in tutte le maggiori città furono eletti sindaci di sinistra, quando l’Ulivo vinse le elezioni, quando Ciampi e Napolitano diventarono presidenti della Repubblica, quando nacque il Partito democratico tuo padre ci ricordava sempre quelle parole. […] Era convinto, o si augurava, che tu saresti stato d’accordo con lui».
È incredibile come Veltroni possa aver scritto questa pagina in cui – nel momento chiave del libro – un personaggio legittima, anzi esalta non solo le idee del Veltroni politico, ma anche le sue gesta: la fondazione del partito democratico, o anche l’elezione di Napolitano (la cui scelta come presidente della repubblica Veltroni si intestò pubblicamente davanti a Napolitano stesso in una presentazione del suo precedente libro).
Ecco che un’opera semplicemente disprezzabile per la sua sciatteria, diventa qualcosa d’altro: un’operazione politica di autolegittimazione, all’inizio di una campagna elettorale. Non a caso ieri la sua intervista, che partiva dal libro, campeggiava come prima notizia in homepage di Repubblica.
Ma c’è di più. Non basta criticare la disonestà intellettuale di un uomo che usa la narrativa in modo propagandistico. Occorre anche notare quello che manca, in questo libro, e nell’intera produzione del Veltroni intellettuale, artista e regista. Veltroni non parla mai delle sue esperienze più discutibili, non fa mai autocritica. A distanza di dieci anni dalle sue dimissioni di sindaco di Roma che provocarono la caduta del governo Prodi, il ritorno di Berlusconi e la vittoria di Alemanno in città, non c’è stata una sola occasione pubblica in cui Veltroni abbia parlato della fallimentare “vocazione maggioritaria”, o abbia discusso delle pesanti eredità che la sua amministrazione ha lasciato a questa città: dalla follia urbanistica della nuove centralità alla segregazione dei campi rom. Anche in Quando la Roma che Veltroni descrive è quella vicino dove vive, tra Nomentano e Salario. Già in Ciao per esempio Veltroni esaltava la manutenzione che la sua giunta aveva fatto di villa Borghese – a pochi metri dalla sua abitazione – e in un’intervista nel 2009, a dimissioni fresche, al settimanale Sette raccontava che l’atto di cui andava più fiero della sua esperienza da sindaco era aver riqualificato villa Borghese. Il declino di Roma e i disastri che a distanza di dieci anni si vedono nei partiti di sinistra sono – per usare le brutte metafore di Quando – macerie e detriti giganteschi che Veltroni fa finta di non vedere, in uno sguardo scotomizzato.
Non ci vuole nemmeno un analista raffinato infatti per rubricare anche questo romanzo di Veltroni in una specie di ossessione personale, a cui milioni di persone a sinistra hanno dato credito come fosse un’idea politica. Tutti i libri e i film di Veltroni parlano di morte, di un mondo che non c’è più e non ritornerà mai più, fantasmi che dopo anni ci chiamano al telefono come nella Scoperta dell’alba o fantasmi che si ripresentano direttamente a casa come in Ciao, lutti strazianti che nessuna elaborazione potrà mai contestualizzare storicamente (Alfredino Rampi nell’Inizio del buio, i desaparecidos in Senza patricio, tutti i terroristi).
Veltroni è una vestale della memoria (uno dei suoi romanzi preferiti che non smette di citare nelle interviste è Io non ricordo di Stefan Merrill Block, e anche qui c’è un personaggio malato di Alzheimer), e per tre quarti Quando è dedicato a spiegare a uno appena uscito dal come cosa è successo. Ma la distinzione che non opera Veltroni è quella tra memoria privata – la sua, o quella dei suoi personaggi – e memoria collettiva, o meglio storia. Quello che esce fuori dai suoi lavori è allora un’oscena revisione della storia recente, spesso agiografica o autoagiografica, in cui Enrico Berlinguer per esempio – nel suo documentario o in questo romanzo – è una specie di re taumaturgo, un dio luminoso: questa trasfigurazione che ci blandisce e ci evita qualunque tipo di seria analisi critica (e autocritica) sul nostro passato e sul nostro presente, è buona per qualunque mistificazione.

Pezzo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/un-romanzo-scritto-modo-osceno-puo-produrre-grave-mistificazione-culturale-politica-walter-veltroni/


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