28 novembre 2017

POESIA E RIVOLUZIONE SECONDO SERENA VITALE




Serena Vitale è una studiosa della letteratura russa con molti meriti, ma – secondo me – l'intervista che segue, di Nicola Porcelluzzi, un giovane slavista veneto, pubblicata da “Il Tascabile” e ripresa da diversi siti non le rende onore. La lettura proposta, una cultura e una poesia che all'improvviso maturano (nel primo ventennio del Novecento) e che la Rivoluzione uccide o spinge al suicidio, mi pare semplificata e semplificante al limite della banalizzazione. C'è un passaggio che viene ignorato e che non è secondario: e cioè che anche la Rivoluzione è frutto di quella improvvisa e meravigliosa esplosione di modernità e che i tragici travagli che affliggono i geni della poesia non hanno radice diversa da quelli che colpiscono le esistenze di tanti rivoluzionari (inclusi alcuni geni della Rivoluzione). Forse si dà un buon consiglio a Vitale e a Porcelluzzi, se li si invita a rileggere Poesia e rivoluzione di Trotzky. Li aiuterebbe ad una più ricca e serena comprensione dei processi. (S.L.L.)

Poesia e Rivoluzione russa. 

Un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario 

a cura di Nicola Porcelluzzi

“Studierai russo perché è la lingua di Lenin”, scriveva Majakovskij: anni fa mi sono trovato a studiarlo all’università, senza mai chiedermi perché – almeno all’inizio. I progressi nella lingua erano lentissimi, e sofferti; al contrario, l’eredità storica e letteraria di una terra che sfuggirà sempre alla nostra comprensione, velata da un principio di indeterminazione, ha contribuito a ri-cablarmi il cervello, ri-sintonizzarmi il cuore, e mi accompagnerà sempre. Non è scontato spiegare cosa significa studiare la letteratura russa, e soprattutto sovietica, a vent’anni compiuti. È un’immersione da cui si risale lentamente, cercando di apprezzare un paesaggio sempre meno cupo.
C’è però qualcuno che lo capisce bene, anzi, che ha vissuto per questo. In occasione del centenario della rivoluzione infatti, ho avuto la fortuna di intervistare Serena Vitale, una scrittrice (e insigne slavista) che questa immersione l’ha portata fino in fondo, sacrificandosi alla Letteratura già negli anni Settanta, quando da Mosca trafugava in Italia libri proibiti, intervistava classici del Novecento come Sklovskij, il padre del formalismo. Queste e altre storie vengono raccontate nel suo A Mosca, a Mosca!, un libro da leggere.
Riascoltando la nostra conversazione mi stupisco di quanto Vitale abbia ripetuto quell’intercalare, “come lei saprà benissimo”, un inciso che mi intimorisce, mi onora – anche se non corrisponde a realtà, e mi fa pensare che avrei voluto dirle quanto poco in realtà ne sappia, soprattutto di fronte alla sua erudizione, alla sua chiarezza espositiva e al suo coraggio.

Ho recuperato un volume di Lo Gatto, una Storia della letteratura sovietica, perché so che la definizione vaga di “poeti della rivoluzione” non la convince, anzi, la respinge, ed è stato intenso tornare a pagine che avevo letto avidamente non troppi anni fa, cinque o sei, anni che sembrano essersi moltiplicati per via di quello che è successo nel frattempo, sia – banalmente – a livello autobiografico che, meno banalmente, a livello sociale, politico, culturale. Ecco Lo Gatto: “sul piano rivoluzionario, la rivoluzione non era avvenuta. Le origini di quello che sarà il campo letterario sovietico dei primi anni Venti si possono già individuare nel simbolismo”, in Gorkij, in Pietroburgo di Belyj…
Ma guardi, non ricordavo che l’avesse detto il grande Lo Gatto, che io ho avuto l’onore di conoscere quando andavo all’Università di Roma, lui veniva – già fuori ruolo – spesso alle feste che facevamo a Natale, il grande padre della slavistica italiana. Lo vado ripetendo da giorni e mi guardano come una matta, avessi saputo che c’è l’autorità di Lo Gatto… Certo, tutto ha inizio con il simbolismo, con la décadence, con questo improvviso aprirsi della Russia alla fine dell’Ottocento ma soprattutto all’inizio del Novecento, alle influenze che arrivano da Occidente, e come è solita fare la Russia (si pensi alla cristianizzazione), assorbe un influsso, un richiamo e lo rielabora in modo del tutto autonomo.
Il simbolismo in Russia assume delle connotazioni mistico-religioso-filosofiche che sono quelle che fanno anche nascere il pensiero filosofico russo di quegli anni. Si dice infatti che non esiste una filosofia in Russia, ma altroché se esiste. Se si prendono i grandi pensatori di inizio Novecento, se si considera quella specie di koiné in cui i filosofi, i poeti e gli scrittori agivano insieme, si scambiavano le proprie impressioni: penso ai discepoli del simbolismo, che tra l’altro riconoscevano l’autorità di maestri come Blok, o gli studiosi geniali dei meccanismi della lingua e della poesia come Belyj – su cui ho fatto la tesi di laurea… Di Belyj poi non è solo la poesia a svettare, è il suo pensiero che è grandissimo.

È difficile raccontare a un pubblico, a una persona che non si è occupata di queste pagine, come la tradizione letteraria russa in due secoli (Settecento e Ottocento) abbia preso tutto quello che si chiamava letteratura in Europa, condensandolo e arrivando al Novecento pronta per dire la sua.
La letteratura russa in quel periodo è esplosa. Fino ad allora era confinata alla religione, la narrazione era nata all’interno dei monasteri, poi per lungo tempo restò confinata alla nobiltà – neanche tanto tempo poi, mezzo secolo appena – e infine è scoppiata. Come comprendere questa esplosione? Esplode anche insegnando all’Europa, perché il grande romanzo russo ottocentesco a volte addirittura supera la tradizione europea. La Russia è un paese di enorme potenziale che in queste oscillazioni tra Oriente e Occidente riesce sempre a trasformare e rielaborare questo materiale che la trasforma in maestra. Come spiegarlo, sono i miracoli della storia, difficile riassumerlo in poche righe.

Un’altra cosa complicata è spiegare agli amici, a chi legge, quanto davvero sia affascinato e sconvolto dalla ricchezza del primo decennio della prima letteratura sovietica, tutto quello che è successo tra il 1917 e il 1929 (anno in cui iniziano a spandersi i tentacoli del Realismo Socialista). È successo di tutto.
Di tutto. Tenendo conto che la reazione alla crisi del simbolismo da parte di tutte queste persone che ci hanno affascinato… come dire, io stessa ho fatto l’errore di intitolare un mio saggio Avanguardia e rivoluzione, ma non è proprio così, le due cose non sono vincolate. Le avanguardie si svilupparono dalla crisi del simbolismo in un’epoca che poi visse il trauma della rivoluzione: Majakovskij, per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij. Per il resto fu un’ecatombe.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.

Facciamo un gioco, provo a tirare fuori i nomi di questi dodici geni, e lei mi corregge.
Proviamo.

Allora, immagino che ci siano Blok e Belyj.
Belyj non lo includo, parlavo di grandi poeti; però lo includo volentieri tra i geni. Se mettiamo anche i filosofi e i teorici del linguaggio poi superiamo la trentina di voci. Senza Belyj non ci sarebbe stato il formalismo, lo strutturalismo, Belyj è un genio della teoria del linguaggio. I romanzi sono straordinari, Pietroburgo, il ciclo moscovita… ma parliamo di poeti.

Mi affido alla memoria e al cuore. Majakovskij, Blok, Chlebnikov?
Un grandissimo. Riconosciuto da tutti come maestro. Vuole che le dica come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij, l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi, e parla di questo]. Continuiamo il gioco.

Poi c’è Esenin.
Grandissimo poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a trovare il suo spazio.

Dilaniato tra i due poli irrisolvibili, tra la nostalgia di una vita più dura e i bisogni di una città che non lo capiva.
Mosca non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura del teppista urbano nasce con lui.

Poi c’è Pasternak.
Pasternak è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago, le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate, come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita impossibile.

Siamo arrivati a Mandel’štam.
Su Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891–1938. Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira] Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam, diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non l’hanno mai toccata personalmente – anche se aveva sempre il KGB praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.

Ricordo la fila che viene versificata nel libro, e se non sbaglio dedica l’opera alle madri in attesa all’esterno del suo carcere.
Certo, lei racconta nella prefazione che qualcuno le si avvicinò mentre era in attesa di fronte a una prigione di Leningrado, e le chiese “lei sarebbe capace di descrivere tutto questo?”. Lei ci pensò un attimo, e disse: sì. Mi commuovo ancora adesso. Il Requiem è una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.

Così arriviamo al primo marito di Achmatova, Gumilëv.
Gumilëv, ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.

Vado con l’ultimo che mi viene in mente al momento, Chodasevic.
Un grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo] Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì, in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa, classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.

Collegamento nato anche grazie al comune destino di emigrata. Chodasevic l’avevo scoperto grazie a un libro incredibile, Necropoli.
Necropoli, il libro di memorie, ma le consiglio La notte europea, scriveva pochissimo, sul filo di questa linea puskiniana, però anche lui figlio dell’epoca, con quell’occhio terso, lucido sulla realtà che potevano regalare soltanto gli anni Dieci.

Uno dei preferiti di Nabokov. Chi stiamo dimenticando?
La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico. A quanti siamo?

Siamo a dieci.
Credo di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… – solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante. E poi c’è tutto il gruppo OBERIU.

La mia tesi era proprio su un racconto di Daniil Charms.
Charms e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo, del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico, terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di un patrimonio inaccessibile per l’Occidente. Ah, mi è venuto in mente il dodicesimo: Klujev.

Un altro poeta contadino.
Poeta contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento, per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è intraducibile, le sue radici antichissime.

La religione russa popolare presentava un lato mistico, quasi paganeggiante…
Certo, quella che veniva chiamata doppia fede, ne parla anche Esenin in un saggio. Dobbiamo ricordare che era un paese cristianizzato dal Mille dopo Cristo; è chiaro che chi dipende dal calendario agrario sovrappone le festività religiose a quelle del calendario agrario. Paganesimo e fede ortodossa si fondono in una miscela fantastica. Si tratta di documenti rari, ma se ancora adesso si va nelle foreste del Nord si trovano tracce di questa religione popolare, una doppia fede che non implica un’ambiguità, ma è caratteristica di una popolazione fortemente contadina – nella seconda metà dell’Ottocento il 90% circa dei russi era ancora contadino. Una tradizione monumentale che si è persa, e si trova ancora nella lingua di qualche nonna nascosta nella foresta.

Parlando di rapporto tra uomo/natura e prima letteratura sovietica, mi vengono in mente Bogdanov e Platonov, un altro gigante assoluto.
Un altro gigante. [ridiamo] Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici, quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo farci niente.

Oggi è il 7 novembre, considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono significare, per un russo, queste parole?
Niente. Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari… 150.000.000 fu giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi. Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un giovane Majakovskij che ha ancora non ha subito il verme della delusione.

Infatti è del 1919-20. Infine, grazie al potere della letteratura posso dire dove lei si trovava la sera di cinquant’anni fa. Si trovava nella casa di “un rivenditore specializzato in rarità editoriali” simboliste.
No no, quella era la mattina. Era uno di quelli che campava rivendendo agli stranieri cose come le icone, ovviamente delle croste, figure medio-legali che la polizia sopportava perché potevano sfilare qualche informazione. La sera invece vidi da in alto in alto, dal ventottesimo piano della NGU [sorta di mega-residenza universitaria, ndA], i fuochi… e la faccia di Lenin, enorme: poi ho scoperto il trucco, era sospeso da una specie di mongolfiera. Panem et circenses. Me lo ricordo bene perché in quei giorni facevano girare la vodka extra: uno scialo incredibile.

Uno scialo incredibile, nella migliore tradizione sovietica. La parte per il tutto.

    Il testo dell'intervista è stato pubblicato da “Il Tascabile” ( http://www.iltascabile.com/ ). Noi l' abbiamo ripreso dal blog di Salvatore Lo Leggio condividendone anche la breve premessa. (fv)

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