06 novembre 2017

SUL LINGUAGGIO GIOVANILE


“Prof, sei proprio un bufu!”. Breve viaggio attorno al linguaggio giovanile

di Rossano Astremo

Che bella l’etimologia del verbo insegnare! Insignare, composto dal prefisso “in” unito al verbo “signare”, con il significato di segnare, imprimere e che a sua volta riconduce al sostantivo “signum”, che significa marchio, sigillo. Il nostro lavoro di insegnante non è quindi solo un atto volto alla trasmissione del sapere, ma, stando all’origine del suo significato, un’attività più affascinante e articolata, che consiste nel segnare la mente dello studente, comunicandogli un metodo di approccio alla realtà, che va ben oltre lo studio finalizzato all’ottenimento di un voto.
Facendo riferimento alla mia esperienza di insegnante di letteratura italiana in un Liceo Internazionale nel centro di Roma, posso dire che gli adolescenti di oggi vedono nell’insegnante non solo uno sterile trasmettitore di nozioni, ma soprattutto una figura adulta con la quale confrontarsi sulle dinamiche complesse della loro età. Questo processo di comunicazione quotidiana che avviene da anni con i ragazzi di oggi mi ha condotto non solo ad avere consapevolezza dei loro desideri, delle loro aspettative e fragilità, ma anche di entrare in contatto con il loro linguaggio.
Quando si fa riferimento al linguaggio giovanile si tocca un tasto dolente per i linguisti.
La complessità dello studio del linguaggio giovanile è connesso alla sua repentina mutevolezza. Il linguaggio giovanile cambia in relazione a fattori cronologici, geografici e sociali. Il linguaggio che io ero solito utilizzare con i miei compagni di Liceo negli anni ’90 nella provincia di Taranto non ha nulla da spartire con il parlato dei miei studenti. Non solo, il modo di esprimersi dei miei studenti, liceali romani, è assai diverso dal punto di visto lessicale e fraseologico, rispetto al linguaggio utilizzato dai liceali di Milano, Bologna o Napoli. Infine, anche all’interno della stessa Roma, sono presenti differenze linguistiche, seppur non marcate – poiché comune è lo strato dialettale di riferimento – tra studenti di un Liceo del centro, come quello in cui insegno, e studenti di un Istituto d’Arte di un quartiere periferico. Chi si occupa di analizzare l’evoluzione del linguaggio giovanile deve tenere conto di questa aleatorietà del fenomeno.
Per chi volesse approfondire il discorso storico sul linguaggio giovanile in Italia dal secondo dopoguerra in poi, consiglio di Cortellazzo “Il parlato giovanile” presente all’interno del secondo volume della Storia della lingua italiana di Serianni e Trifone, edito da Einaudi nel 1994, e Scrostati gaggio! Dizionario storico dei linguaggi giovanili di Ambrogio e Casalegno, edito da Utet nel 2004. È interessante che Ambrogio e Casalegno nel loro dizionario utilizzino la definizione “linguaggi giovanili” e non “linguaggio giovanile” stabilendone la pluralità dei codici sottostante alle diverse variabili di cui sopra.
Dinanzi a questa molteplicità di linguaggi, in questo articolo mi soffermerò brevemente sulle particolarità lessicali e fraseologiche che mi capita di sentire quando mi trovo in classe, tra i corridoi e nel cortile della scuola, che appartengono alla comunità di adolescenti romani appartenenti alla media ed alta borghesia del centro. Quando alcuni termini mi risultano di difficile interpretazione, chiedo a loro di spiegarmene il senso, con qualche esempio d’uso che me ne delinei le sfumature. Questo per indicare un aspetto che completa il pensiero espresso nel paragrafo iniziale. Il rapporto insegnante-studente non è mai univoco, il processo di trasmissione di informazioni e sapere non deve mai essere verticistico, proveniente dall’alto verso il basso. Farsi contagiare dal mondo degli adolescenti può aiutarci ad aiutarli sia dal punto di vista accademico che dal punto di vista umano. Solo in questo modo si può segnare la mente di uno studente, portando a compimento il significato originario del nostro mestiere.
In sintesi, comprendere il linguaggio dei giovani d’oggi significa comprenderli meglio.
L’apporto principale del loro linguaggio di gruppo è dato dallo strato dialettale romano. Termini già storicizzati, cioè sopravvissuti al passare degli anni, fanno la parte del leone, da verbi quali abbioccarsi (addormentasi), accollarsi (appiccicarsi), imboccare (autoinvitarsi), paccare (baciare), piottare (correre velocemente), sostantivi quali appiccio (accendino), buffo (debito), ciospa (sigaretta), calla (bugia), e aggettivi come ciotto (muscoloso), pariolino (non credo necessiti di definizione) e sgravato (eccessivo).
A questi si aggiungono termini ed espressioni sempre provenienti dal dialetto romano che hanno una vita più recente, impischellato nel senso di fidanzato, buzzicozza, unione di buzzicona e cozza, chittese, espressione abbreviata utilizzata per indicare l’azione di non prendere in considerazione un altro individuo, spizzare, verbo con il quale si indica l’azione di controllare meticolosamente le pagine social di qualcuno, fugotto, che si usa per indicare una persona uscita di nascosto senza il consenso dei genitori durante la notte, chiusino, termine che indica chi sta sempre in casa e non ama uscire, mai ‘na gioia, espressione che indica qualcuno sempre di malumore.
Allo strato dialettale romano, che si muove tra tradizione e innovazione, è necessario aggiungere la forte presenza di forestierismi, molti dei quali provenienti dal mondo dei social media: whatsappare, snapchattare, instagrammare, verbi che fanno riferimento all’uso dei social media, likare, verbo che indica l’azione di mettere un like su Instagram (il social più usato dagli adolescenti oggi assieme a Snapchat), sharare (da to share), verbo che indica l’azione di condividere un documento elettronicamente, skippare (da to skip), verbo usato per indicare l’azione di saltare una lezione o un’assemblea, per indicare il proprio gruppo di appartenenza, al fly, sinonimo di “al volo”, easy (facile), per descrivere la facilità di una cosa, swag, usato per far riferimento a un modo di vestirsi o di agire originale (“Hai un cappello troppo swag”), fashionb, termine che indica una ragazza che ha stile nel vestirsi, trappare, verbo attribuito all’azione di ballare la musica trap (stile diffusosi in Italia con il successo della Dark Polo Gang). In calo, invece la presenza di pseudoforestierismi, termini che modulano il suono di lingue straniere pur non avendo nessun significato in quella lingua, molto diffusi negli anni ’80 con i paninari. L’unico rintracciato è sgravated, aggettivo anglicizzato del romano sgravato.
Nella definizione di questo linguaggio identitario, autoaffermativo e ludico è interessante l’utilizzo anche di alcuni acronimi, nati inizialmente nella forma scritta della messaggistica, ma ora diffusi anche nel parlato. Asap, acronimo di “as soon as possible” (“Ho bisogno di quella foto, asap!”), cbcr, acronimo di “cresci bene che ripasso”, usato per indicare una ragazza o un ragazzo che al momento è molto giovane, ma potrebbe diventare interessante con il passare degli anni (“Quella è una cbcr!”), acab, acronimo di “all cops are bastard”, originariamente utilizzato come slogan contro i poliziotti nei graffiti, ora anche utilizzato per definire un individuo fuori dagli schemi con tono ironico (“Hai buttato la cicca per terra, sei proprio un acab!), infine bufu, acronimo per la frase “by us fuck you”, coniata dalla Dark Polo Gang come offesa contro i loro hater sui social, utilizzata ora anche come sinonimo di nullafacente, essere inutile.
Eccoli qui, allora, questi adolescenti romani del centro, che non perdono il contatto con le loro origini dialettali, che passano molto tempo della loro giornata, tra un’ora di Matematica ed una di Storia, a oziare tra i social media, che ascoltano musica rap, hip hop e trap e da questa vengono influenzati non solo nel modo di vestirsi, ma anche nel loro modo di esprimersi.
Sarebbe interessante comprendere come il loro modo di esprimersi differisca dai ragazzi romani delle periferie. E, perché no, dai ragazzi che abitano in altri contesti del nostro Paese. È dalla decodifica del loro linguaggio di nicchia che può venire un dialogo più strutturato con loro. È parlando la loro lingua che noi educatori possiamo imprimere il nostro sigillo nella giusta direzione, senza spingere a vuoto creando solchi che restino inesplorati.

Da    martedì, 7 novembre 2017


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