08 novembre 2017

Invito alla lettura dell'opera di MARIO BENEDETTI



Mario Benedetti, Materiali di un’identità

a cura di Claudia Crocco

La nuova edizione dell’opera di Mario Benedetti, uscita il mese scorso, (Tutte le poesie, Garzanti) ha il merito di rimediare alla scarsa reperibilità dei suoi libri: Umana gloria (Mondadori, 2004) è da tempo fuori commercio, così come Pitture nere su carta (Mondadori, 2008). L’elefante Garzanti, inoltre, ha il pregio di dare rilievo a un poeta ancora non studiato a sufficienza da un punto di vista critico. Ora che le sue opere sono tutte disponibili in un unico volume, che comprende tre introduzioni (di Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta, Antonio Riccardi), gli studi sulla poesia di Mario Benedetti potranno riprendere slancio, e le ricognizioni generali sulla poesia contemporanea avranno un motivo in meno per ignorare la sua opera.
Tuttavia va detto che questi non sono tutti i libri di Mario Benedetti. Mancano le prime raccolte, quelle precedenti Umana gloria (che in gran parte, però, sono confluite nel libro del 2004), e soprattutto manca una delle più recenti, Materiali di un’identità (Transeuropa, 2010).
I Materiali sono un libro eterogeneo, non facile da classificare come poesia; forse per questo motivo sono stati scartati dalla selezione di Garzanti. Allo stesso tempo, si tratta di una delle opere di poesia più sperimentali degli ultimi anni. È un prosimetro (così lo definisce Fabio Magro qui), oppure un libro di poesia in prosa, come già molte delle opere di Benedetti, ma in forma estremizzata. Vi si alternano capitoli quasi saggistici – ad esempio quello su Rilke o quello su Michelstaedter, al quale Benedetti aveva dedicato una tesi – ad altri contenenti versi che anticipano il libro successivo (Tersa morte, Mondadori 2013); alcune pagine sono impossibili da ricondurre a un solo genere letterario: troppo personali o liriche per essere ricondotti al saggio, troppo filosofiche e prosastiche per essere poesia. Materiali di un’identità è un libro in cui verso e prosa, meditazione e autobiografia si intrecciano di continuo. Basti un solo esempio:
Io sono per te «un dei tanti, come un altro sarebbe/ che per nome e per vista conoscessi», «Ti sono questo corpo e questi suoni» e il tuo aggirarti «fra gli uomini» tra i quali «con questo parli ed a quello t’affidi» perché semplicemente vivi «fra l’oggi e il domani e questo e quello», scrive Carlo Michelstaedter nel poemetto A Senia. E l’impossibilità di assolutamente “consistere” (la «pretesa dell’assoluto» michelstaederiana, un Assoluto puntiforme, egoico – «io non sono per te “io”, la mia vita,/ io, questa mia volontà più forte» – che troviamo in La persuasione e la rettorica) ed in modo angoscioso l’inammissivilità della propria interscambiabilità (a livell pulsionale se il Senso, in definitiva, si riduce a questo o proviene da questo). Ma per me è gelosia indiscriminata, presenza-specchio negli altri che mi diffrange.
II
La bellezza delle lacrime. La trasparenza.
Tutto è vicino e lontano.
Io a frammenti di te, di noi.
Progetto di vita in cui non saremo,
non siamo, non fummo.
«Sai» non è un «tu», eppure è da lì.
Bocca sul catino. Non ho madre.
Padre, di me stesso padre. Sul cielo stellato.
Che cos’è questa poesia? L’ho scritta suggestionato da Bataille, rimontando parti: “Il supplizio”, secondo capitolo del libro L’esperienza interiore. Si capisce? Il mio testo, intendo.
Questi paragrafi sono tratti dal primo capitolo. Nelle pagine successive Benedetti spiega la propria idea di poesia come «estremo del possibile»; oltre a Bataille, a Rilke e a Michelstaedter, cita o commenta Celan, Beppe Salvia, Houellebecq, Bonnefoy; descrive scene di violenza erotica, ricorda episodi autobiografici. Il terzo e il quarto capitolo hanno un incipit quasi identico: «Scrivo con tipologia testuale saggistica quasi tutto il seguente capitolo»; «Scrivo con tipologia testuale saggistica tutto il seguente complesso capitolo». L’autore rispetta questa premessa solo in parte, perché le ossessioni dei poeti che commenta sono anche le sue; inoltre spesso la prima persona poetica fa irruzione nel discorso saggistico in prosa. Nel capitolo VIII; ad esempio, in un frammento viene commentata la telefonata con la quale all’autore viene annunciata la pubblicazione del libro che sta scrivendo.
Materiali di un’identità cerca di rappresentare la realtà come «compresenza di pezzi tra loro slegati, ossia che non hanno senso, che coesistono senza che si cerchino le spiegazioni delle loro relazioni reciproche», e lo fa mimando l’eterogeneità con la sperimentazione formale. È un libro difficile, complesso, ma non privo di una logica interna. Uno dei capitoli di cui si compone comprende un’intervista che gli ho fatto nel 2009: ne ripubblichiamo qui una nuova versione, insieme al suo prolungamento, ovvero un breve dialogo del 2012. Speriamo che queste pagine siano d’aiuto per gli studi futuri su Benedetti, affinché si comprenda che la sua poesia in apparenza regressiva, volutamente sfuggente alla logica del discorso ordinario, è in realtà il risultato di una riflessione sul senso della vita e sulle possibilità epistemologiche della scrittura.

(Maggio 2009)
Ho letto in un blog un commento nel quale era dato rilievo a due poesie di Pitture nere su carta: Supernove1 e 2. In entrambe si ripete un verso, almeno un paio di volte: “Eco di luce che non da sé è vera.”
Sì, certo. È Dante , nel Paradiso, con il cambiamento del «non». Nel Paradiso si legge «che da sé è vera»: il mio cambiamento , l’inserimento del «non», si spiega perché, attraverso gli strumenti che la tecnologia ha, oggi possiamo vedere gli astri, l’universo, con una luce – l’eco – che è quella che le macchine ci permettono di avere. Osserviamo l’universo con dei filtri, per cui la luce che per Dante era in sé, divina etc., per noi è filtrata da macchinari costruiti dall’uomo. L’eco è quella «scientifica», lasciata dalle esplosioni delle supernove, che si può osservare con dei filtri; e non è la stessa  di cui parlava Dante. Poi ci possono essere particolari per cui una stella è vista in maniera distorta, attraverso questi schermi.
Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.
Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.
Vorrei parlare di quello che in un tuo verso hai definito «il tempo senza tempo».  In Umana gloria si nota ancora la presenza della storia. Nelle Pitture nere, invece, la dimensione temporale sembra del tutto assente, statica, nonostante l’articolazione in capitoli dia una forma di architettura e di ordine consequenziale ai testi. Il tempo sembra sottratto alla poesia, e alle sue parole. Una mia ipotesi è che ciò avvenga perché l’obiettivo è quello di esprimere una condizione umana eterna. Il dolore e la morte, che tu cogli per barlumi, ci sono sempre, per tutti.
Alcune esperienze sono nel tempo, ma sono vissute come se fossero senza tempo: ad esempio l’innamoramento o il dolore per una grave perdita. Il fatto che siano nel tempo ne relativizza l’importanza, nonostante siano cose molto forti. Per cui io cerco di testimoniare, di dare un senso a quello che facciamo e che siamo; così che il senso che c’è, per esempio in questo momento fra noi due, non si vanifichi.  Ma non sono sicuro di poterlo fare,  né che lo si possa fare, cioè che abbia un  senso di portata notevole. Io mi sento in bilico – credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo sempre fratture, scrivo per fratture. Mi sembra che non ci sia la possibilità di dire: «È vero così, è giusto così». Io penso che ogni mia poesia non chiuda niente.
Prima abbiamo parlato di Franco Fortini e delle sue opere. Ecco, con Composita solvantur è diverso: esprime ancora una visione del mondo, che proviene da una cornice ideologica molto presente in tutta la sua poesia. È più… com’è che dicevi prima? Hai usato un termine che mi sembrava perfetto.
Mi sembra di aver detto «disseccamento» o «disperazione».
 Sì, ma è una disperazione orientata. Avendo una sua prospettiva ben precisa, è orientata. La mia no.
In quest’ottica qualche accenno di presenza della luce può esserci in Supernove. A me vengono in mente anche due poesie su cui mi ero soffermata in Umana Gloria: Ferma vita e Matrimonio al rifugio Fodara-Vedla. Mi aveva colpito in generale l’elemento salvifico, di speranza, per esempio quando dici: «[…] E più da vicino/qualcuno guarderà il bene,/ anno dopo anno, da quello che c’era a questa casa nuova».[1] Oppure: «Nessuna storia toglierà le erbe alla roccia,/ un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria/ perché altri vivano e chiedano dopo di noi/ le nostre stesse cose:/ com’era per loro che erano tutto,/ innalzati sopra la terra?/ Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,/ la pelle ai vestiti./ Difendiamo anche nella disputa le nostre vite […][2]».
Nel caso del matrimonio in questo rifugio (quello descritto in Matrimonio al rifugio Fodara Vedla), sembrava una cosa bella in sé, e lo è. E va bene, riconosco un valore alle cose, ma è attribuito da noi. Voglio dire che allargando lo sguardo ci si rende conto del fatto che è tutto molto più relativo. Io sento che comunque il senso è da circoscrivere.  Ad esempio, per un uomo che sta morendo ma che si è fatto da solo una casa, ha dei figli (si parla di questo nella poesia Ferma vita), ovviamente la sua vita ha un senso, ma solo se lo circoscrivi.
E quindi la poesia cosa fa? Commenta?
La poesia testimonia e commenta, ed è in bilico fra il non riuscire, perché il suo piano non riguarda l’esperienza ordinaria di vita che grosso modo è quasi tutto, e il farlo comunque. Per cui l’orizzonte poetico è più vasto e ha un tempo che è più vasto, ma che sembra non appartenerci se non come costante aspirazione ad una salvezza.
Io credo molto in una funzione della poesia come commento a ciò che accade, a ciò che è essenziale per chi vive. Per alcuni poeti la lirica è principalmente un veicolo di amplificazione della propria dimensione interiore; per altri è, appunto, una lettura del mondo. Anche questi ultimi, tuttavia, spesso scrivono in un modo estremamente complesso, allegorico, oscuro. Cosa ne pensi?
Io non credo che sia incomunicabile quello che sento. E credo che non sia una questione linguistica. La poesia è diventata più oscura, perché sono stati eseguiti dei lavori sul linguaggio pensando che la poesia stessa fosse linguaggio, o che ne fosse l’oggetto. Per me, invece, l’oggetto è l’uomo. Certo che si scrive attraverso la lingua; ma attraverso un linguaggio devi dire qualcosa che riguardi il senso della vita, dello stare nell’universo, del morire e del vivere. Questo lo fai attraverso la scrittura; ma la scrittura è un mezzo, il suo oggetto la oltrepassa. Come guardarsi negli occhi: noi ci guardiamo e possiamo intenderci, attraverso gli occhi. Io ti do una parola, tu mi dai uno sguardo; e attraverso questo si crea una comunità, un’umanità. Ma  è tutto povero in sé, finchè non viene interpretato, fermato, commentato. Allora il valore, se vuoi, rimane sempre nella poesia, alla fine – nella scrittura, nella storia della parola…  Ma è tutto  così povero, lo vedi.
La pittura cupa e materica delle Pinturas negras di Goya (evocate nel titolo) sembra avere un corrispettivo efficace nei tuoi versi in Pitture nere su carta. In quel libro, così come in Umana gloria, compaiono moltissimi riferimenti alle arti figurative. Quanto è importante la dimensione visiva, per la tua poesia? E con quali artisti senti più affinità?
La poesia è visiva, per natura. Infatti, l’arte che le si avvicina di più è la pittura, e la musica poi certamente.
A volte mi sento vicino alla Land Art, agli interventi sull’ambiente: gli artisti che usano il paesaggio, anche umano, e lo trasformano in qualche modo. E poi alla Video Art: Bruce Nauman, per esempio. L’importante è che l’arte abbia a che fare con l’uomo, con la materia, ossia con l’umanità; che sia plastica, come deve essere la poesia. Questo non è contraddittorio con quello che ho detto prima. Perché il limite, l’incertezza, la situazione di confine c’è perché c’è la materia. Se non ci fosse, non ci sarebbero tante percezioni differenti ad esempio, come nella poesia sulle supernove. Io mi pongo il problema  a partire dalla presenza della cosa, dalla sua matericità: è questo che rende il mio modo di sentire la vita incerto, provvisorio al limite.  Provvisorio è, per definizione, ciò che è, ciò che è terrestre.
Molto spesso alcuni artisti partono dalle cose, per rappresentare qualcosa di non immediatamente visibile – a partire da Leopardi, ad esempio.  Tanta poesia tende ad un altrove, e si pone come tentativo di rappresentarlo. Si potrebbe intendere così anche la tua poesia: come volontà di dar voce alle cose , a quello che c’è, per fermare su carta quel che non è immediatamente percepibile da chi quelle cose le vive e basta, da chi magari su quella strada cammina tutti i giorni come mezzo.
L’arte, l’esito dell’arte è questo. L’altrove non è mai raggiunto. Non so se si allude a un altrove perché si vuole che ci sia, oppure se l’alludere sia l’atto salvifico delle cose. Ma se non ci si pone il problema dell’altrove, dell’invisibile, dell’indicibile, non si riesce neanche a vedere le cose veramente. L’altrove e il visibile sono due cose diverse: ma quello che non è immediatamente visibile è ciò che rende visibile ciò che è. Questo tipo di poesia è difficile, rischioso.
Questo secondo me è il senso delle Pitture nere: solo attraverso una forma di sentire estremo è possibile la conoscenza di qualcosa. Dopo un limite così estremo, cosa si può fare? In altre parole: cosa cerchi di fare ora, con la scrittura?
Ormai quel libro l’ho concluso tre anni fa. Intanto ho scritto varie cose. Il rischio è di rendere il discorso  un po’ troppo disincarnato, e non lo vorrei… Una cosa a cui penso è di riprendere Umana gloria. Però, se lì c’era una linearità, una storia nelle poesie, ora vorrei «sconnetterle» molto di più.
Mi sembra che la prima poesia di Pitture nere contenga già tutto quello che hai detto: sia il movente materico (i sassi, la terra, e così via), sia la «muta del sangue nero», che sembra presagire la cupezza e la presenza di riferimenti al sangue e alla morte, sia il fantasma del padre:
Torna morta la carne che si indora, la muta del sangue nero.
La zolla dei sassi, diradati dopo il rumore, è tutta la terra.
Hanno chiamato arance le anatre, fuori dai cappotti, sul lungosenna.
Tentano ancora, dopo il tramonto, nella bufera dei loro occhi.
Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino.
Promisero agli scolari il cielo che si vedeva.
Niente di questo è vicino. Va dura la mano
sulle tue spalle bianche, i piccoli denti, nel tuo sorriso.
Dagli uomini agli uomini va, imposto a credervi.
Questo anno Santa Lucia era mio padre, col suo fantasma.
Perché l’hai scelta come poesia iniziale?
L’ho scelta perché ho iniziato a scrivere dopo Umana gloria , che è fatto di storie ed è totalmente diverso. Poi, finito il libro, mi sono accorto che era compatto, omogeneo. Ma quella poesia permette un raccordo con Umana gloria. È come se non facesse parte del libro in sé.
Ma lo preannuncia.
 Sì, infatti ci sono anche altre poesie di quel tipo. Ho scelto quella perché ha il verso un po’ più spezzato di Umana gloria, ma si avvicina. Come contenuto ricorda Paul Celan, mio padre, la tomba (zolla, sassi). Quando parlo delle arance, è proprio Celan.
È una cosa folle, impossibile: ho pensato a Paul Celan sulla Senna, nell’atto di gettarsi. «Hanno chiamato arance le anatre»: le anatre sono sulla Senna, ma le arance non credo. Poi «fuori dai cappotti»: fuori dagli indumenti.  Si lega a «la bufera dei loro occhi». Una specie di follia, no? La bufera degli occhi che non vedono bene le cose: uno che si suicida nella Senna per me ha una bufera negli occhi. «Tentano ancora, dopo il tramonto»: cioè ci provano ancora, di notte. Poi è importante «nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino». Infine, «promisero»: il soggetto qual è? È impersonale. Uso spesso questi soggetti stranianti. «Promisero agli scolari il cielo che si vedeva»: ma chi? Gli insegnanti, il pensiero comune.
Quindi una tradizione culturale, in qualche modo?
Sì. Però poi «niente di tutto questo è vicino».
Ma in Umana gloria dicevi:  «qualcuno guarderà il bene».  Mi sembra che il discorso si raccordi, solo che qui il cielo si fa più lontano?
Forse sì. Poi c’è «Quest’anno Santa Lucia era mio padre». Per noi Santa Lucia è  il giorno in cui ai bambini fanno i regali. E mio padre era, non è più – ma qui è ancora, con il suo fantasma.
Cioè nel mio presente di adulto, il padre che in segreto donava i giocattoli diviene una presenza di fantasma.

(Agosto 2012)
Sono passati quattro anni da Pitture nere su carta, e ho l’impressione che la tua poesia sia effettivamente cambiata molto. Provo a formulare qualche impressione. Nei nuovi testi tornano i versi lunghi, le ‘storie’ e i paesaggi di Umana gloria; tuttavia sono permeati da toni più cupi, e da un senso di morte sempre più forte e acuto. Da un lato questo si concretizza in figure, fantasmi, morti che escono «al guinzaglio». Dall’altro è sentito come orizzonte consustanziale a qualsiasi forma di vita. La dimensione luttuosa era un aspetto certo già presente nei libri precedenti (soprattutto in Pitture nere), ma ora è diventato dominante. La necessità di una parola poetica viscerale, che tenti di rappresentare ciò che è più importante per l’esperienza umana, coincide con il parlare della morte?
La morte non è la cosa più importante per l’esperienza umana, penso che si possa personalmente non incontrarla mai o eluderla, facendo finta, e fortificando tutte le nostre azioni attraverso cui vivere ottimamente. Anche se la morte lavora nascostamente (e si dice che produca: la cultura, le religioni, ecc.) possiamo non avere di questo la minima consapevolezza. Se rimango nella mia piccola esperienza, il morire è un fatto traumatico che mi ossessiona ed opprime, cancella banalmente e drasticamente tutto, proprio come se il genere umano non fosse mai esistito, ed ovviamente paralizza. L’osservazione del decesso delle persone più care ha reso più acuto questo sentimento.
Nelle poesie che ho letto la coscienza della finitudine è complementare ad una necessità altrettanto impetuosa di nominare le cose, di aderirvi e di mostrarle nella loro magmaticità e scomposizione. Mi vengono in mente alcuni versi della nona elegia di Rilke, alla quale dedichi un saggio nel tuo ultimo libro pubblicato da Transeuropa: «Ma perché essere qui è molto, e perché sembra / che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste/ effimere/ che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri» Queste parole mi sembra siano confermate da alcuni tuoi versi, con cui si conclude uno dei testi di Biosfere, nell’ultima sezione di Materiali di un’identità: «Lo so,/ che tutto è qui, adesso, con tutto quello che c’è, di me e di noi».  È ancora la direzione verso cui stai andando con le tue poesie più recenti, che confluiranno in un nuovo libro?
No. Tra l’altro il pensiero direi esaltante, contenuto nell’affermazione «essere qui è molto», non lo coltivo più. Nomino le cose perché sono le cose che muoiono, le cose sentite come nostre in quella patina sensibile dell’umano che le rende familiari e concrete (da qui forse il privilegio dato alla vista o al tatto).  Poi, il fatto di avere scritto «tutto è qui, adesso» lo sento in questo periodo come una banale costatazione: certamente tutto è qui e tutto sarà sempre qui; è stata un’ inadeguata, arrogante affermazione.
Nelle nuove poesie è ancora visibile un’urgenza forte di definire le cose attraverso lo sguardo, attraverso un tipo di visione che è un tutt’uno con la parola, alla quale è legata la possibilità stessa della poesia. La poesia è vedere: «Le parole sono nelle storie che mi hai fatto vedere./ Quanto non è visto, e quanto non si dice oggi!», si legge in uno dei testi pubblicati su Le parole e le cose. Tuttavia in un verso di un anno fa è scritto che «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole». L’invadenza della morte crea un limite alla parola?
Sto scrivendo, un po’. Mi sembra un compianto in morte anche delle parole: mi sembrano sterili e futili, tanto più se aspirano a farci credere, parafrasando Andrea Zanzotto, di meritarci un bell’essere.
Recentementee non per la prima volta sei tornato a parlare di crisi e perdita di identità della poesia. Dopo quattro anni dal nostro ultimo colloquio, non ti sembra che la poesia e il dibattito sulla poesia stiano vivendo una stagione migliore, anche grazie alla diffusione e alla critica online?  Tu stesso hai pubblicato soltanto su internet, fino ad ora, alcuni tuoi testi inediti, e ti servi molto del web. Un futuro in cui le poesie non circoleranno più  su supporti cartacei ti sembra necessariamente peggiore?
Vivo la situazione attuale. La pagina cartacea, il libro da leggere, richiede uno scarto, una discontinuità dal tempo ordinario che la società odierna sembra annullare. Ognuno spera di operare bene. Ma la storia forse ci sovrasta.

Pezzo tratto da  http://www.leparoleelecose.it/?p=29743
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