05 novembre 2017

CHE GUEVARA E' ANCORA VIVO







Che Guevara: perché ancora ha valore quella lotta

di Francesca Coin

Ho scritto questo testo nel dicembre 2009, durante un lungo viaggio in America Latina. Era parte di un testo di racconti a questo affini che non ha mai (ancora?) visto la luce. In occasione del cinquantesimo anniversario dell’uccisione di Che Guevara, ho pensato di riprendere questo breve racconto, puntellato dalle parole di Osvaldo Chato Peredo, per rendergli omaggio. Poiché il testo non è stato ritoccato, le considerazioni qui riportate risalgono a poco meno di un decennio fa.
Un caro ringraziamento va a Gennaro Carotenuto per la generosa lettura e i preziosi consigli.

How does it feel to be a symbol?
Un simbolo de que?
A symbol of the revolution
Lo unico que le puedo decir
es que estavamos muy conscientes
de que representavamos la esperancia
de una america redenta
– Che Guevara
Entro in Bolivia via terra da La Quiaca in un viaggio estenuante lungo circa 2000 km. Arrivo con un ritardo di due giorni poiché è impossibile in Bolivia prevedere quale sarà l’orario di arrivo se non di partenza. La prima immagine che ho della Bolivia è quella di piccole strade che spezzano la maestà dei monti in gallerie naturali grezze di soli 10 centimetri più larghe dello spessore degli autobus che si attorcigliano lungo curve di terra a balze sulla foresta tropicale sotto le nuvole basse e sopra i monti. In Bolivia la gran parte delle strade non è asfaltata, le strade sono cumoli di ciotoli o sabbia che indomite si arrampicano sino al cucuzzolo delle più alte vette, una cosa improbabile in un paese di imponente ricchezza naturale perforata dai minatori sino alle viscere. Bisognerebbe chiedere scusa tutti giorni a Potosì, scriveva Edoardo Galeano, descrivendo una delle montagne più alte e ricche al mondo, la miniera che ha fatto la ricchezza del Nord America e dell’Europa nutrita da fiumi di lacrime e sangue.
A Santa Cruz mi attendono il Chato, la moglie Circe e l’enorme famiglia. Il Chato mi riceve con due baci affettuosi. Guardie del corpo, polizia, e la vigilanza mi scortano a casa da Circe.
Circe mi riempie un bicchiere di foglie di coca organiche e alcol puro. Sono a digiuno dal mattino. Perdo il conto dei figli. “Il Mas il Partito di Evo ha avuto il 63% dei consensi alle elezioni di dicembre”, dice il Chato. Il Chato è Osvaldo Chato Peredo, oggi consigliere nella ricca e reazionaria provincia di Santa Cruz e dal giorno del suo inizio nel 1995, anno in cui proprio a Santa Cruz si riunì il primo Congresso Indigeno-Campesino, leader del Mas, il Movimento al Socialismo che in quel 1995 per la prima volta decise l’auto-rappresentazione indigena e che è oggi partito al governo nel Paese. Il Chato è l’ultimo di cinque figli, una femmina e quattro maschi, e i tre fratelli sono Antonio, che è ancora vivo ed è attualmente senatore del Mas a La Paz; Inti e Coco, morti al fianco del Che durante la campagna di Bolivia. Chato prenderà in mano l’esercito del Che dopo la sua morte e dopo la morte di Inti. Il diario del Che è pieno di riferimenti ai due fratelli e delle parole di Fidel, che si riferiscono affettuosamente ai Peredo come a hermanos, fratelli, compagni fidati anche nei momenti più difficili.
Chato mi ospita a casa sua, spesso e volentieri accompagnati dalla scorta della polizia e le guardie fuori dalla porta, tra i racconti intimi della guerriglia, delle bombe che han dato fuoco alla sua casa lo scorso anno, dei libri sui suoi scaffali segnati dalle dediche affettuose di Mario Benedetti e Luis Sepulveda, delle immagini commosse del Che e dei fratelli. È ovvio che tra queste pareti, nelle foto appese ai muri di Coco e di Inti, nella casa disseminata di documenti del MAS, si cela più storia di quanta io ne capisca.
In casa del Chato si parla solo di politica, e politica significa due cose: Evo e il Che. “Oggi continuiamo quello che avevamo cominciato con le lotte dei Tupac Katari con il Che e i miei fratelli”. Il Che l’aveva detto chiaro già nel 1964 quando ancora l’Occidente era legato al paradigma accademico per il quale la rivoluzione l’avrebbero fatta le masse operaie. Il Che allora dichiarava che: “questa epopea che abbiamo davanti la scriveranno le masse affamate degli indigeni, dei contadini senza terra, degli operai espropriati”. Non le masse operaie, o almeno non solamente: è nelle campagne indigene e contadine che nascerà la rivoluzione. Da questa tradizione nasce il MAS, dice Chato.
Era il 1966 quando il Che, insieme a Inti e Coco e ad altri 49 guerriglieri, parte per la provincia di Santa Cruz nel Sud Est della Bolivia, nel tentativo, come scritto nella Dichiarazione dell’Havana, di accendere la ribellione su tutta la scala del continente a partire esattamente dalle valli orientali boliviane. L’idea era di situare il processo rivoluzionario in Bolivia. Il precedente era quel famoso 1959, quando i fratelli Castro, il Che e Camilo erano tra i tredici dei 102 guerriglieri imbarcatisi dal Messico alla volta di Cuba ad essere sopravvissuti alla repressione a tappeto di Batista. Erano in tredici, ma con il sostegno della popolazione locale avevano ingrossato le proprie fila sino, in quel famoso primo gennaio, ad occupare contemporaneamente l’Havana e Santiago costringendo così Batista alla fuga. Con questo modello nella mente e rinunciando a tutte le sicurezze della vita a Cuba il 3 novembre del 1966 il Che era partito per la capitale boliviana La Paz con il passaporto uruguayo intestato a Adolfo Mena González e le vesti di un commerciante. Le foto lo mostrano magro, con occhiali, le sembianze esili.
Parto per la Higueras e porto con me un vecchio libro di Inti, il fratello di Chato, “Mi Campana con el Che”, comprato in edizione pirata in una bancarella boliviana. Circe lo prende mentre il Chato si fa cupo. Nelle foto c’è tutta la famiglia: c’è la mamma del Chato con Inti e Coco piccoli, Inti con il Che, Inti con suo figlio Ramulito, Inti con la moglie Matilde. Poi Circe mi racconterà la storia di Matilde, sposa legata al marito da un amore tale da vivere ancora del suo ricordo, e solo di quello.
Il 1952 è l’anno che divide la storia boliviana dalla preistoria, dice Chato. In quegli anni il Partito Comunista boliviano si radicalizza, il segretario generale di allora è Mario Monje Molina, lo stesso che poi a Nancaguazù tradirà il Che e nelle sue fila c’è Inti, fratello del Chato a quel tempo diciottenne. La sinistra boliviana in quegli anni è divisa: da una parte c’è chi dice che si può arrivare a una insurrezione generalizzata, come sarebbe avvenuto a Cuba, mentre dall’altra c’è chi dice che le masse popolari non son pronte, che si sarebbe arrivati a una guerra civile e a uno scontro duro con l’esercito. Nel 1952 il Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR) con l’appoggio decisivo dei lavoratori delle miniere prende di sorpresa l’esercito e il 15 aprile prende il potere. Sono mesi, quelli, di grande tensione nei quali la radicalizzazione delle forze popolari e la determinazione del sindacalismo emergente dentro le fila del MNR incontra continuamente la repressione dell’esercito e dell’oligarchia patinista. Nell’aprile 1952 l’insurrezione popolare di massa sconfigge l’esercito che viene sostituito da milizie popolari di minatori e contadini, mentre a La Paz inizia a formarsi un governo provvisorio che nel tempo nazionalizza le miniere, introduce il suffragio universale e destituisce il latifondo, sino a emanare nel 1953 una importante riforma agraria. Si tratta, tuttavia, di anni di grande tensione nei quali i continui cambi al governo hanno un forte impatto destabilizzante che si estrinseca dodici anni dopo quando un comando militare destituisce Paz Estenssoro e porta al potere il generale René Barrientos Ortuno. E’ in quel contesto politico di instabilità e insofferenza che nel 1966 i guerriglieri guidati dal comandante argentino-cubano Ernesto Che Guevara penetrano la zona di Nancahuazu. Il 7 novembre 1966 i guerriglieri guidati dal Che entrano nelle valli Boliviane – al suo fianco erano tra gli altri Coco e Inti e una sola guerrigliera, Tanya. La Bolivia era stata scelta per molte ragioni, che vanno dalla grande inquietudine politica di quegli anni alla sua collocazione geografica. La Bolivia è situata nel centro nevralgico del Sudamerica in una posizione privilegiata per incendiare la rivoluzione in tutto il continente. In “La guerra di guerriglia” Che Guevara aveva teorizzato precisamente questo, che fosse possibile innescare una rivoluzione anche partendo da piccoli gruppi insurrezionalisti. A questo fine erano arrivati in Bolivia cinquantadue guerriglieri. Fuor d’ogni teoria, vorrei ripetere il numero: 52.
La figlia di Chato Selma critica l’attenzione occidentale alle difficoltà di quei giorni: “la fame, la malattia, la sofferenza del Che sfiancato dall’asma e senza medicinali, tutti questi”, dice, “sono traumi che l’esercito ha affrontato, ma non bisogna farne degli eroi, qui in Bolivia la fame e la malattia sono un problema di tutti e tutti noi cerchiamo di sopravvivere. Non glorifichiamo chi resiste”. Di sicuro le sofferenze fisiche del Che e dei compagni feriti, la fame atroce e la ricerca di cibo, l’autocritica per l’incapacità di uccidere “due soldatini avvolti da una coperta”, o di resistere allo stress psicologico, tutto questo aumenta sino agli ultimi giorni, come il Che riporta nei dettagli nel suo diario, quando tra il settembre e l’ottobre 1967 l’esercito regolare accerchia il suo esercito e i guerriglieri. Per prima cadde la retroguardia di Joaquin. Seconda cade l’avanguardia di Coco Peredo, mandata in esplorazione. Per ultimo gli uomini del Che vengono accerchiati e sterminati in una gola della montagna vicino a La Higueras.
Fa un certo che trovarsi a La Higueras. Leggendo i suoi diari colpisce che non ci sia mai una parola di critica negli scritti del Che – solo autocritica. Non una riga contro “i pseudo-rivoluzionari, gli opportunisti e i ciarlatani che si autodefiniscono marxisti, comunisti o in altro modo per una questione di stile”. C’era al contrario una straordinaria accettazione di tutti i limiti umani fuorché dei propri. In questo senso vi è una completa disposizione all’avversità e al sacrificio: “il Che considerava la sua morte come qualcosa di naturale o anche probabile nel processo e si sforzò di sottolineare specialmente negli ultimi documenti che questa eventualità non avrebbe impedito la marcia inevitabile dell’America Latina verso la rivoluzione”. Nel suo messaggio alla Tricontinentale dice chiaramente che “in qualunque luogo ci sorprenda la morte essa sia benvenuta, sempre che questo nostro grido di guerra arrivi ad un orecchio ricettivo e che l’altra mano si tenda sempre per impugnare le armi”. C’è un che di sublime e terrificante in questa accettazione a-dualistica della vita in tutti i suoi aspetti, vita e morte, austerità e estasi, rivoluzione e martirio, quasi che prima ancora di voler trasformare il mondo ci fosse la convinzione di dover sacrificare se stessi per compensare l’inedia di chi non sarà mai disposto a farlo.
Il Chato mi mette in contatto con dei compagni di Valle Grande a circa sei ore da Santa Cruz, e de la Higueras ad altre quattro cinque ore da Vallegrande. Vallegrande: lo dice il nome, è una valle infinita. Enorme immensa. Deforestata, sottopopolata, visibile, conservatrice. Ad osservarla ad occhio nudo parla di un’impresa temeraria e impossibile, quasi ridicola di fronte all’enorme l’obiettivo che si eran dati. Incendiare la rivoluzione a partire da un piccolo gruppo di combattenti in quella valle enorme e deserta, quale ferreo idealismo aveva sconvolto l’animo di questi guerriglieri! La chiave per la vittoria era l’adesione attiva del popolo indigeno. I campesinos indigeni oppressi si sarebbero dovuti avvicinare ai guerriglieri aiutando così a risolvere molte delle difficoltà di quei giorni, per prima la fame, replicando quanto avvenuto a Cuba. Ma il contadino dell’Oriente boliviano non è il rivoluzionario cubano, al contrario si rivela subito dopo l’inizio della campagna quasi una spia da cui difendersi. “Il compito più importante è squagliarsela”, scriverà Guevara a fine settembre, una settimana prima di essere catturato.
Ripercorro con Anastasio i luoghi in cui il Che è stato catturato vivo e poi ucciso brutalmente. L’intera campagna, vista con occhi odierni, è talmente improbabile da gridare all’eroismo o alla follia, senza soluzione di continuità. L’idea dei 52 guerriglieri che volevano liberare il Sud America dall’imperialismo a partire da quella valle sterminata e deserta della Bolivia, terra simbolo del colonialismo, per innescare la sollevazione popolare in tutto il Latino America, è, vista con gli occhio odierni, a tal punto improbabile da essere esattamente per questa ragione eloquente circa la generosità temeraria di quei combattenti e la priorità condivisa di una rivoluzione urgente. Tragicamente, sarà proprio questa fiducia a rivelarsi il punto debole di quel grandioso progetto, nel momento in cui a Vallegrande arrivano decine di aerei militari. In questo paesino che oggi avrà 2000 anime, tutti, in questi giorni del 2009, si definiscono Guevaristi. Ma a quei tempi nessuno lo era. Che Guevara allora era uno straniero e il suo scarno esercito rivoluzionario veniva interpretato come un gruppo di pericolosi invasori da cui guardarsi le spalle. E’ così che l’8 ottobre 1967 il reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano supportato dagli Stati Uniti invade la Higueras, per catturare il Che e farlo prigioniero nella scuola del paese. Tempo dopo il capitano dell’unità dell’esercito boliviano Gary Prado Salmón racconterà di aver catturato due prigionieri e di aver riconosciuto Che Guevara per la cicatrice alla mano destra. Le sue condizioni erano di grande deperimento e i racconti lo vogliono magro, scarno e senza scarpe, sporco, ferito nel morale prima ancora che nella carne. Si dice che Che Guevara abbia trascorso la sua ultima notte come prigioniero nella scuola del paese mentre il suo compagno Willy era trattenuto nell’altra stanza. Le ultime ore della sua vita sono contese dalla leggenda. Per lungo tempo si è detto che nessuno fuorché una soldatessa ubriaca avesse il coraggio di ucciderlo. In seguito Gary Prado Salmón ha smentito questa narrazione, quasi a sottolineare che non vi è mai stata esitazione da parte dell’esercito, quasi a rivendicare la pronta dedizione all’omicidio politico quasi fosse una virtù, una bella carta da visita per quella babele di mercenari ottusi che siamo soliti chiamare esercito.
Coco Peredo era caduto due settimane prima del Che, abbiamo detto, insieme alla squadra di avanguardia mandata in esplorazione. Inti era riuscito a fuggire. Insieme ad un piccolo gruppo di guerriglieri sopravvissuti Inti organizza un nuovo esercito, l’ELN, Ejército de Liberación Nacional (ELN). Il punto è che “nè la morte del Che né la sconfitta militare terminarono lo strumento rivoluzionario che quello aveva creato. Il gruppo di sopravvissuti giurò di continuare la sua lotta”, hanno scritto di recente Boris Ríos, Héctor Urdaeta e Javier Larraín, nel tentativo di recuperare una storia dimenticata e negletta. Di principio, i guerriglieri partono per il Nord rurale di La Paz travestiti da volontari per un programma di alfabetizzazione guidati da Inti e aiutati economicamente dai Tupamarus dell’Uruguay. In supporto l’Eln cileno aveva mandato alcuni volontari rimasti nelle montagne di Teoponte fino al febbraio del 1970. Il 9 settembre 1969 Inti sarà ucciso, il corpo ritrovato ancora caldo da una compagna con addosso segni evidenti di tortura. Dopo la morte di Inti, sarà Chato a guidare l’esercito verso la campagna di Teoponte, il ponte verso Dio. Il 18 Luglio del 1970, Carlos Navarro Lara alias “Luis” annunciava che mancavano poche ore al momento che tutta l’America Latina aveva aspettato. Nei fatti, la storia è stata severa con l’esercito del Chato. Gli errori di quella operazione politica e militare secondo le ricostruzioni sono tali e tanti che la maggior parte dei 67 compagni furono massacrati, gli altri ridotti in clandestinità.
Non ho lo stomaco di chiedere a Chato di commentare la campagna. Lui fa notare che in quella seconda tragica operazione il popolo li appoggiava, cosa che ha avuto almeno il pregio di riportare nelle campagne la rivoluzione. Sarà Circe a raccontare le agonie di una clandestinità prolungata. Il Plan Condor, le dittature militari in Cile Argentina Brasile Paraguay e Uruguay, la narco dittatura di Garcia Mexa Tejada e infine la crisi economica nel governo di Siles Zuazo, che porta l’economia al collasso sino all’elezione del MNR di Sanchez de Lozada, un Governo riformista di impronta neoliberale, con l’appoggio di alcuni partiti della sinistra boliviana, descrivono anni in cui la storia personale di clandestinità si intreccia a una storia nazionale di corruzione, narcotraffico e controllo statunitense durante la quale il dissenso ha un costo politico estremamente caro.
La Bolivia di oggi è un crogiolo di contraddizioni e di spine. È patria della rinascita indigena, la terra della devozione alla Pacha Mama e della sperimentazione storica di un nuovo diritto costituzionale non (solo) basato sul diritto individuale ma sul diritto unitario delle comunità indigene e della natura tutta. Nel contempo è una terra identitaria e machista, dove la storia delle popolazioni indigene (patriarcali) si sovrappone a una retorica marxista e nazionalista. È un paese machista ove il 68% dei nuclei famigliari è stretto dalla violenza domestica contro le donne. È la terra in cui piovono bombe nelle case del Mas, come avvenuto più volte a Circe e il Chato. È il centro nevralgico dell’oligarchia narcotrafficante filo-statunitense. È la terra della perdurante ostilità tra colla e campa, dove i colla sono gli abitanti anzitutto aymara delle ande, mentre i campa sono i boliviani d’oriente, la parte più ricca del paese. È la terra della scuola di Warisata, la prima scuola indigena sudamericana, come la terra dei Tupac Katari, di Tupac Amari II, di Simon Bolivar. È la terra in cui manca tutto. Mancano le strade. Mancano i medici, manca un sistema di tutele capace di includere i ceti più poveri della popolazione. E infine è una terra maestosa, dove il susseguirsi ininterrotto di labirinti di foreste si intreccia a imprevisti picchi e valli, precipizi e vette andine.
In quei giorni attraversavo con Rafael il fratello di Circe i sobborghi e le periferie. La notte nelle strade sfilavano come in un drive-in yankee auto di grandi cilindrate con all’interno la nuova generazione boliviana, giovani conservatori di quindici sedici anni con birra in mano la pistola nel cruscotto e grandi sacchetti di cocaina apertamente in compravendita nelle piazze dell’Oriente. La piccola Hollywood cruzena si alterna all’intelligenza di strada delle periferie, dove giovanissimi borseggiatori del Plan 3000, uno dei quartieri più poveri di Santa Cruz, parlano di un paese profondamente impoverito che da sempre resiste più di quanto abbia mai avuto la possibilità di esistere senza essere depredato.
Chato dice che Evo è la persona giusta per ricominciare il processo rivoluzionario in Bolivia, perché sino ad oggi il processo rivoluzionario è stato un processo generalmente accademico, intellettuale. Evo invece non ha una laurea, dice Chato. Evo non dice mai penso, Evo dice sento e attraverso il sentire decide le priorità. Non lo so se è così. Non mi è mai stato facile guardare senza sospetto al personalismo politico chiunque ne sia il protagonista. Quel che so è che la vitalità politica boliviana è sconosciuta nella soffocante nebbia europea. Il senso di possibilità di una terra che non ha nulla da perdere è inesistente nel vecchio continente, dove pesa come una camicia di forza l’attaccamento al privilegio, che il protagonista sia il cadavere di un’oligarchia politica intenta a sopravvivere la sua stessa putrefazione o una classe lavoratrice che ha così a lungo sperato di ereditarne i privilegi da soffocare allo status quo il senso stesso di possibilità.
“Volveremos a las Montañas” dice ancora il Chato. Torneremo a Vallegrande, in quelle valli in cui cinquantadue persone volevano riscrivere la storia. Torniamo e saremo milioni.
Siempre se vuelve, por supuesto.

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