27 novembre 2017

LO STUPORE DI SANDRO PENNA



Sandro Penna, il poeta dello stupore 

Paolo Ottaviani

Come suole accadere ad ogni grande e vera poesia, il trascorrere del tempo non solo non intacca la bellezza dei versi e non indebolisce la forza vivifica della loro luce, ma può anzi favorire l’espandersi e il moltiplicarsi dei bagliori e delle illuminazioni e, di conseguenza, può rinnovare anche le possibilità di approccio e di interpretazione. Di fronte alla grande poesia possono perennemente aprirsi impensate prospettive ermeneutiche, inediti scenari di conoscenza critica. Una simile, felice sorte sembra toccare anche i versi di Sandro Penna. Le numerose iniziative, i convegni, le tavole rotonde, le letture e gli studi rinnovati, i documentari e persino un’eccellente opera filmica, che si sono recentemente prodotti in occasione del centenario della nascita del poeta, tanto a livello locale, nella natia Perugia, quanto in ambito nazionale, costituiscono solo la testimonianza più recente di un interesse che sembra andare ben al di là della pur significativa ricorrenza celebrativa. Elio Pecora, amico e valoroso critico e biografo del poeta, in modo assai opportuno, ha voluto recentemente ricordare la “profezia” fattagli da Attilio Bertolucci secondo la quale Sandro Penna sarebbe stato, dalle future generazioni, il poeta più letto e più amato del nostro Novecento. Come la nascita di una supernova può innescare infiniti processi di formazioni stellari infiammando parte del cosmo, così la poesia del poeta perugino continua a lanciare la sua forza / a perdersi nell’infinito. Una forza dirompente, eversiva e, al tempo stesso, miracolosamente e delicatamente in armonia con la più intima essenza di ogni elemento naturale e storico che sia sfiorato o raggiunto da quella particolare luce poetica. Vi è infatti un firmamento remoto al quale il poeta umbro fa costante riferimento. Un firmamento personale, “un mio firmamento” – scrive Penna in una sua lirica -, obbliga a percepire simultaneamente la natura, le cose e gli uomini nella duplice, misteriosa dimensione dell’effimero e dell’eterno. Ogni minimo accadimento della poesia della vita e della poesia della scrittura viene così attraversato da un fremito di celeste partecipazione, coinvolgendo, con identica intensità emotiva, tanto la sfera intima delle personali percezioni quanto il paesaggio naturale:

Mi avevano lasciato solo
nella campagna, sotto
la pioggia fina, solo.
Mi guardavano muti
meravigliati
i nudi pioppi: soffrivano
della mia pena: pena
di non saper chiaramente…

La meraviglia e la sofferenza dei pioppi non sono un artificio retorico né un’illusoria proiezione degli stati psichici del poeta: costituiscono invece la prova dell’indifferenziata unità del cosmo. La vita intellettuale dell’uomo infatti si lega profondamente e si confonde con i minimi e i grandiosi eventi della natura:

Da un amato
libro veder parole
sparire… – Oh stelle in corsa
l’amore della vita!

Non è certo la stanchezza né un fisiologico calo di attenzione a determinare la distrazione dall’amato libro: mentre spariscono le parole lette appaiono le stelle luminose e in movimento, le stelle reali delle notti perugine degli anni trenta, in un continuum naturale che testimonia come la palpitante partecipazione amorosa – l’amore della vita! – possa legare nello stesso felice circuito tanto il momento della solitaria riflessione intellettuale quanto quello delle fresche sensazioni di una notte estiva. L’universo penniano è un universo monolitico dove le infinite, dolorose scissioni che determinano l’esistenza delle singole cose e delle singole percezioni hanno contemporaneamente una duplice esistenza: quella individuale, persa nell’innumere frammentazione del mondo, e quella universale che lega ogni frammento naturale e storico – uomini, alberi, fanciulli, monti, case, biciclette, muli, treni ecc. – alle leggi conosciute e ignote del cosmo. I sensi, quali incontaminati territori separati da ogni umano, civile consesso, “giovani isolotti” – così vengono magistralmente chiamati dal poeta – costituiscono una sorta di viatico per il viaggio che ogni particolare sensazione deve intraprendere per congiungersi all’universale della natura. Indomiti alfieri della poesia penniana, baciati dal dono dell’eterna gioventù, ai sensi spetta l’audace compito di scardinare ogni ordine costituito, o almeno di ignorare ogni codice morale che non riconosca pienamente la libertà del sentire e dell’amare. Devono agire in silenzio, con estremo pudore e spesso con la complicità del sonno che neutralizza ogni forza repressiva dell’io raziocinante. Quel sonno lucente, che brilla solo della forza dei propri liberi sogni, accoglie l’anima liberata e liberatrice del poeta:

Sole senz’ombra su virili corpi
abbandonati. Tace ogni virtù.
Lenta l’anima affonda – con il mare –
entro un lucente sonno. D’improvviso
balzano – giovani isolotti – i sensi.
Ma il peccato non esiste più.

Siamo di fronte alla luce dell’innocenza che non ignora ma travalica il peccato e la colpa, scuote dal profondo e ribalta tutti i valori sui quali si fonda la nostra civiltà. E tutto prodigiosamente avviene alla luce del giorno e nel buio del sonno. Il peccato non esiste più. Il momento è solenne. Non a caso il richiamo agli elementi naturali è di straordinaria potenza: il sole e il mare sono chiamati a testimoniare l’avvenuta liberazione. Ogni ipocrita virtù deve ora tacere. La poesia di Penna sembra vivere in un tempo cristallizzato. Il costante richiamo a quel firmamento remoto sottende la trama di ogni lirica e frantuma l’azione del tempo in un circuito inestricabile tra i tempi “storici” nei quali avvengono le reali percezioni – nella lirica sopra trascritta la visione dei virili corpi -, tempi psichici – lenta l’anima affonda – e tempi cosmici o sapienziali e oracolari – il peccato non esiste più. Spesso le tre dimensioni temporali s’incrociano e si sovrappongono – il sole senz’ombra del primo verso già anticipa metaforicamente la propositio maxima del verso finale -, con il risultato che ogni lirica è mirabilmente sospesa tra storia ed eternità. Una storia che si intride profondamente dei caratteri miti, discreti, restii alle mondane esteriorità propri della natia, troppo cara Perugia. Una volontaria e consapevole disappartenenza ai valori del mondo, conquistata faticosamente, anche al prezzo delle rinunce più dolorose. Ricorda ancora Elio Pecora: “Penna, ancora nella prima giovinezza, rinuncia all’amore di Ernesto, il ragazzo trasteverino di cui era fortemente innamorato. Intuisce che l’amore per l’altro può sottrarlo a se stesso, e non al proprio narciso, ma all’io moltiplicato della poesia. Questa rinuncia ne comporterà ben altre e peserà molto sui suoi anni più tardi, ma gli avrà dato quella sua scrittura così tersa e colma, così esatta e onesta”. E’ la scelta eroica della poesia che ancora ci commuove se ascoltiamo questi versi:

Sempre affacciato alla finestra io sono,
io della vita tanto innamorato.
Unir parole ad uomini fu il dono
breve e discreto che il cielo mi ha dato.


Da “Poliscritture.it”, 4 ottobre 2017 

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