Proprio oggi, capodanno 2022, la bella rivista DIALOGHI MEDITERRANEI ha pubblicato la prima parte di un mio saggio sui rapporti tra due grandi scrittori italiani che hanno segnato il nostro 900.
Di seguito, in questo blog, potete leggere l' introduzione all'articolo. Il resto è disponibile gratuitamente sul sito della rivista:
Pasolini e Sciascia. Due eretici a confronto
di Francesco Virga
Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare (Leonardo Sciascia, Nero su nero, Einaudi 1979:175-6).
Con un titolo simile, qualche mese fa, sono stati pubblicati gli Atti del Convegno svoltosi nel novembre del 2019, nella sede del Centro Studi P. P. Pasolini di Casarsa della Delizia, dedicato all’analisi dei rapporti tra il poeta corsaro e Leonardo Sciascia [1] . Nel riservarmi di fare una puntuale recensione di questo libro, che raccoglie contributi di diverso valore, in un’altra occasione, oggi occuparmi della controversa questione di cui ho già scritto, seppure sommariamente, dieci anni fa in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Università di Barcelona, Quaderns d’Italià [2]
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Leonardo Sciascia (1921-1989) sono stati due tra i maggiori scrittori italiani del 900 che hanno apertamente rotto la tradizione curiale e cortigiana della storia letteraria nazionale. Si addice ad entrambi la celebre espressione paolina, tanto cara a Pasolini, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili» [3]. Entrambi, ben conoscendo la potenza delle parole, le hanno saputo usare per denunciare menzogne e imposture nella loro indefessa ricerca della verità e dell’intelligenza delle cose. Pasolini avrebbe sicuramente sottoscritto quanto un giorno, dopo la sua scomparsa, scrisse Leonardo Sciascia:
«L’eresia è di per sé una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. È stato anche il Partito Comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere eretico» [4]
«Esercitare […] un esame critico dei fatti» [5], per dirla con Pasolini, è stato sempre un loro comune impegno, essendo per loro questo il primo dovere di ogni autentico intellettuale. I due autori, malgrado il loro diverso stile di vita e di scrittura, si sono ritrovati, quasi sempre, sulla stessa lunghezza d’onda ed hanno più volte collaborato nei loro impegni letterari e civili.
I due scrittori, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, hanno avuto una fitta corrispondenza tra loro, hanno seguito con reciproca simpatia i loro primi lavori e collaborato alla messa a punto di tanti loro progetti. Anche se il loro rapporto si è indebolito successivamente, su fronti diversi, hanno combattuto entrambi contro ogni forma di ipocrisia e di prepotenza. Sono stati sempre ostili ad ogni potere costituito e insofferenti verso ogni forma di inquisizione. Hanno amato entrambi contraddire e contraddirsi al punto che molti critici hanno individuato proprio nella contraddizione uno dei loro tratti distintivi. [6]
Storia di un’amicizia
È’ stato soprattutto il loro comune interesse ed amore per la cultura popolare e i dialetti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni, a farli incontrare nei primi anni 50 del secolo scorso. È stato Mario dell’Arco a propiziare l’incontro tra Pasolini e Sciascia, essendo amico e collaboratore di entrambi [7]. Pasolini e Sciascia si sono subito riconosciuti e stimati. Infatti è proprio Pasolini a recensire il primo libretto dello scrittore siciliano, Favole della dittatura, pubblicato, a spese dell’autore, nel 1950 dall’editore romano Bardi [8]. Pasolini coglie immediatamente il valore di questa prima opera dello scrittore siciliano:
«Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confine il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza» [9]
Sciascia mostrerà gratitudine all’autore di questa recensione per tutta la durata della sua vita. L’altro elemento che colpisce, in questo esordio di Sciascia, è una citazione, posta ad epigrafe dello stesso libretto, che tocca un tema di fondo di tutta la sua opera:
«Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?» (L. Longanesi).
Si sente in queste parole l’eco dell’idea manzoniana, tanto cara a Sciascia, secondo la quale soltanto la letteratura può colmare i vuoti di ogni storiografia. Insieme all’amicizia comincia così la collaborazione tra i due scrittori. Sciascia fornisce alcuni consigli per la ricerca, avviata nello stesso periodo da Pasolini e dell’Arco, sulla poesia e la cultura popolare italiana che sfocerà nella pubblicazione della famosa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma 1952. Consigli e suggerimenti che dell’Arco e Pasolini ricambiano nel corso della preparazione dell’antologia sciasciana, Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco) che viene pubblicata dall’editore nisseno Salvatore Sciascia nello stesso 1952, con una Premessa dello scrittore bolognese. [10]
Due anni dopo Leonardo Sciascia cura la pubblicazione, in un Quaderno collegato alla rivista Galleria, da lui diretta, di alcuni versi inediti in lingua italiana di Pasolini, intitolate Dal diario (1945-47). Lo stesso Sciascia, nell’introduzione alla ristampa del libretto avvenuta nel 1979, ricorda come la sua iniziativa fosse collegata all’idea di invitare altri amici di Pasolini – Roberto Roversi, Angelo Romanò e Alfonso Leonetti – a collaborare con la sua rivista. Risultano oggi particolarmente significative le parole con cui Sciascia chiude la sua Introduzione:
«nel gennaio del ‘54, dovendo preparare una nuova terna di poeti, Pasolini mi scriveva: “Quanto al poeta su cui mi chiedi consiglio, per me non ci sono dubbi: Leonetti”. Si prefigurava così, nei primi “quaderni di Galleria”, il gruppo da cui doveva venir fuori la rivista Officina: la sola, a conti fatti, che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano post 18 aprile 1948.
Questo libretto ha dunque una storia […]. Me ne ero quasi scordato, come forse se ne era scordato Pasolini. Rileggendo ora le sue lettere, e dopo aver riletto queste sue poesie, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?» [11].
Brano dell'articolo tratto da: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pasolini-e-sciascia-due-eretici-a-confronto/