15 aprile 2021

IL MUSEO DELLA CIVILTA' CONTADINA DI ETTORE GUATELLI

 

La copertina di una bellissima rivista friulana - perimmagine - che, nel 1997, dedicò un numero monografico al Maestro parmense. (fv)


                                                                      Fotografie di Mauro Davoli






L'antropologo Pietro Clemente, in occasione dei prossimi 100 anni della nascita del Maestro Ettore Guatelli, creatore di uno dei musei della civiltà contadina più belli del mondo, lo ha ricordato sul suo diario fb così:


Ma è veramente un museo?

Ma è poi un museo? Nel senso tradizionale della parola, vorrei proprio potermi illudere che non lo sarà mai, e cosa e come vorrei che fosse credo proprio di averlo chiaro in testa. Per ora è la raccolta di un mucchio di cose che mi fan specialmente criticare e compatire da quella gran parte di gente che però non ne conosce il significato e che il museo lo intende fatto soltanto di cose belle: come se per rappresentare l’umanità si facesse una “galleria” di soli esseri scelti, belli.

Non sono solo cose da ragazzi già per metà giovanotti, ma anche da adulti. Ripieghi di gente che, non dimentichiamolo, non aveva né materiali né attrezzi. Chi, da contadino o da casante, non aveva più del marasso, della sega, della pialla e dello scalpello da legno o da ferro, o magari una mola che di tondo aveva sì e no il perno, era considerato un po’ mago.

Io non so essere sintetico, né scegliere le cose più opportune da dire. È come avere tanti figli: si amano tutti e di tutti si deve dire bene. Anche di quelli che fanno arrabbiare a scuola e fuori perché “trop lazaron”; anche di quelli modesti, introversi, che fanno dispetto a guardarli, perché non dicono, non si palesano, e, come ciò che non si riesce a capire, preoccupano. Un genitore, però, ama forse questi più degli altri che fuori sanno già farsi amare dalla gente per la loro simpatia e la loro comunicativa.

Così a me succede per il museo, o meglio, per la mia raccolta. Che, pur avendo pezzi belli, alcuni anche rari o eccezionali, può e deve considerarsi il museo dell’ovvio, la raccolta delle cose di tutti i giorni, non necessariamente di quelle della festa o dei benestanti. Tutto ciò per documentare la vita della maggior parte della gente, che era povera, con qualche riguardo ai più poveri fra i poveri stessi.

Credo di aver raccolto molta roba per il fatto di essere stato io contadino (qualcuno che il contadino lo intende in modo diverso l’immagino a sorridere) e di aver sentito il valore dal punto di vista contadino, cioè direttamente dal di dentro. A chiarire meglio direi che l’avere tanta conoscenza delle cose del mio mondo, cioè l’essere quelle le cose del mio mondo, mi ha reso facile capire e dargli valore.

Per molti anni non sono stato di ruolo: avevo 46 anni quando, alla fine, ci sono arrivato. E ne ho passati molti, di anni, ad arrangiarmi, cercando di essere utile ai miei col trovare gomme, mozzi, telai, per trasformare i carri e cercando di guadagnare qualcosa. Conoscevo rottami e rottamai, trovavo cose da disfare, recuperando i metalli per rivenderli direttamente ai grossisti; facevo inoltre qualche supplenza e durante l’estate andavo in colonia.

Ho conosciuto più il mondo in quel tempo che durante gli anni in cui ho fatto il maestro. Portavo a casa quel che trovavo, e a vedermi passare con della robaccia caricata sull’auto han cominciato a chiamarmi “al straser” (Io stracciaio).

Di strumenti da lavoro poveri, disadorni, essenziali o miseri, ottenuti con ciò che si aveva per mano, ne ho presi parecchi (nessun antiquario li voleva e costavano poco) per far vedere l’ingegnosità, la fantasia, i mille modi per fare una cosa, cioè la creatività.

E non mi sono mai dimenticato di essere maestro, cioè insegnante, pensando sempre che anche questo far vedere la possibilità di arrangiarsi, nel giovane di adesso, abituato solo a fare se ci sono gli strumenti, faccia nascere una riflessione, un suggerimento, che lo porti ad acquisire l’idea che in caso di necessità, anche senza quell’attrezzo, se i nostri antenati sono riusciti, a maggior ragione anche noi possiamo arrangiarci.

(Ettore Guatelli)


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al MAESTRO GUATELLI

a meno cinque giorni

dai 100 anni dalla nascita,


Non ho foto di Guatelli maestro, ma ho trovato una classe alla quale ha insegnato. Ecco i ragazzi, per lo più studenti di Siena, ma con qualche studente anche di Roma dove allora insegnavo. Spero si riconoscano e che non dispiaccia loro che li abbia ricordati così. Con questa immagine tra inverno e primavera del 1997.

Ettore si raccontava come un maestro di pochi studi. Ma allievo - per fare in privato il diploma magistrale - di un gran maestro: Attilio Bertolucci poeta. Ettore fu anche amico dei due figli entrambi registi, e diede degli oggetti del Museo per il film "Novecento". Li sentiva tutti di un altro ceto però.

Alternò per un pò di anni l'insegnamento e la degenza in sanatorio per la cura della tubercolosi. Fece tante supplenze prima di attestarsi nelle scuole di Neviano dei Rossi e di Gaiano. A scuola portava sempre cose, scarti di fabbricazione, legno, macchine da scrivere usate, e faceva con i bambini burattini, mobili, ma soprattutto stampava giornali scolastici nella forma di piccoli libri, scritti dai ragazzi e ricchi di notizie sulla vita e sulle cose della vita dei contadini. Nella citazione da una testimonianza adulta che vi allego c'è Ettore che abolisce la cattedra, che dà voce al dialetto, che porta i ragazzi in giro a vedere strumenti tecnici e paesaggi. Trovo molto divertente

l'Ave Maria in dialetto : 'prega par nueter ca sèma di lazaron'. Si definiva un maestro di cose e non di parole, e invertiva i valori in classe: i più bravi erano quelli che sapevano fare. A scuola facevano il museo, con le bacheche, le schede degli oggetti che confluivano nei giornali di classe stampati. Piano piano i ragazzi portarono le cose anche a Casa Guatelli, Podere Bella Foglia. E il museo nacque nel granaio anche col loro aiuto e quello delle mamme. Dalla scuola al podere il maestro delle cose divenne maestro di Museo. Il primo catalogo del Museo: "Il bosco delle cose" è del 1996 , il museo stava decisamente svoltando, cominciava ad avere successo. Nel 1997 ci fu una nuova commissione per valutarlo ai fini della acquisizione da parte della Regione. Poi ci furono altri due cataloghi, dopo la morte di Ettore, realizzati da Mario Turci nel 2005 e nel 2017 dal titolo 'Il museo è qui' (era una scritta sulla porta di casa). La foto è di Antonio Loguercio, marito di Lucilla Stefani che partecipò anche al primo seminario sugli 'oggetti di affezione'. 

Pietro Clemente

ETTORE GUATELLI era anche uno scrittore. In dialogo da anni con diversi intellettuali e professori di Parma, che venivano al podere a fare merende letterarie. Aveva scritto un ciclo di ' lettere a Venerina', in uno stile molto ricercato su una rivista locale. Ma poi, nel tempo, preferì scrivere a partire dal diario che teneva quotidianamente. Ettore era un lettore di Samuel Smiles, teorico del self help, tradotto in italiano già nel 1865 come "Chi si aiuta Dio l'aiuta". Ai suoi alunni diceva di tenere un diario quotidiano e scriverci anche <<oggi non ho niente da scrivere>>, ma usarlo per propositi, ricordi, ricerche. Diarista per '60 anni Ettore trasse dalle sue annotazioni legate al museo molti dei suoi racconti sul mondo delle cose, della vita, della gente. Racconti spesso ricchi di una etnografia minuta delle forme della vita. Il libro sul Taro narra quanto era centrale il fiume nella vita di tante persone, anche per le erbe che crescevano usate come medicine, o i giunchi, e un intero mondo di bambini, di itineranti, di contadini faceva capo alle sponde e al greto del fiume. "La coda della gatta" edito dall'Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna nel 1999, è insieme il racconto del museo e del suo allestimento ma anche la biografia degli oggetti (La falce, l'otre, il fil di ferro...) e la sua autobiografia. Nella foto allegata, sotto "La coda della gatta" si intravede la "Storia del cantoniere" raccolta con i ragazzi delle elementari di Neviano dei Rossi, una dolorosa vicenda di emigrazione e di fatica. Le persone e le loro storie erano al centro della scrittura di Ettore. Raccoglieva e collezionava anche biblioteche, epistolari, ma soprattutto scriveva. Fu importante per me quando Ettore Guatelli incontrò a Rovereto, nel quadro di un convegno su "I luoghi della scrittura autobiografica popolare" Saverio Tutino . Era il 1989 e Saverio già dal 1984 aveva fondato a Pieve Santo Stefano l'Archivio Diaristico Nazionale. Ettore parlò dei suoi diari dedicati a raccogliere la storia di Boris, un giovane ebreo polacco conosciuto in sanatorio, che aveva vissuto il dramma della guerra da Varsavia, verso la Russia, arrestato e, liberato, solo era arrivato in Italia e ricoverato con lui. Divenne libro "La storia di Boris", purtroppo solo dopo la morte di Ettore. Saverio parlò del 'vivaio' di Pieve: un allevamento di storie della vita. Tutino, Guatelli e con loro anche Nuto Revelli, sono diventati i miei grandi maestri non accademici, maestri di scrittura delle gente comune, di museo, di storia orale. Nelle migliaia di pagine che Ettore scrisse ci sono ancora tante storie da scoprire. Sono una specie di giacimento. E spesso sono storie di storie, nel senso che se le faceva raccontare lui stesso dagli amici più anziani, guide nel mondo che lui aveva visto ancora vitale ma vicino alla disgregazione. Credo che in quei racconti ci siano ancora tesori di competenze e di saperi pratici, che potranno tornaci utili se, prima o poi, torneremo a vivere nell'Appennino, e in generale sulla terra che abbiamo abbandonato e offeso. Nelle due ultime immagini i giovani di Siena e Roma a tavola dentro casa Guatelli, durante la vista al museo, e il mio taccuino del 1997 dove il viaggio viene annotato


PIETRO CLEMENTE


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