22 aprile 2021

UNA RIFLESSIONE INTORNO AL CINEMA DI MARTIN SCORSESE

 



MARTIN SCORSESE TRA CRIMINE E SANTITÀ


“I peccati non si scontano in chiesa. Si scontano per le strade, si scontano a casa. Il resto è una balla. E lo sanno tutti.”. Le parole citate aprono Mean Streets, quello che, per alcuni versi, potremmo definire (dopo gli esordi di Chi sta bussando alla mia porta e America 1929) il primo vero film di Martin Scorsese. Ovvero, il primo in cui sono presenti in nuce le tematiche cardine di, quasi, tutti i suoi successivi: tutta l’opera di Martin Scorsese, infatti, è pervasa da una dialettica lacerante tra peccato e redenzione, violenza e santità, testimonianza delle pulsioni umane più basse e tensione verso l’elevazione spirituale. La battuta iniziale del protagonista Charlie, interpretato da un giovane Harvey Keitel è una vera e propria dichiarazione di poetica, non a caso posta in apertura di un film dichiaratamente e profondamente autobiografico.

Questo dissidio interiore (esplicitato in maniera fin troppo didascalica dal sottotitolo della versione italiana, Domenica in chiesa, lunedì all’inferno) riflette, infatti, un’ossessione esistenziale a cui l’autore è stato destinato fin dalla nascita: come egli stesso ha spiegato, “Quando si è stati allevati a Little Italy, che cosa diventare, se non gangster o prete? Beh, io non potevo essere né uno né l’altro.”.

Dunque, non potendo essere un criminale o un santo, il giovane Scorsese ha deciso di rappresentare ciò che non poteva essere: di diventare il più grande cantore cinematografico di questo dissidio interiore.

In un’intervista sulla sua religiosità, in occasione dell’uscita di Silence, Scorsese si è definito un pellegrino, estendendo questa definizione alla condizione spirituale di tutti.

L’idea del pellegrino è strettamente connessa a quella di itinerarium, in senso di cammino spirituale. Si tratta di una delle più grandi rivoluzioni concettuali apportate nella storia dal Cristianesimo: la vita non più come ciclico di eterno ritorno (come nelle precedenti culture in India e in Grecia), ma come percorso verso una meta, verso una fine, e un fine, che dona senso e compimento a tutto il cammino.

Un’idea fortissima, che non solo ha ispirato alcune delle più grandi opere dell’umanità (basti citare La Divina Commedia di Dante Alighieri e Il Giudizio Universale di Michelangelo), ma per alcuni aspetti ha plasmato il concetto stesso di romanzo moderno, riprendendo e incastonando in una narrazione progressiva e salvifica temi archetipici presenti in tutte le culture

Ci riferiamo ovviamente a quello che Joseph Campbell ha codificato come “Il Viaggio dell’Eroe”, in un saggio che ha ispirato opere dall’impatto straordinario sull’immaginario collettivo.

Ogni pellegrino, infatti, nel suo percorso si trova sempre davanti a un costante bivio e deve decidere ogni volta quale svolta sia quella giusta: per il credente, è la scelta tra Bene e Male.

Martin Scorsese fissa il proprio sguardo esattamente su quel crocevia, mostrandoci, a seconda della storia che ci vuole raccontare, cosa accade se si intraprende ciascuna delle due strade.

E anche quando ci racconta storie di gangster, di serial killer o di geniali truffatori dediti al vizio, se da un lato Scorsese confessa una innegabile fascinazione, dall’altro osserva gli eventi con uno sguardo molto più simile a quello di Fëdor Dostoevskij, per intenderci, che di Quentin Tarantino.

Questa profonda tensione morale, appunto, non pervade solo i film dall’evidente ispirazione spirituale (come L’ultima tentazione di CristoKundun o Silence), ma ogni grande narrazione scorsesiana, in cui i protagonisti si trovano davanti a un bivio tra legge e crimine, “normalità” e follia, autocontrollo e tentazione: il lucidissimo delirio paranoico, tra ascesi e schizofrenia, di Travis Bickle, sospeso tra follia omicida e redenzione in Taxi Driver; la parabola discendente, da potenza e gloria a patetica decadenza, di Jack La Motta in Toro Scatenato; l’ossessione di Rupert Pupkin per il successo, ottenuto paradossalmente per un reato e non per il proprio talento in Re per una notte;  impossibile, kafkiano, ritorno verso casa di Paul Hackett in Fuori Orario; la grande epica criminale di ascesa e declino, tra tradimenti e rappresaglie, in Quei bravi ragazzi e Casinò, ripresa poi in maniera esplicita in The Departed e, implicita, in The Irishman; l’esaltazione sadica e vendicativa in Cape Fear e The Gangs of New York; la scissione psichica e l’incontro con la propria Ombra in Shutter Island; l’ebbrezza autodistruttiva del potere materiale ne Il colore dei soldi e in The Wolf of Wall Street; volgendosi verso l’altro sentiero del bivio, l’indagine sugli stati di coscienza post-mortem di Al di là della vita, il potere catartico della meraviglia in Hugo Cabret, la fiera sfida alle convenzioni sociali ne L’Età dell’Innocenza e in The Aviator.

Questo sguardo ossessivo sul problema etico del male avrà un’influenza riconoscibile su molti autori successivi: pensiamo, ad esempio, alle visioni infernali e mistiche de Il cattivo tenente di Abel Ferrara (non a caso interpretato dall’icona scorsesiana Harvey Keitel) o, più recentemente, al personaggio di Arthur Shelby nella fortunata serie Peaky Blinders.

Tutto ciò è, logicamente, amplificato dalle opere scorsesiane che hanno affrontato in maniera diretta il tema della spiritualità.

Non possiamo che iniziare con L’ultima tentazione di Cristo tratto da un quasi omonimo romanzo dell’importante scrittore greco Nikos Kazantzakis, che narra (su un piano di visione quasi onirica) una vita di Gesù parallela ed eretica rispetto all’ortodossia cristiana: Il Nazareno viene salvato sulla croce, può rifarsi una vita come un uomo normale, sposandosi prima con Maria Maddalena e dopo con la sorella di Lazzaro. In realtà, si tratta di un’ultima tentazione, una trappola posta da Satana sull’orlo della redenzione collettiva sancita dal suo sacrificio messianico. Un film dalla storia tormentatissima: Scorsese aveva già tentato di girare il film nel 1983, ma fu bloccato a quattro giorni dalle riprese per le veementi proteste, preventive, da parte di associazioni cattoliche.

Quando Scorsese riuscì finalmente a completare l’opera, cinque anni dopo, le polemiche furono ancora più violente, ma, come spesso capita, si concentrarono solo sugli aspetti più superficialmente scandalosi dell’opera, senza coglierne gli aspetti più profondi: il momento cruciale del film è, infatti, il dialogo con Paolo di Tarso, che davanti alla rivelazione dell’umanità del Cristo continua a predicare la “menzogna” della sua Resurrezione divina. La contrapposizione netta tra verità e dogma, tra spiritualità autentica e istituzione religiosa. Un chiaro riferimento all’episodio del Grande Inquisitore presente ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij.

Quasi dieci anni dopo, il tema della contrapposizione tra misticismo e potere verrà ripreso in Kundun, ispirato all’autobiografia del Dalai LamaSorvolando su alcuni aspetti discutibilmente agiografici dell’opera, ciò che è interessante è l’attenzione dell’autore per la dualità, per la scissione, per l’irriconciliabile dialettica tra il piano interiore e quello politico e sociale.

L’approdo definitivo di questa lunga ricerca è, senza dubbio, Silence, un progetto ventennale di Scorsese che finalmente riuscirà a vedere la luce verso la fine del 2017.

Tratto dal romanzo omonimo dell’autore giapponese Shūsaku Endō, il film racconta le violente persecuzioni subite dai cristiani in Giappone nel periodo Togukawa (il nostro Seicento).

Il film, a livello di temi e atmosfere, appare quasi come una impossibile sintesi de L’ultima tentazione di Cristo e Kundun, ma invece di trovare una artificiale conciliazione dialettica, al contrario, rilancia il tema della contraddizione spirituale fino alle estreme conseguenze: tutto il film è giocato sul filo di una inafferrabile ambiguità, tra martirio e apostasia, tra santità e abiura.

Il conflitto interiore è irrisolvibile, avvolto nel mistero: il silenzio del titolo può essere inteso come quello della meditazione, quello dell’omertà, quello di Dio davanti alle sofferenze degli innocenti.

Tornando all’inizio, Scorsese ha confessato che fin da ragazzino aveva sognato di fare il missionario, pur essendo cresciuto tra delinquenti.

Per tutta la vita ha testimoniato questa lacerante scissione tra morale e crimine, tra spirito e materia.

Due artisti da lui amati, e a cui ha dedicato importanti documentari, come George Harrison e Bob Dylan, hanno scritto dei versi che potrebbero essere messi in calce all’intera opera del regista italoamericano: il primo in Absolutely Sweet Marie sentenzia “per vivere fuori della legge bisogna essere onesti”; il secondo, in Living in the material world, che dà il titolo al documentario dedicatogli da Scorsese, immortala la sua nostalgia del divino : “Mi sento frustrato dal mondo materiale / I sensi non sono mai appagati / Si gonfiano come una marea / Che potrebbe sommergermi nel / mondo materiale”.

 Articolo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/martin-scorsese-tra-crimine-e-santita/

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