30 aprile 2021

PIO LA TORRE RICORDATO DA DANIELE BILLITTERI

 


IL COMPAGNO PIO
di DANIELE BILLITTERI

Quel giorno, l’ultimo di aprile del 1982, era un venerdì e , di prima mattina, ero ancora a casa. Era una giornata abbastanza luminosa e tiepida ed ero in bagno quando suonò il telefono. Era un mio amico della Squadra Mobile che mi avvertiva che poco prima, in via Turba, nella zona dei Cappuccini, avevano ammazzato Pio La Torre e il suo autista-guardia del corpo, Rosario Di Salvo.
Non ci andai. Chiamai il giornale per assicurarmi che fossero a conoscenza e mi sincerai che fosse andato un altro collega col fotografo. Come se avessero ammazzato uno qualunque. Ma io non ci andai perché Pio per me non era uno qualunque. Era quello che molti anni prima mi aveva preso a schiaffi e proprio di questo lo avevo ringraziato. Non me la sentivo di vederlo sorpreso in un momento di impotenza, quel momento fatale in cui inciampano anche i più protetti, come le stragi di dieci anni dopo avrebbero dimostrato. Stavano andando nel palazzo delle cariatidi, in fondo al corso Calatafimi dove c’era il Comitato regionale del partito. La ricostruzione dell’agguato dimostro che Pio e Rosario non avevano scampo malgrado Rosario, che guidava, fosse riuscito a tirare fuori la pistola e a sparare qualche colpo. Ma la squadra dei killer, perfettamente allenata dalla guerra di mafia con centinaia di morti, non prevedeva imprevisti: una moto, due auto, la scelta di quel tratto di strada stretta e a senso unico. Un piano operativo che poteva soltanto riuscire. E riuscì. Sogno la notte il piede di Pio che esce dal finestrino dell’auto. Pio era un omaccione, alto, ben piantato e quell’auto gli stava stretta. Pensate all’onda d’urto dei proiettili calibro 7,62 sparati dai Kalashnicov che se ti colpiscono al petto ti fanno fare un balzo all’indietro di tre metri. Che pena per l’uomo che aveva fatto camminare, politicamente, la Sicilia su due rudimentali parole d’ordine: la lotta alla mafia e quella per la pace. E su questo si era tirato dietro il partito. E confermo: tirato.
In quei giorni raccontai quale impatto aveva avuto l’agguato sul PCI . Ai funerali venne Enrico Berlinguer e ad ascoltarlo c’era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale-prefetto era stato mandato a Palermo per organizzare la risposta dello Stato a Cosa Nostra che aveva trasformato la città in un teatro di guerra dove si combatteva la lotta per il potere: corleonesi contro il resto del mondo. Dalla Chiesa anticipò il suo arrivo, e la sua entrata in servizio, proprio per partecipare ai funerali di Pio. E c’è una ragione che sta nell’antico legame tra due uomini che non avrebbero potuto essere più diversi ma che avevano saputo rispettarsi e non avevano mai smesso di farlo.
Nel dopoguerra a Corleone c’era un giovane capitano dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel dopoguerra a Corleone c’era un giovane dirigente della Camera del Lavoro, il compagno Pio La Torre. Erano i tempi dell’attacco dei Giovani Leoni mafiosi che ruotavano attorno a Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina contro la vecchia guardia al comando
del medico condotto del paese, il dottore Michele Navarra. E’ in quegli anni che viene ucciso il segretario della camera del la voro Placido Rizzotto e delle indagini si occupò il giovane capitano Dalla Chiesa che si era fatto le ossa nel Gruppo Forze Repressione Banditismo comandato dal colonnello Luca. Dalla Chiesa era diventato responsabile del Gruppo Squadriglie di Corleone.
Placido Rizzotto venne ucciso e a Corleone fu mandato Pio La Torre, dirigente della Federazione del partito di Palermo e già dirigente della Federterra. Pio diventò segretario della Camera del lavoro e guidò le occupazioni delle terre incolte in quel territorio finendo arrestato, Nel frattempo Dalla Chiesa, indagando sull’omicidio di Rizzotto, mise le mani su Luciano Liggio. Come in un film, Carlo Alberto e Pio si incontrarono nella piazza di Corleone una tarda mattinata d’estate. Carlo Alberto salutò da militare con la mano sulla visiera del cappello. Pio La Torre gli si avvicinò e lo abbracciò. Ragazzi miei: Corleone, Anni Quaranta, Scelba, repressione, anticomunismo, carabinieri…Ci volevano le palle per diventare i protagonisti di quel mezzogiorno di fuoco.
Io ero militante picciottello quando Pio era segretario provinciale del partito. Nel Movimento Studentesco, nel 1969 germogliavano i semi di tante cose. C’era tutta la tematica legata alla scuola e alla cultura, c’era la riflessione sul modo di essere nel proprio intimo, al valore delle relazioni personali, c’era il problema del collegamento col resto della società, di un movimento giovanile che cercava contatto con gli operai, col sottoproletariato che aveva vissuto nei catoi del centro storico e dopo il terremoto del 1968 aveva occupato le zone delle case popolari: Borgo Nuovo, CEP, Borgo Ulivia, ZEN.
Noi ragazzi della federazione giovanile del PCI, la Fgci finimmo con l’essere considerati moderati da un’opposizione emergente più radicale, fatta da un lato dai gruppi che facevano riferimento ai trotskysti del circolo Labriola di Mario Mineo e Beppe Fazio, un ex dirigente del Pci e un professore di filosofia. Il circolo, nel 1970 sarebbe passato al Manifesto, dopo la radiazione della Rossanda, di Pintor e di Natoli dal Pci.
Dall’altro c’erano quelli che si ispiravano alla rivoluzione cinese di Mao Tse Tung come l’Unione dei Comunisti marxisti-leninisti di Brandirali. Lotta Continua di Sofri e Rostagno era ancora di la da venire. Erano sciarre infinite, ore e ore di dibattiti, di questioni ideologiche complicatissime. Ricordo che un giorno Mario Mineo e Pio La Torre si incontrarono in via XX Settembre all’angolo con la via Caltanissetta. Il circolo Labriola era invece in via Nigra. Pio e Mario litigarono e a un certo punto Pio che era molto più alto di Mario, gli agitò un ditone davanti al naso e gli disse: “Tu si cristiano di circoli onanistici!”.
Naturalmente non mancavano temi che non ci dividevano, anzi ci univano. Sicuramente la guerra nel Vietnam, sicuramente il Terzomondismo, la leggenda di Che Guevara. Ma anche l’opposizione all’imperialismo sovietico dopo l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia.
C’era poi il fatto che nei gruppi extraparlamentari, ammettiamolo, c’era più figa che alla Fgci. Le occupazioni delle scuole erano il banco di prova di come i compagni più incazzati e radicali rimorchiavano alla grande agitando il libretto rosso e inneggiando alla rivoluzione culturale. Almeno fino all’insorgere del femminismo quando, finalmente, non ce ne fu per nessuno. O quasi. Tutto questo rappresentava un modo di essere, una vicenda che era pubblica e personale a un tempo. E molti si riconobbero in quel contesto quando nel 1976 Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera scrissero “Porci con le Ali”.
Ma molti anni prima c’era un dibattito più ruvido e concreto nel discutere le questioni ideologiche. Lo sperimentai personalmente nel, mi pare, 1969 quando, partecipando a una delle manifestazioni del movimento studentesco, mi trovavo sotto gli striscioni dell’Unione (probabilmente sulle tracce di qualche compagna) proprio mentre il corteo, in via Libertà, passava davanti a via Caltanissetta. Sul marciapiedi a guardare c’erano molti dirigenti della Federazioni tra i quali il segretario Pio La Torre. Io uscii dal corteo e andai a salutare. Lui aveva la faccia di luna, una dentatura splendida e ogni volta che apriva la bocca pareva un sorriso. Ma non sempre lo era. Mi disse: “Compagno Billitteri, un compagno si vede secondo cu cu camina. E tu camini sbagliato”. Poi mi diede quello che per lui era un buffetto energico, come dire: u capisti? Ma Pio La Torre aveva due mani che sembravano il martello di Thor e il buffetto, per me, fu una vera timpulata, anche se “didattica”.
Negli anni successivi, tutte le volte che mi capitò di incontrarlo (quando io ero già cronista conosciuto) ridemmo moltissimo di quello schiaffo. E ne parlammo pure quando io e mia moglie Milena, in viaggio di nozze a novembre del 1978, andammo a trovarlo a Botteghe Oscure, sede nazionale del Pci, per avere due biglietti d’invito per assistere a una seduta della Camera dei Deputati. Pio La Torre sapeva ridere. Dopo tutto era Palermitano.
La sua morte mi colpì in tanti modi. Dobbiamo a La Torre se in questo Paese il solo fatto di appartenere alla mafia è già un reato, il 416bis. Sembrerà incredibile ma fino al 1982, quando la legge Rognoni-La Torre fu approvata (pochi mesi dopo le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa), questo reato non esisteva. Pio era semplice e ragionava per fondamentali. Quando tornò in Sicilia a fare il segretario regionale, costruì la sua politica su due pilastri: la mobilitazione contro l’istallazione dei missili Cruise e Peshing2 americani nella base di Comiso e la lotta alla mafia.
Bisogna precisare che la lotta alle cosche per Pio non era solo una questione di scrivere leggi. Certo ci vogliono anche quelle. Ma lui la vedeva anche in un modo più radicale. Pensava, per esempio, che con la mafia (e con la mafiosità) un comunista non dovesse cercare di convivere in nessun modo, neanche per semplice omissione, girandosi dall’altra parte. Non ci può essere contiguità ne eleggere domicilio nella “zona grigia”. Ci si può turare il naso con un avversario politico (all’orizzonte c’era il compromesso storico) ma con un mafioso no. E questo concetto dovette essere spiegato per bene alla periferia del partito in Sicilia dove capitava che fosse dimenticato o sottovalutato.
Ora io non credo alla “Pista rossa” nell’omicidio di La Torre. Ma quando i suoi “niet” comportarono il fatto che in Sicilia diventassero quasi impossibili i “patti scellerati”, per i boss fu chiaro che il problema era non un partito ma un uomo. Ricordate la battuta finale de Il Giorno della Civetta quando il boss guarda col binocolo il nuovo capitano dei carabinieri e commenta “…un padre di famiglia”? Ecco, Pio non lo era. E non lo era nemmeno Dalla Chiesa ucciso tre mesi dopo. A Giorgio Bocca, tre giorni prima dell’agguato, aveva detto: “Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato".
Non andai in via Turba e quel piede 47 fuori dal finestrino, lo vidi solo in foto. Mi ricordò, non so perché, “L’Urlo” di Munch. Ma, quando qualche giorno dopo l’omicidio Dalla Chiesa fu approvata la legge La Torre contro i boss, sorrisi al pensiero che, alla fatta dei conti, quel piedone li aveva ancora presi a calci in culo.
(Tratto dal libro “Dal taccuino di un cronista felice” Carlo Saladino Editore Palermo 2019)

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