Georges Didi-Huberman
Liberi occhi della storia - 1
Tratto
da AA. VV. (a cura di Giuseppe Zuccarino),
Un seminario su Georges Didi-Huberman,
in “La Biblioteca di RebStein”, vol. XC, 2024.
Come vedere il tempo? In che modo il tempo si rende
percepibile? Sono domande che non si potrebbe mai finire di porre, a tal punto
qualsiasi risposta si trova ad essere, ogni volta, rimessa in discussione nella
durata specifica e nella condizione di visibilità di ogni nuova esperienza.
Sarebbe troppo facile spostare la questione a un livello metafisico in cui il
tempo verrebbe elevato a un’ideale «condizione trascendentale», e in cui il
vedere sarebbe, invece, abbassato a un’esperienza troppo concreta, troppo terra
terra, quella di una semplice condizione immanente, anzi illusoria, di
sensibilità. Non creiamo troppo in fretta artificiose gerarchie ontologiche: è
una trappola in cui cadono spesso i filosofi generalisti o i teorici
frettolosi. Noi percepiremo il tempo solo attraverso la nostra esperienza della
psiche, del corpo e dello spazio che ci circonda; possiamo orientarci nel
visibile solo attraverso una certa percezione della durata, della memoria, del
desiderio, del prima e del dopo: un certo «tremore del tempo». Separare il
visibile dal tempo equivarrebbe forse a rendere più chiari, più univoci, certi
vocaboli; ma condurrebbe, in realtà, a rendere le cose – e soprattutto le
relazioni – incomprensibili e disincarnate. Sarebbe dunque necessario capire come vedere e essere
nel tempo non si separino, e anzi si comprendano reciprocamente.
Vedere il tempo – esperienza che richiede, in particolare,
tutto il necessario contributo delle immagini alla conoscenza della storia,
inclusa quella politica –, significa in realtà sdoppiare la propria esperienza
del tempo, se è vero che già il fatto di vedere «richiede tempo». Poiché vedere,
è tempo, qualunque cosa si faccia: tempo disposto in ritmi dai movimenti
stessi, reciproci, del visibile e di chi vede. Tali movimenti sono complessi e
incessanti. La separazione accademica tra «arti del tempo» e «arti dello
spazio» (da queste ultime procederebbero le immagini pittoriche, scultorie o
fotografiche) dipende da una semplificazione molto ingenua, se non pericolosa.
Vedere, è innanzitutto vedere questo, e poi, subito dopo, quello. Vedere cambia
perpetuamente la natura di ciò che viene visto, così come il modo d’essere di
colui che vede. Significa aprire gli occhi, ma anche chiuderli (in caso
contrario, l’occhio diverrà secco e morirà), dunque produrre il ritmo «a
scatti» di un’apertura e di una chiusura delle palpebre. Significa avvicinarsi
(perché da troppo lontano non si vede nulla), ma anche prendere le distanze
(perché di quel che è troppo vicino non si vede nulla). Significa porsi di
fronte, ma anche di sbieco e in tutte le direzioni. Non è forse vero che i
nostri occhi non smettono mai di volgersi a destra e a sinistra, in alto e in
basso, e tutto questo viene guidato da un corpo che non cessa mai di muoversi
nello spazio? Vedere non è forse anche, talvolta, vedere attraverso le lacrime,
attraverso le emozioni in generale? Non è forse, ad esempio quando ci si trova
al buio, non saper più distinguere ciò che ci appare, sia esso fenomeno
(esterno, oggettivo) o fosfene (interno, soggettivo)?
Tutta la difficoltà, in quest’esperienza sempre in movimento
del visibile, e in ciò che essa può insegnarci, consiste nel non ridurne la
complessità, nel non richiudere ciò che sperimentiamo
nell’ordine del sensibile, sia di fronte a un fatto di cui eventualmente ci
troviamo ad essere testimoni, sia davanti a un documento visuale che, esso
stesso, offra testimonianza di tale fatto. Occorrerebbe, sul piano teorico come
su quello pratico, essere capaci di non immobilizzare le
immagini, ossia di non isolarle dalla loro capacità di rendere percepibile un
certo istante, o durata, o memoria, o desiderio, ecc., in breve un certo tempo
umano in cui le dimensioni oggettive e soggettive del tempo si
congiungono in quella che noi chiamiamo storia. Ma un tale compito – quello di
lasciare al sensibile e al tempo le loro labilità, i loro movimenti e perfino
le loro turbolenze – non ha nulla di facile. Gli ostacoli sono legione.
Dal lato degli esperti di storia, la tentazione di
immobilizzare le immagini – che è un modo per semplificarle, e semplificare,
così, la vita dello storico stesso – si è manifestato tramite la riduzione di
esse a un semplice statuto funzionale, quello dei «documenti visuali».
L’immagine, allora, serve da pura e semplice «appendice iconografica» nei libri
di storia, come si può constatare in quello che resta nondimeno uno dei
capolavori della scuola delle «Annales», mi riferisco a Les rois
thaumaturges di Marc Bloch2. Si tratta di un modo per ridurre
le immagini a una funzione, riducendo quest’ultima a un’imitazione della
realtà fattuale, una rappresentazione – altrettanti approcci
all’immagine che la storia e la teoria dell’arte, a partire da Wölfflin,
Warburg o Riegl, senza contare Walter Benjamin o Carl Einstein – hanno
risolutamente decostruito3. Certo, gli eredi della scuola delle
«Annales» hanno prestato un’attenzione sempre crescente alle immagini
considerate in quanto «monumenti», e non solo in quanto documenti, della
storia. Ma perlopiù l’hanno fatto continuando a ricorrere a una nozione di
rappresentazione che partiva dal presupposto di poter ridurre le immagini allo
statuto di un comodo «specchio delle mentalità»4, senza considerare il
fatto che lo specchio, nelle immagini – e dalle immagini – viene assai spesso
infranto.
Dal lato degli esperti di arti visuali, la tentazione
epistemologica di immobilizzare il vedere e l’oggetto del vedere – come
l’entomologo che fa morire la sua farfalla preferita per spillarla su una
tavola di sughero e, ormai, può osservarla tranquillamente, fissamente, con uno
sguardo morto al pari dell’animale stesso – sovente non è minore. Si
immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si considera innanzitutto come un
testo da decifrare, un enigma da risolvere. Erwin Panofsky non considerava
forse l’iconologia come la disciplina votata, di fronte alle immagini, a
«risolvere l’enigma della sfinge» (solving the riddle of the sphinx)5?
Ma non è semplificare l’immagine il voler presupporre in essa una «chiave»
d’interpretazione che consenta di aprire tutte le sue porte? D’altronde, si
immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si riduce a un «posto dello
spettatore» prestabilito, inamovibile, o per confermare la regola del «punto di
vista» prospettivistico6, oppure per stabilire un regime di visione
modernista secondo cui l’oggetto visibile dovrebbe essere assolutamente
«specifico» affinché l’atto di vedere si estirpi da ogni durata e da ogni
«psicologia»7 (cosa che, in rapporto alla nostra esperienza
concreta delle immagini, apparirà presto come una pura e semplice visione
mentale, anzi un imperativo categorico privo di senso). (…)
Traduzione di Giuseppe Zuccarino.
Note
1 G. Didi-Huberman, Libres yeux de l’histoire, testo datato
2017 e pubblicato in «Europe», 1069, 2018, pp. 18-30. [N. d. T.]
2 M. Bloch, Les rois thaumaturges. Étude sur le
caractère surnaturel attribué à la puissance royale, particulièrement en France
et en Angleterre (1924), Paris, Gallimard, 1983, pp. 449-459 (Appendice
II. Le dossier iconographique) [tr. it. I re taumaturghi. Studi sul
carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in
Francia e in Inghilterra, Torino, Einaudi, 1973].
3 G.
Didi-Huberman, Imitation, représentation, fonction. Remarques sur un
mythe épistémologique (1992), in AA. VV., L’image. Fonctions
et usages des images dans l’Occident médiéval, a cura di J. Baschet e J.-C.
Schmitt, Paris, Le Léopard d’Or, 1996, pp. 59-86.
4 Roger
Chartier, Le monde comme représentation, in «Annales E.S.C.», 6,
1989, pp. 1505-1520. Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le
point de vue en histoire, tr. fr. Paris, Gallimard, 2001, pp. 73-88 [Occhiacci
di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998].
François Hartog, Évidence de l’histoire. Ce que voient les historiens,
Paris, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, 2005; ried.
Paris, Gallimard, 2007.
5 E.
Panofsky, Meaning in the Visual Arts (1939-1955), Oxford-New
York, Oxford University Press (ried. Chicago-London, The University of Chicago
Press, 1982), p. 57 (tr. fr. Essais d’iconologie. Les thèmes humanistes
dans l’art de la Renaissance, Paris, Gallimard, 1967, p. 22) [tr. it. Il
significato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1962; 2010, p. 37].
6 E.
Panofsky, La perspective comme forme symbolique (1927),
in La perspective comme forme symbolique et autres essais, tr. fr.
Paris, Éditions de Minuit, 1975, pp. 37-182 [tr. it. La prospettiva
come «forma simbolica» e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961]. Hubert
Damisch, L’origine de la perspective, Paris, Flammarion, 1987; ed.
riveduta, 1993, pp. 21-36 [tr. it. L’origine della prospettiva,
Napoli, Guida, 1992].
7 Michael
Fried, La place du spectateur. Esthétique et origines de la peinture
moderne (1980), tr. fr. Paris, Gallimard, 1990.
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