31 agosto 2024

GEORGES DIDI-HUBERMAN VEDE LA STORIA CON I SUOI OCCHI

 


Georges Didi-Huberman

Liberi occhi della storia - 1

Tratto da AA. VV. (a cura di Giuseppe Zuccarino),
Un seminario su Georges Didi-Huberman,
in “La Biblioteca di RebStein”, vol. XC, 2024.

 

Come vedere il tempo? In che modo il tempo si rende percepibile? Sono domande che non si potrebbe mai finire di porre, a tal punto qualsiasi risposta si trova ad essere, ogni volta, rimessa in discussione nella durata specifica e nella condizione di visibilità di ogni nuova esperienza. Sarebbe troppo facile spostare la questione a un livello metafisico in cui il tempo verrebbe elevato a un’ideale «condizione trascendentale», e in cui il vedere sarebbe, invece, abbassato a un’esperienza troppo concreta, troppo terra terra, quella di una semplice condizione immanente, anzi illusoria, di sensibilità. Non creiamo troppo in fretta artificiose gerarchie ontologiche: è una trappola in cui cadono spesso i filosofi generalisti o i teorici frettolosi. Noi percepiremo il tempo solo attraverso la nostra esperienza della psiche, del corpo e dello spazio che ci circonda; possiamo orientarci nel visibile solo attraverso una certa percezione della durata, della memoria, del desiderio, del prima e del dopo: un certo «tremore del tempo». Separare il visibile dal tempo equivarrebbe forse a rendere più chiari, più univoci, certi vocaboli; ma condurrebbe, in realtà, a rendere le cose – e soprattutto le relazioni – incomprensibili e disincarnate. Sarebbe dunque necessario capire come vedere e essere nel tempo non si separino, e anzi si comprendano reciprocamente.

Vedere il tempo – esperienza che richiede, in particolare, tutto il necessario contributo delle immagini alla conoscenza della storia, inclusa quella politica –, significa in realtà sdoppiare la propria esperienza del tempo, se è vero che già il fatto di vedere «richiede tempo». Poiché vedere, è tempo, qualunque cosa si faccia: tempo disposto in ritmi dai movimenti stessi, reciproci, del visibile e di chi vede. Tali movimenti sono complessi e incessanti. La separazione accademica tra «arti del tempo» e «arti dello spazio» (da queste ultime procederebbero le immagini pittoriche, scultorie o fotografiche) dipende da una semplificazione molto ingenua, se non pericolosa. Vedere, è innanzitutto vedere questo, e poi, subito dopo, quello. Vedere cambia perpetuamente la natura di ciò che viene visto, così come il modo d’essere di colui che vede. Significa aprire gli occhi, ma anche chiuderli (in caso contrario, l’occhio diverrà secco e morirà), dunque produrre il ritmo «a scatti» di un’apertura e di una chiusura delle palpebre. Significa avvicinarsi (perché da troppo lontano non si vede nulla), ma anche prendere le distanze (perché di quel che è troppo vicino non si vede nulla). Significa porsi di fronte, ma anche di sbieco e in tutte le direzioni. Non è forse vero che i nostri occhi non smettono mai di volgersi a destra e a sinistra, in alto e in basso, e tutto questo viene guidato da un corpo che non cessa mai di muoversi nello spazio? Vedere non è forse anche, talvolta, vedere attraverso le lacrime, attraverso le emozioni in generale? Non è forse, ad esempio quando ci si trova al buio, non saper più distinguere ciò che ci appare, sia esso fenomeno (esterno, oggettivo) o fosfene (interno, soggettivo)?

Tutta la difficoltà, in quest’esperienza sempre in movimento del visibile, e in ciò che essa può insegnarci, consiste nel non ridurne la complessità, nel non richiudere ciò che sperimentiamo nell’ordine del sensibile, sia di fronte a un fatto di cui eventualmente ci troviamo ad essere testimoni, sia davanti a un documento visuale che, esso stesso, offra testimonianza di tale fatto. Occorrerebbe, sul piano teorico come su quello pratico, essere capaci di non immobilizzare le immagini, ossia di non isolarle dalla loro capacità di rendere percepibile un certo istante, o durata, o memoria, o desiderio, ecc., in breve un certo tempo umano in cui le dimensioni oggettive e soggettive del tempo si congiungono in quella che noi chiamiamo storia. Ma un tale compito – quello di lasciare al sensibile e al tempo le loro labilità, i loro movimenti e perfino le loro turbolenze – non ha nulla di facile. Gli ostacoli sono legione.

Dal lato degli esperti di storia, la tentazione di immobilizzare le immagini – che è un modo per semplificarle, e semplificare, così, la vita dello storico stesso – si è manifestato tramite la riduzione di esse a un semplice statuto funzionale, quello dei «documenti visuali». L’immagine, allora, serve da pura e semplice «appendice iconografica» nei libri di storia, come si può constatare in quello che resta nondimeno uno dei capolavori della scuola delle «Annales», mi riferisco a Les rois thaumaturges di Marc Bloch2. Si tratta di un modo per ridurre le immagini a una funzione, riducendo quest’ultima a un’imitazione della realtà fattuale, una rappresentazione – altrettanti approcci all’immagine che la storia e la teoria dell’arte, a partire da Wölfflin, Warburg o Riegl, senza contare Walter Benjamin o Carl Einstein – hanno risolutamente decostruito3. Certo, gli eredi della scuola delle «Annales» hanno prestato un’attenzione sempre crescente alle immagini considerate in quanto «monumenti», e non solo in quanto documenti, della storia. Ma perlopiù l’hanno fatto continuando a ricorrere a una nozione di rappresentazione che partiva dal presupposto di poter ridurre le immagini allo statuto di un comodo «specchio delle mentalità»4, senza considerare il fatto che lo specchio, nelle immagini – e dalle immagini – viene assai spesso infranto.

Dal lato degli esperti di arti visuali, la tentazione epistemologica di immobilizzare il vedere e l’oggetto del vedere – come l’entomologo che fa morire la sua farfalla preferita per spillarla su una tavola di sughero e, ormai, può osservarla tranquillamente, fissamente, con uno sguardo morto al pari dell’animale stesso – sovente non è minore. Si immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si considera innanzitutto come un testo da decifrare, un enigma da risolvere. Erwin Panofsky non considerava forse l’iconologia come la disciplina votata, di fronte alle immagini, a «risolvere l’enigma della sfinge» (solving the riddle of the sphinx)5? Ma non è semplificare l’immagine il voler presupporre in essa una «chiave» d’interpretazione che consenta di aprire tutte le sue porte? D’altronde, si immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si riduce a un «posto dello spettatore» prestabilito, inamovibile, o per confermare la regola del «punto di vista» prospettivistico6, oppure per stabilire un regime di visione modernista secondo cui l’oggetto visibile dovrebbe essere assolutamente «specifico» affinché l’atto di vedere si estirpi da ogni durata e da ogni «psicologia»7 (cosa che, in rapporto alla nostra esperienza concreta delle immagini, apparirà presto come una pura e semplice visione mentale, anzi un imperativo categorico privo di senso). (…)

Traduzione di Giuseppe Zuccarino.


Note

1 G. Didi-Huberman, Libres yeux de l’histoire, testo datato 2017 e pubblicato in «Europe», 1069, 2018, pp. 18-30. [N. d. T.]

2 M. Bloch, Les rois thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royale, particulièrement en France et en Angleterre (1924), Paris, Gallimard, 1983, pp. 449-459 (Appendice II. Le dossier iconographique) [tr. it. I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino, Einaudi, 1973].

3 G. Didi-Huberman, Imitation, représentation, fonction. Remarques sur un mythe épistémologique (1992), in AA. VV., L’image. Fonctions et usages des images dans l’Occident médiéval, a cura di J. Baschet e J.-C. Schmitt, Paris, Le Léopard d’Or, 1996, pp. 59-86.

4 Roger Chartier, Le monde comme représentation, in «Annales E.S.C.», 6, 1989, pp. 1505-1520. Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire, tr. fr. Paris, Gallimard, 2001, pp. 73-88 [Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998]. François Hartog, Évidence de l’histoire. Ce que voient les historiens, Paris, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, 2005; ried. Paris, Gallimard, 2007.

5 E. Panofsky, Meaning in the Visual Arts (1939-1955), Oxford-New York, Oxford University Press (ried. Chicago-London, The University of Chicago Press, 1982), p. 57 (tr. fr. Essais d’iconologie. Les thèmes humanistes dans l’art de la Renaissance, Paris, Gallimard, 1967, p. 22) [tr. it. Il significato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1962; 2010, p. 37].

6 E. Panofsky, La perspective comme forme symbolique (1927), in La perspective comme forme symbolique et autres essais, tr. fr. Paris, Éditions de Minuit, 1975, pp. 37-182 [tr. it. La prospettiva come «forma simbolica» e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961]. Hubert Damisch, L’origine de la perspective, Paris, Flammarion, 1987; ed. riveduta, 1993, pp. 21-36 [tr. it. L’origine della prospettiva, Napoli, Guida, 1992].

7 Michael Fried, La place du spectateur. Esthétique et origines de la peinture moderne (1980), tr. fr. Paris, Gallimard, 1990.

***


IL CONTRODOLORE DI ALDO PALAZZESCHI

 



Nel gennaio 1914 Aldo Palazzeschi lanciò sulle pagine di Lacerba un manifesto futurista di robusta ironia e grande qualità letteraria. Dal “Controdolore”:
“Trasformare i funerali in cortei mascherati, predisposti e guidati da un umorista che sappia sfruttare tutto il grottesco del dolore. Modernizzare e rendere confortables i cimiteri mediante buvette, bars, skating, montagne russe, bagni turchi, palestre. Organizzare scampagnate diurne e bals masqués notturni nei cimiteri”.

ALFONSO GATTO, I poveri hanno il freddo della terra

 



I poveri hanno il freddo della terra.
Nella città spiovente, ai tetti, al fumo
tranquillo delle case, il giorno migra
nel colore d'oriente: così calma
la sera agli occhi mesti si fa lume.

Io li ricordo contro un cielo d'aria,
i poveri stupiti, come l'agro
verde dei prati sfiora nella pioggia
una velata eternità di sole.

Alfonso Gatto

30 agosto 2024

RILEGGERE J. P. SARTRE

 


Tra una settimana esce in libreria un LIBRO DA LEGGERE.

Interprete eretico della fenomenologia e del marxismo, scrittore eclettico che spazia dal teatro al cinema, genio letterario che si reinventa filosofo impegnato, Sartre non si riesce a cogliere se non in movimento. Il suo esistenzialismo è un’apertura sul mondo, dai primi scritti in cui la libertà emerge con il suo potere trasformativo fino alle opere più mature, dove interroga il senso della storia e della biografia, auspicando di scardinare qualsiasi sistema fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento. La sua sarà sempre una filosofia della libertà, un richiamo radicale alla responsabilità e al contempo una comprensione quanto mai acuta delle dinamiche di condizionamento dei soggetti. Dalla sua infanzia all’occupazione di Parigi, dalla Resistenza alla guerra fredda, Sartre attraversa i momenti epocali del secolo breve senza mai tirarsi indietro, nella vita come nelle pagine della sua filosofia. Le sue lotte sono anche e ancora i nostri conflitti: per questo, rileggere oggi Sartre, in un viaggio che ne ripercorre le scelte filosofiche ed esistenziali, significa trovare una guida per il nostro tempo.

#sartre #jeanpaulsartre #philosophy #existentialism

 


TERRAZZE RACCONTANO

 

Terrazzo Castello di Marineo, ph.  giuseppe passarello


 

Foto Archivio Centro Studi e Iniziative di Marineo




ph  h. cartier bresson 



"Abbiamo a nostra disposizione una bellissima terrazza, dalla quale ammiriamo lo sconfinato mare durante il giorno e il magnifico cielo durante la notte. Il cielo sgombro di ogni fumosità cittadina permette di godersi queste meraviglie col massimo di intensità. I colori dell'acqua marina e del firmamento sono veramente straordinari per la varietà e la profondità: ho visto degli arcobaleni unici nel loro genere"

Antonio Gramsci a Giulia, Confino di Ustica 15.1.1927 







ESTER GUGLIELMINO, Credevi fosse una corsa

 

ph. nino migliori


Credevi fosse una corsa
questa cosa della vita,
un percorso a ostacoli
da tentare coi muscoli
allenati, una resistenza
di fiato e di polmoni, slanci
potenti a smarcare l'avvenire.
Credevi non cedessero
le ginocchia giù per strada,
non s'attaccasse stretta
la pelle sulle ossa, credevi
nella fede della macchina
perfetta, nel ritmo rodato
del tutto sempre a tempo,
nella certezza d'esserci
minuto per minuto; e ora
che hai tracciato cento corse
sull'asfalto e hai tagliato
traguardi su traguardi
a braccia tese, vedi quanto
sia ingenuo il mito dell'umano,
la sicumera dello stacco
che s'innalza sulla fine.

Niente medaglie verso cui tendere
le mani, né testimoni a rendere
la gloria del futuro; solo
i tuoi passi a scrivere
una storia fra le tante
da dissolvere in mille
nodi di polvere nell'aria.


Ester Guglielmino, 2024

GLORIA ETERNA A GOLIARDA SAPIENZA

 





Il 30 agosto del 1996 moriva in assoluta povertà Goliarda Sapienza. Goliarda morì senza mai vedere la pubblicazione delle sue opere. In vita tutte le case editrici l'avevano rifiutata salvo poi beatificarla lucrando post mortem sulla sua immensa arte. 

Oggi la voglio ricordare con questi suoi versi:


Risalire devi il fiume
del tuo sangue
fino alla fonte
dove la morte
ha deposto le sue uova
Là dove l'acqua
è trasparente
afferrati alle rocce
spargi il tuo seme
Goliarda Sapienza

FINZIONE E VERITA'

 



Finzione e verità: “Incorreggibili” di Paola Moretti

Susan Sontag sostiene che ricordare non significhi richiamare alla mente una storia ma essere in grado di evocare un’immagine, secondo Annie Ernaux equivale a perlustrare il baratro tra la sconvolgente realtà di ciò che avviene e l’anomala irrealtà che a distanza di tempo riveste ciò che è accaduto. In una continua sequenza di immagini, ingrandimenti, divagazioni apparenti, con un incedere a tratti incerto tra ricordi e visioni sul presente, Paola Moretti si interroga sul proprio smarrimento, rintraccia nella scrittura un atto che sancisce la perdita, definita nell’istante in cui ci si confronta con l’impossibilità di una reale rappresentazione.

Con Incorreggibili (66thand2nd) si cala nelle storie di scrittrici che ne hanno influenzato il cammino personale e letterario. Cerca paradigmi ricorrenti, elementi biografici rivelatori, aspetti espressivi, linguistici e formali che possano aiutarla a definirsi e confrontarsi col dubbio, condizione legata all’immaginazione e all’assenza: “Che cos’è finzione, cos’è verità?”.

Dopo il romanzo d’esordio Bravissima (66thand2nd) e l’antologia Donne d’America curata con Giulia Caminito per Bompiani, Moretti arriva a interrogare Elfriede Jelinek, Fleur Jaeggy, Clarice Lispector, Jane Bowles, per affrontare lo smarrimento di sé, esplorare una cocente solitudine in relazione alla perdita e provare a maneggiare il lutto la cui elaborazione è intesa come un apprendistato per imparare a reggere il distanziamento.

Come insegna Jelinek, chi scrive necessita di distaccarsi dal centro dell’azione. Centrale in tale intento per Moretti collocarsi nell’intersezione tra generi diversi, dal memoir alla critica letteraria, riconoscendo nella scrittura di sé il “coltello per vivisezionare il mondo”, come la definisce Neige Sinno in Triste tigre (Neri Pozza), con un’impronta estetica e politica. Farlo a partire dal viaggio da cui tutto ha avuto inizio, un furgone Volkswagen stipato di “suppellettili di una vita che doveva iniziare”, traccia il tentativo di districare un groviglio interiore tra fugaci euforie e perdite che contribuiscono a sondare l’indicibile, da maneggiare attingendo ad altre storie, con esempi di scrittura e di vita che illuminano il percorso.

Sfilano sulla pagina le immagini di Jelinek dall’infanzia alla vita adulta, che a causa delle forti pressioni in ambito artistico sviluppò disturbi d’ansia generalizzata che le impedirono di presenziare alla premiazione per il Nobel e che la condussero a isolarsi in una dimora al limitare del bosco. Quel che l’autrice austriaca visse nell’infanzia determinò i grandi temi d’indagine delle sue opere, come rivela La pianista nel rappresentare un rapporto morboso materno che traccia una feroce critica sociale. Per Moretti il suo esempio risiede nel riconoscere nella scrittura un mezzo per uscire dalla sfera psicologica e personale e “rappresentare paradigmi dell’attualità politica in un’audace simmetria di forma e contenuto”.

Secondo Susan Sontag ci sono epoche in cui, più che la verità, c’è bisogno di approfondire il senso della realtà e di espandere l’immaginazione. Si chiede se sia sempre la verità ciò che si desidera: se la verità è equilibrio, il suo opposto, lo squilibrio, può non essere una falsità (Contro l’interpretazione, trad. Paolo Dilonardo, nottetempo).

La verità ricercata da Moretti risiede nel riconoscere un nuovo senso nel vivere attraverso voci immerse in un dolore radicato. Chi vive, come lei e la maggior parte degli expat, un rapporto disfunzionale con la città, riconosce una profonda solitudine e un senso di libertà estrema in un luogo d’elezione lontano da quello d’origine. Il concetto di appartenenza sfuma nel divenire apolide, nella sensazione di essere “una specie di essere liminale che osserva la vita scorrere senza mai prendervi completamente parte”.
Riconosce nelle pagine di Jane Bowles una profonda affinità nelle ricorrenze sulla casa come simbolo astratto e necessità reale, nella rivendicazione di non appartenere ad alcun luogo e nella scelta di popolare le sue storie di figure eccentriche e dolenti nelle quali lasciare frammenti di sé.

Il senso di tali ritratti letterari rivela sottotraccia una comunanza utile a un graduale svelamento di sé nel racconto della storia personale e artistica di Paola Moretti. È una vicinanza attestata non solo nelle ossessioni condivise – gli sconfinamenti linguistici e culturali di Jaeggy, l’alienazione di Bowles, l’impossibilità di Jelinek di definirsi nel concetto di identità, la concezione del linguaggio di Lispector – ma anche nella scissione, in quella “frattura primigenia tra il proprio essere e il luogo in cui si trova” condivisa con le scrittrici che studia.

La dimensione linguistica in tale prospettiva garantisce un’alienazione salvifica, traccia un solco nell’evoluzione creativa, scompagina certezze stilistiche e formali nel favorire l’individuazione di una voce letteraria diversa, ma al contempo profondamente riconoscibile come propria.

Con Incorreggibili Paola Moretti consegna un’esplorazione sensibile calata in altre visioni che identifica nuove consapevolezze letterarie e personali. In un’indistinguibilità di arte e vita, afferma una spazio privato nelle intercapedini capaci di garantire una distanza necessaria a scrutare i propri vuoti, in una zona franca generata dall’impossibilità di una reale coincidenza, come accade tra idiomi.

Ho capito che la mia dimora è nello spazio di intersezione.

29 agosto 2024

VERRA' LA MORTE E AVRA' I TUOI OCCHI

 


IL POETA CON LA FRUSTA

 


IL POETA CON LA FRUSTA

di Andrea Cortellessa

 

Milano, primi anni Sessanta. A Piazza del Duomo la Marcia per il disarmo nucleare si conclude cogli interventi dal palco, ma per colpire l’uditorio serve qualcosa di forte, icastico. Se possibile, anti-retorico. La sera prima gli organizzatori si arrovellano sulla scaletta: Umberto Eco propone un minuto di raccoglimento per le vittime della Bomba, ma c’è chi rilancia. «Un minuto è troppo poco». Facciamo cinque, allora. «Ma», si obietta, «come si fa a tenere la gente zitta per cinque minuti?». Risponde Eco: salirà qualcuno sul palco, come per prendere la parola, ma resterà immobile e in silenzio, incrollabile. «E la persona giusta», aggiunge a tradimento, «è Nanni». Come nella Vocazione di Caravaggio, in fondo al tavolo alza la zazzera bionda il giovane poeta restato sino a quel momento in silenzio: «Io?». Ma il giorno dopo funziona tutto a maraviglia: «magro e pallido, stagliato contro le luci del tramonto, sembrava davvero il cadavere di una di quelle vittime. Migliaia di persone e non si sentiva volare una mosca». Chi racconta (in Nanni Balestrini Millepiani, curato due anni fa da Sergio Bianchi per DeriveApprodi) è uno dei manifestanti di allora, G.B. Zorzoli, ingegnere collega di Eco alla RAI che poi si sarebbe occupato proprio di energia nucleare e fonti rinnovabili, e per tutta la vita resterà amico del poeta-statua. Conclude GBZ: «Nanni non impressionò soltanto i manifestanti, ma anche sé stesso»; sceso dal palco lui, laconico come sempre, s’era limitato a dire: «Questa sera ho capito molte cose».

Secondo Zorzoli Nanni, che politica sino ad allora non l’aveva mai fatta, da quel momento cominciò a pensare che se la poesia si fa con le parole, la politica si fa soprattutto coi gesti. Ma quel silenzio carico di tensione veniva da lontano: l’aveva brevettato una decina d’anni prima John Cage (ben noto a quella couche: nel ’59 il sempre sulfureo Eco l’aveva spedito a Lascia o raddoppia dove farà una serie di comparsate memorabili in qualità di esperto di funghi) coi mitici 4’33” nei quali, musicalmente, non succede niente: e, proprio per questo, tutto può succedere. Certo bisognerà aspettare il Sessantotto per battezzare una volta per tutte il Balestrini militante. Sarà quello il momento in cui decide senza troppi patemi di sbarazzarsi del Gruppo 63 e di «Quindici» (i coéquipiers non la prendono benissimo), poi fonda Potere Operaio e brevetta il brand fortunatissimo di Vogliamo tutto, per poi nell’aprile del ’79 insieme a tanti altri finire nelle panie del Teorema Calogero, darsi alla macchia con un’epica fuga in sci attraverso le Alpi (fantastica la resa poetica dell’episodio, l’anno dopo, in Blackout), venire scagionato e tornare in patria dopo cinque anni d’esilio fra Parigi e la Provenza (e sarà il tempo dei bellissimi Iposonetti).

In verità però sin dall’inizio l’acerbo Nanni, allievo di Luciano Anceschi al Liceo Vittorio Veneto di Milano e poi instancabile factotum alla rivista da lui fondata nel ’56, «il verri», aveva avuto chiaro come Fare Cose Con Le Parole (per dirla col titolo del libro di J.L. Austin uscito postumo nel ’62; l’anno dopo il titolo della sua prima raccolta organica, tratto da Brecht, suonerà Come si agisce), cioè trattare il linguaggio «come fatto verbale» che ci fa fare «incontri inediti e sconcertanti»: in questo modo la poesia si fa «frusta per il cervello del lettore», mostrandosi «aperta a una pluralità di significati e aliena dalle conclusioni», capace di aderire all’«inafferrabile» e al «mutevole», nientemeno, che «della vita». Sono parole tratte dall’unica poetica che mai Balestrini abbia accettato di enunciare, Linguaggio e opposizione, non a caso tenendo questo scritto per valido dall’antologia dei Novissimi, 1961, sino alle tarde auto-antologie nelle quali, mezzo secolo dopo presso DeriveApprodi, ha provveduto alla sistemazione del proprio corpus.

E giustamente da questo testo prende le mosse Cecilia Bello Minciacchi nel libro, ponderoso quanto prezioso, che per la prima volta riassume tutta intera – a cinque anni dalla scomparsa – la storia di Balestrini scrittore. Era stato tante altre cose, si sa: non solo militante politico ma anche organizzatore culturale (attivista poetico, non manager), editore di collane e riviste, artista visivo (di recente celebrato da mostre importanti a Barcellona e New York). Come lui stesso ammetteva pacificamente non tutto collima, non tutto si può accordare con tutto (e vorrei vedere, in sessant’anni e passa d’attività); e personalmente non nascondo che, più di Cecilia, sarei portato a enfatizzare le varianti, anziché le costanti. Se Balestrini è sempre stato un anti-storicista militante, anche nella sua storia d’autore non ha mai dissimulato le discontinuità che tanto più danno valore, del resto, alle altrettanto innegabili continuità. Ma non si può negare che in tutte queste vesti multiformi – pied beauty come il suo allegorico avatar, la Signorina Richmond, mitologico uccello in volo fra i tardi anni Settanta e i primi Novanta, che simboleggia insieme la Poesia, la Rivoluzione, l’Eterno Femminino: e il nostro amore, sempre disilluso e mai estinto, per tutte loro – Nanni abbia inseguito sempre, instancabile, quell’inaspettato della vita e dell’arte che dà luogo, ogni volta, a «una autentica avventura».

Linguaggio e opposizione vede la luce, prima che nell’antologia curata da Alfredo Giuliani su impulso di Anceschi, sulla «Fiera letteraria» nel luglio del ’60. Poche settimane prima, a Cannes, conseguiva il Gran Premio della Giuria L’avventura di Michelangelo Antonioni. (La Palma d’oro invece arrise alla Dolce vita di Fellini, l’anno dopo esordirà alla macchina da presa Pasolini con Accattone, quattro anni dopo Bellocchio coi Pugni in tasca. Erano tempi così.) Proprio Eco in Opera aperta, 1962, sintetizzava la novità di Antonioni nel suo rendere la casualità della vita com’è (Comment c’est di Beckett è dell’anno precedente) con una «casualità “voluta”», ossia una sospensione dei nessi narrativi tradizionali e un’apertura del testo come «campo di possibilità». Questo il senso del titolo: tanto ironico sullo svuotamento dall’interno dell’“avventura” dei due fedifraghi protagonisti, quanto serio come un manifesto dell’avventura dell’arte 

Nella letteratura d’allora non c’è dubbio che a raccogliere quella sfida, con tutti rischi e le possibilità del caso, sia stata la Neoavanguardia del Gruppo 63. Chi oggi continua a esserne terrorizzato, magari senza troppo conoscerla (ed è la maggioranza), si trova spesso nell’ambascia di apprezzare – se non feticizzare – suoi singoli, più o meno organici, componenti. E deve così affrettarsi a specificare che Sanguineti o Porta, Pagliarani o Ripellino, per non parlare di Manganelli Arbasino o Rosselli, con quelli non c’entrava, passava lì per caso. Stando a queste chiamiamole ricostruzioni si dovrebbe pensare insomma che il Gruppo lo componesse il solo Balestrini: per il buon motivo che, in termini organizzativi e promozionali, se l’era inventato. Ed è infatti oggi, di tutti loro, il più vituperato.

Per dirla con un suo titolo, non da oggi su di lui girano voci, circolano cioè quattro falsi miti (a seconda delle intenzioni di chi li propali, slogan pubblicitari ovvero leggende nere). Il primo mito è che la sua scrittura sia fredda e laboratoriale, tutta di testa e perfettamente priva d’emozione. Il secondo, corollario del primo, è che sia asemantica o come piace dire oggi asemica, cioè puramente composizionale e non referenziale. Il terzo è che (© Eco) «di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui» (alludendo al suo gesto più scandaloso, la poesia scritta “al computer”, nel ’61, di Tape Mark 1: che infatti oggi, fuori dalla nostra beata provincia, viene additata come pionieristica e profetica). Il quarto mito (che a ben vedere contraddice il terzo…) postula il suo avanguardismo come disprezzo, o semplice ignoranza, della tradizione.

Di tutta questa fuffa il libro di Bello Minciacchi, senza troppo polemizzare, fa piazza pulita una volta per tutte. Punto primo: obiettivo della poesia-frusta di Balestrini è sempre stato quello di provocare non sentimenti preconfezionati ma «emozioni mentali» (ho detto di Blackout, ma si pensi al finale della Violenza illustrata o degli Invisibili: che infatti, se qualche sopracciglio hanno fatto alzare, è per l’esatto contrario del loro presunto gelo): Bello parla a ragione di una sua «implicita» quanto inesausta «istanza morale» (è il suo etimo lombardo-germanico; personalmente il suo brechtismo meno mi convince, semmai, quando piega nel senso della morale didattica o, ha detto una volta Giuliani, del «puro contenutismo»). Punto secondo: anche quando fa veri e propri collage verbali, come nei Cronogrammi, nell’ammirarne la forma risulta «impossibile non leggere le parole e non assimilarne il significato al contempo»: il sabotaggio della comunicazione ha sempre valore performativo, è cioè una critica alla comunicazione dominante (esemplare la s-connessione tipografica di un certo episodio della Violenza illustrata). All’apparire di Tape Mark 1 Sanguineti parlerà non a caso di poesia «ex machina», alludendo appunto alla presenza di un «deus», magari absconditus ma sempre immanente. Allora come oggi (almeno si spera) la macchina non viene lasciata a sé stessa: è il servo-meccanismo di regole d’ingaggio e sistemi operativi che hanno matrice umana, e perfettamente motivata in quanto tale.

Ma è al quarto mito che Bello Minciacchi dedica la parte più impegnata e originale del suo lavoro, in sostanza un gigantesco commento al complesso dell’opera in versi e in prosa di Balestrini. (Cecilia ha avuto in sorte di lavorare, per i due autori ai quali ha dedicato le sue maggiori energie, in senso diametralmente opposto a quanto da loro prescritto: ricostruendo filologicamente il corpus che Emilio Villa per tutta la vita ha minuziosamente disperso, e censendo i materiali che Balestrini – lo disse stizzito lui, una volta, a Giuliani – non voleva assolutamente venissero riconosciuti; così una volta di più dimostrando che solo tradendoli si è davvero fedeli ai maestri.) Un commento che non solo ne riconosce le “fonti” (letterarie, certo, ma anche filosofiche, politiche, spesso giornalistiche) ma – come sempre dovrebbe fare una filologia “espansa” – ne ricostruisce i contesti, e dunque appunto i moventi. Esemplare la ricostruzione della “funzione-Foscolo”, attiva dal principio alla fine della parabola balestriniana, ma con significativa correzione dall’eroismo deluso dell’Ortis al Didimo Chierico «più disingannato che rinsavito» degli scritti (mirabili) dall’esilio di Francia e di Provenza (e poi ancora il Dante della Vita Nova; lo Heiner Müller dell’Hamlet-Maschine che sala il sangue alle «operapoesie» “femministe” per il teatro e la musica; ma anche il Lenin che fa il paio, ma anche correggendolo, con lo Stalin del maestro Sanguineti in Laborintus, ecc. ecc.). Di tutto questo bendidio che è la tradizione non solo Balestrini, come tutti i Novissimi e come ogni poeta degno di questo nome, fa tesoro a piene mani; solo che sa bene – perfetta la sintesi di Sanguineti, in un lontano dialogo con Massimo Gezzi – che «occorre utilizzarlo non come natura, ma come storia».

Una storia anti-storicista, ripassata «contropelo» come voleva Benjamin, e che – non si dovrebbe mai dimenticare – nasce dalla catastrofe dell’Age of Extremes (Balestrini era del ’35). «L’Europa cariata» dei versi aurorali del Sasso appeso è la versione balestriniana della «terra devastata» (o «paese guasto», piuttosto, giusta memoria dantesca) del più influente maestro di quella generazione, Eliot. Da quella catastrofe ci si mette «in fuga bassi dalla città minata», anche se non si sa in quale direzione («Ma dove stiamo andando col mal di testa la guerra e senza soldi?»), ma «pazienti godiamoci il viaggio». E anche se lo sappiamo bene, che «non si arriva» da nessuna parte, comunque «arriveremo». All’altro capo della parabola, nelle Radiazioni del corpo nero opportunamente riportate in appendice al libro di Cecilia, l’ultimo verso lasciato dal poeta, che si sapeva alla fine, ci si creda o meno suona: «ce la faremo». C’era chi parlava di ottimismo della volontà. Pessimisti della ragione, non finiremo mai di ringraziare chi non s’è mai stancato di insegnarcelo.

 

Cecilia Bello Minciacchi, Come agisce Balestrini. Le parole che cercano, Carocci 2024, pagg. 387, € 38


28 agosto 2024

LASCIARSI ALLE SPALLE IL PATRIARCATO

 


Lasciarsi alle spalle il patriarcato


Cristina Formica
28 Agosto 2024

La relazione tra colonialismo e violenza di genere, la neocolonizzazione che passa per il controllo del sapere e il ruolo contraddittorio di ong e università, il bisogno di imparare a pensare fuori dagli schemi accademici, la possibilità di nutrire pensiero critico attingendo dalla secolare resistenza delle comunità indigene, l’importanza di riconoscere il DNA dello Stato capitalista come un DNA patriarcale… Sono tante le chiavi di lettura proposte, in oltre trent’anni di ricerca e lotta, da Rita Laura Segato, punto di riferimento della riflessione decoloniale non solo in America latina. Tuttavia, il contributo che più di altri ha aperto una crepa negli studi sulla violenza di genere è quello legato allo stupro letto come azione agita con violenza dal maschio che afferma due assi di dialogo, il primo con la donna vittima e il secondo con il gruppo di altri maschi. È proprio riconoscendo e imparando con fatica a mettere in discussione questo secondo asse, la costruzione della mascolinità di cui sono vittime anche gli uomini, che può cambiare l’ordine delle cose intorno a cui prendono forma tutti i femminicidi


“La storia dello Stato è la storia del patriarcato e il DNA dello Stato è patriarcale” (Rita Laura Segato)

Ho una grande difficoltà a scrivere in poco spazio quanto questo testo mi abbia arricchito, suggestionato, quante cose mi abbia chiesto, quanto conferme mi abbia dato. Va assolutamente letto il libro, peraltro appena uscito in Italia, dell’antropologa e femminista argentina Rita Laura Segato, Contro-pedagogie della crudeltà, con la traduzione attenta fatta da Valeria Stabile. La pubblicazione è frutto della collaborazione tra la Casa Editrice Manifestolibri e il Dottorato nazionale di Gender Studies dell’Università di Bari (diretto da Francesca Romana Recchia Luciani).

Inspiegabilmente, Rita Laura Segato non è conosciutissima in Italia benché lavori, da più di trent’anni, sulla violenza di genere, sul razzismo e sul colonialismo, oltre approfondire e impegnarsi rispetto a molte altre cose; Marco Calabria l’amava profondamente e anche per questo rendiamo omaggio a lui, che purtroppo non c’è più per parlare di questa formidabile studiosa.

Segato ha insegnato per decenni all’Università di Brasilia e in quelle argentine, oltre ad aver svolto consulenze autorevoli nei tanti misfatti centro e sudamericani contro le donne, primo fra tutti i femminicidi di Ciudad Juarez, dove migliaia di bambine, giovani e giovanissime donne furono torturate, violentate e uccise al confine con il ricco vicino statunitense. Il percorso di studio dell’autrice parte quando, giovane ricercatrice, lavorò con le comunità indigene del Brasile, dove le donne non subivano reati, violenze, non prendevano botte, ma avevano sempre avuto, un ruolo sia pubblico che privato di tutto rispetto, una grande autonomia di decisione sia rispetto a loro stesse che alla dimensione comunitaria. Le questioni di genere, la sessualità e l’amore nelle comunità indigene brasiliane, secondo Segato, non avevano una situazione binaria maschile/femminile e uomo/donna, ma erano legate alla persona, per cui nella comunità i ruoli si riadattavano alla volontà delle persone che esprimevano il loro desiderio e il loro amore, attuando liberamente le loro scelte personali in armonia con la dimensione collettiva. Da quegli studi, la situazione delle comunità è cambiata, rileva Segato, e non in meglio.

Durante le tre straordinarie lezioni tenute nel 2016 alla Facultad Libre di Rosario, in Argentina, l’autrice spiega in termini scientifici e politici, ma soprattutto intellettuali e umani, come il cambiamento traumatico alla realizzazione umana delle originarie comunità brasiliane si ebbe con la colonizzazione, quando il centro del mondo era l’Europa e ancora lo è. Con il colonialismo crudele nasce anche la pedagogia della crudeltà, che impone agli uomini indigeni e afrodiscendenti il modello patriarcale, a cui comunque anche loro non potranno mai aspirare definitivamente perché non bianchi, ma che li ha portati a chiudere le donne nella dimensione privata della casa grazie alla cultura criolla, aderendo a un modello universale nel quale la donna è una minaccia per gli uomini e ponendo la violenza di genere come parte della struttura patriarcale e colonialista. Da 500 anni fa, la razzializzazione e la patriarcalizzazione producono cambiamenti profondi e sostanziali alle comunità indigene, mettendo gli uomini sotto il dominio del bianco (razzista, misogino, omofobo, transfobico e specista secondo Rita Laura Segato) e creando un uomo criollo disposto a punire violentemente tutto ciò che disobbedisce al patriarca.


Le tre meravigliose foto di questa pagina sono di Massimo Tennenini

La prima lezione riguarda principalmente la visione che Segato ha rispetto alla violenza sessuale, i femminicidi o femigenocidi, come lei li definisce, approfondendo i temi già proposti nel suo testo del 2003 Las estructuras elementares de la violencialo stupro è letto come un’azione agita con violenza dal maschio che afferma due assi di dialogo, il primo con la donna vittima e il secondo con il gruppo di altri maschi pari a lui. L’asse con la vittima è verticale e indica anche il livello di violenza e crudeltà espresse nella punizione fatta a una donna, che va rimessa al suo posto, che deve essere punita secondo un universale culturale comune a tutto il pianeta. L’asse orizzontale, che riguarda gli altri uomini, costituisce un dialogo in cui l’ingiunzione della mascolinità è omaggiata e sottolineata rispetto ai propri pari, egemoni sui corpi e sul ruolo sociale delle donne.


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Segato propone quest’analisi grazie ai suoi trent’anni di studi e confronti con i più terribili reati contro il genere femminile, attuati nell’America Latina in seguito a dittature, genocidi, traffici di droghe, sempre e solo per mantenere la supremazia patriarcale. Ma la svolta che lei stessa riporta, durante gli incontri descritti nel libro, è stato lo studio che ha condotto nel Carcere di Brasilia, dopo che un Colonnello della Polizia Penale le chiese di investigare su perché erano così tanti gli stupri nella capitale brasiliana. Segato incontrò gli uomini condannati per questo odioso reato, che spesso le riportarono che loro stessi non sapevano spiegarsi il motivo per cui avevano commesso il crimine, non era per un bisogno di sesso, non era perché desideravano quella donna in particolare oltre la sua volontà. Come scrive la stessa autrice,

“attraverso lo stupro, l’aggressore esige da quel corpo subordinato un tributo che fluisce verso di lui e che costruisce la sua mascolinità, perché comprova la sua potenza nella capacità di estorcere e usurpare autonomia al corpo sottomesso”.

L’affermarsi del patriarcato colonialista, che pone le donne da soggetto ad oggetto della volontà maschista, ci propone una visione fondamentale per cui è urgente per le donne tenere conto di tale visione, per difendersi e per interrompere questa realtà femminicida, che uccide anche gli stessi uomini che non aderiscono alla logica patriarcale imperante.


Messico – Dìa de los Muertos

Nella seconda lezione, Segato ricompone la diseguaglianza genere-razza, elementi sociali che si coniugano perfettamente con l’invasione europea del continente americano. Partita con lo spiegamento di forza e violenza, la disparità storica verrà poi giustificata con motivi biologici e cosiddetti scientifici, che ancora oggi sono considerati veri da gente piuttosto turpe, vedi in in Italia il dibattito infame sui tratti fisionomici italici. L’autrice inizia a proporre la sua visione rispetto all’uscita da questa realtà, estremamente violenta in generale e verso le donne: la rivolta verso la burocrazia che impone la disuguaglianza, il rifiuto dell’autoritarismo, il caldeggiare l’utopia insita nella Storia, che racchiude in sé le risposte imprevedibili dei grandi cambiamenti sociali. Le comunità indigene, secondo Segato, sono abituate a pensare guardando lontano, ad attivare forme di resistenza che permettano la loro continuità, a fronte di un mondo razzista e capitalista che vuole inglobarli dopo non essere riuscito a sterminarle. Il femminismo ha il compito fondamentale di porre in atto politiche alternative a quelle patriarcali, non copiare i modelli già imposti con la prepotenza, ma passando per modi nuovi di attuare la comunità, il potere, la cura di sé, della collettività e dell’ambiente.

Perché non contrastare il potere patriarcale porta a crimini umanitari come i femminicidi di Ciudad Juarez, in Messico, dove il machismo si realizza attraverso l’associazione mafiosa tra uomini di questo tipo, che ribadiscono la sovranità territoriale attraverso la tortura dei corpi delle donne, trattate come spazzatura, con la connivenza degli organi dello stato che tralasciano troppe tracce, troppi indizi, per non arrivare alla soluzione di questo orrore. I crimini accaduti in strada contro le donne non riguardano la sfera privata della persona offesa: Segato definisce questi delitti femigenocidi, ragazze colpite perché donne, a monito di tutte le altre e di chi non si conforma alla mafia patriarcale. Uccisioni di donne attraverso reati sessuali, perché tramite questo tipo di crimini si uccide moralmente la persona e la società di cui essa fa parte: come è sempre stato, la violenza sessuale come arma di guerra annienta il popolo che la subisce, toglie onore agli uomini: stuprare per ottenere vantaggio politico,il gruppo machista diventa dominante sugli altri uomini da conquistare. Ciudad Juarez primeggia nella violenza a livello mondiale, continentale e pure rispetto al violentissimo Messico.

Secondo Segato, la fase capitalistica che stiamo vivendo si realizza attraverso due livelli: lo Stato ufficiale, che costituisce la prima realtà, e il secondo Stato, la seconda realtà dove tutto è possibile, soprattutto la violenza contro chi è più debole, chi vale meno come le donne. I dati che l’autrice cita sono impressionanti: secondo l’ONU, nel 2015 tra le 50 città più violente del mondo molte sono in America Latina, e 21 sono brasiliane. In tutta questa violenza c’è la droga, la tratta, il contrabbando di merci tra cui le armi, azioni illegali che costituiscono ricchi proventi per la seconda realtà, da sempre possibile perché ha grande connivenze con la prima realtà. In questa guerra, vittime e oggetto di crimine sono spesso le donne.


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L’ultima lezione riprende un tema molto caro a Segato, quello delle lotte antirazziste all’interno delle università, di cui lei è stata puntuale protagonista e che hanno portato a una legge che in Brasile garantisce le quote di accesso universitario per le comunità indigene. Il tema, che parte dal diritto dei e delle giovani indigene a far parte della ricerca culturale, è sviluppato attraverso la giusta considerazione che la colonizzazione non è ancora morta, si estende anche, a volte soprattutto, attraverso il sapere. La considerazione che il mondo del pensiero latinoamericano deve porsi, secondo Segato, è che il confronto con il pensiero europeo non deve più essere perdente, ma assumere la propria autonomia di scelta su cosa e come indagare, a che problematiche rispondere, che proposte avanzare, smettendo di rispondere ai criteri del potere coloniale. Tra le critiche espresse dall’autrice, anche quella alle ONG e alle donne che lavorano nelle ONG: restituiscono una visione delle comunità indie e afrodiscendenti come antimoderne, bisognose di crescita attraverso risposte che non sono quelle da loro volute; Segato contesta fortemente il ruolo dello sviluppo e della crescita economica come destino ineluttabile, l’adesione al modello capitalistico che uccide le comunità e produce violenza, aggressione alle donne, umiliazione agli uomini che non vogliono adeguarsi a quest’evoluzione per loro non necessaria.



Leggere questo testo di Rita Laura Segato lascia tante suggestioni e molti suggerimenti: a partire dal pensare libero, non seguendo la regola ortodossa e ufficiale, con cui spaziare e agire curiosità a partire dalle proprie intuizioni, seguendo un cammino intellettuale personale che può essere diverso da quello autorizzato dalle strutture del potere, di qualsiasi potere si tratti. Fondamentale il ruolo di chi produce pensiero, nelle università, negli apparati politici, nelle società, che deve dare voce alle espressioni umane di chi non ha voce, anche attraverso l’uso di un linguaggio nuovo, che permetta di vedere i limiti, le distorsioni, i crimini che sono fatti alle persone che non si adeguano ai cambiamenti strutturali che il capitale porta avanti. È importante insegnare a pensare, rompere gli schemi delle posizioni sociali, disobbedire alle regole che non rispondo ai bisogni reali, smettere di riprodurre un sistema che uccide chi non si allinea, chi è povero, chi è diverso e diversa.

Le donne, secondo Segato, hanno un compito fondamentale, possono avere un ruolo importantissimo in questa inversione di tendenza necessaria a tutto il mondo: ricostruire i rapporti che le donne hanno portato avanti nel loro privato e rendere a livello pubblico la proposta di relazione che le donne sanno agire, smettendo la visione eurocentrica e patriarcale, della guerra contro i popoli e contro le donne. Costruire comunità resistenti che siano dentro e fuori lo stato, insistendo laddove è essenziale insistere, costruendo altrove quando è possibile, quando è necessario.

Un cammino che intuiamo, a volte anche realizziamo, che può crescere e che può continuare: anche Rita Laura Segato ci dà la forza necessaria, ogni giorno, di essere questa potenza rivoluzionaria per noi stesse e per tutt@.


Rita Laura Segato

Rita Laura Segato – Contro-pedagogie della crudeltà. Manifestolibri in collaborazione con FactoryA APS, Roma, 2024, € 20

I testi di Rita Laura Segato sono presenti nelle biblioteche femministe presenti in diverse aree italiane.


Questo articolo fa parte di Granai per la mente, uno spazio dedicato ai libri a cura di Cristina Formica (sociologa femminista, da sempre attenta ai temi dell’antifascismo e dell’antirazzismo, è autrice di È capitato anche a me. Diario delle molestie nella vita di una donna, edito da Red Star Press)

Cristina Formica ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura

Articolo ripreso da https://comune-info.net/lasciarsi-alle-spalle-il-patriarcato/