06 agosto 2014

AUGUSTO: PASSATO E PRESENTE



Einaudi ripubblica «la rivoluzione romana» di Roland Syme, il magistrale saggio del 1939 che esaminava l’ascesa di Augusto con lo sguardo rivolto ai dittatori europei del momento.
Carlo Franco

Augusto visto da Oxford
Molti sto­rici hanno inda­gato la crisi che a Roma tra­volse la repub­blica ari­sto­cra­tica fino all’instaurazione del regime di Augu­sto. E molti hanno rac­con­tato la vita del figlio adot­tivo di Cesare, che da lea­der di una fazione della guerra civile divenne ‘prin­ceps’. Nes­suno in età moderna lo ha fatto però con la forza e l’efficacia di Ronald Syme (1903–1989), sto­rico neo­ze­lan­dese tra­pian­tato a Oxford, in The Roman Revo­lu­tion. Il libro, che esa­mina l’ascesa dell’Augusto con lo sguardo rivolto ai dit­ta­tori dell’Europa nove­cen­te­sca, uscì nel set­tem­bre del 1939.
La con­co­mi­tanza con lo scop­pio del con­flitto mon­diale poteva nuo­cere: la guerra avrebbe pre­sto impo­sto una dif­fe­rente agenda all’interpretazione dei governi tota­li­tari. Ma l’opera di Syme man­tenne la pro­pria forza, e pro­prio dal dopo­guerra ha eser­ci­tato un’influenza dure­vole sugli studi. Il libro fu tra­dotto in ita­liano nel 1962, su sug­ge­ri­mento di Arnaldo Momi­gliano. Lo sto­rico, costretto all’esilio in Gran Bre­ta­gna dal 1938, aveva pron­ta­mente recen­sito Syme in una delle sue prime pub­bli­ca­zioni all’estero e firmò la pre­fa­zione all’edizione ita­liana. Altre edi­zioni nelle prin­ci­pali lin­gue euro­pee segui­rono negli anni.
Nel frat­tempo, dopo la pub­bli­ca­zione degli altri suoi libri, Syme era ormai «l’imperatore della sto­ria romana» (come lo definì Glenn Bower­sock). Ora oppor­tu­na­mente La rivo­lu­zione romana torna in libre­ria , com­plice il bimil­le­na­rio della morte di Augu­sto (morto nel 14 d.C.), con nuova intro­du­zione a cura di Giu­sto Traina, che ana­lizza effi­ca­ce­mente la rice­zione del libro (tra­du­zione di Man­fredo Man­fredi, «Pic­cola Biblio­teca Einaudi Ns», pp. XXXVIII-650,euro 35,00).
Al suc­cesso così pro­lun­gato del lavoro di Syme ha con­tri­buito, oltre al sog­getto, lo stile par­ti­co­la­ris­simo dell’autore. La sto­ria di Roma dal domi­nio di Pom­peo alla fine del prin­ci­pato di Augu­sto è rac­con­tata in pagine ner­vose e taglienti, che con­sa­pe­vol­mente guar­dano a Tacito (lo sto­rico romano a cui l’autore dedicò, anni dopo, un grande stu­dio). Sec­che frasi liqui­dano miti e gran­dezze: le cele­ber­rime Filip­pi­che di Cice­rone appa­iono «un eterno monu­mento di elo­quenza, di ran­core, di tra­vi­sa­mento dei fatti», opera di un poli­tico vit­tima di una «costante illu­sione».
La poli­tica è stu­diata nella sua forma più cruda, descritta com’è senza spe­ranza e senza ideali. L’oligarchia romana non era stata in grado di man­te­nere il con­flitto entro i con­fini della lotta per potere, ric­chezza o glo­ria: altri temi erano emersi, con la forza del denaro e delle armi. Cesare, ari­sto­cra­tico fino al midollo, si era appog­giato a sena­tori e cava­lieri, ma aveva pro­mosso anche uomini che veni­vano dalla peri­fe­ria, nuovi alla poli­tica. Come risul­tato, la fazione che sostenne poi il gio­vane erede di Cesare aveva com­preso per­so­naggi «privi di scru­poli, arric­chiti dalla guerra e dalla rivo­lu­zione», e il nuovo ordine seguito alla feroce lotta era di fatto plu­to­cra­tico. Non c’era solo Mece­nate con i suoi pen­sosi letterati.
Al cen­tro del rac­conto, oltre ai sin­goli pro­ta­go­ni­sti, stanno più in gene­rale la lotta di vari ‘par­titi’ e la crisi con­vulsa di una classe diri­gente. I nodi fami­liari e poli­tici che strin­ge­vano tra loro tutti i poli­tici di primo e secondo piano nella Roma della tarda repub­blica sono evo­cati con pre­ci­sione (secondo il metodo «pro­so­po­gra­fico») ma anche con una stra­bi­liante com­pren­sione «dall’interno», che ha fatto pen­sare per ana­lo­gia allo sguardo di Proust (cui Syme dedicò uno scritto, rima­sto ine­dito ma recen­te­mente pub­bli­cato).
In que­sta foca­liz­za­zione sulle éli­tes è stato rico­no­sciuto da tempo il senso e il limite del lavoro: dav­vero, come scrisse Momi­gliano, la sto­ria di Roma si poteva ridurre alla lotta tra fazioni, allo stu­dio dei ristretti gruppi che si con­te­sero il potere per decenni, quando venne meno il pre­ca­rio equi­li­brio della repub­blica? Quale fu il ruolo degli eser­citi, delle pro­vin­cie e, su un altro piano, dei moventi eco­no­mici? Temi que­sti non estra­nei a Syme, che alle car­riere di per­so­naggi ‘pro­vin­ciali’ dedicò studi par­ti­co­lari di grande rilievo, ma che restano sullo sfondo nella sua opera mag­giore.

La rivo­lu­zione romana non voleva essere un lavoro esau­stivo: molto lavoro c’era da fare ancora (come l’autore espli­ci­ta­mente ammet­teva), e molto da allora è stato fatto, in ricer­che impor­tanti e sol­le­ci­tate da spinte dif­fe­renti. Ad esem­pio, The last Gene­ra­tion of the Roman Repu­blic di Eric Gruen (1974) affron­tava la stessa crisi stu­diata da Syme, ma con inte­resse agli ele­menti di con­ti­nuità e alla resi­lienza delle isti­tu­zioni rispetto alle epo­che di inquie­tu­dine (i tur­moils dei tardi anni ses­santa e dei primi anni set­tanta negli Usa). Oggi, invece, nes­suna ricerca di sto­ria antica, nem­meno sull’Augusto, fa sen­tire l’urgenza di una que­stione viva: come ha osser­vato Andrea Giar­dina, «l’impero romano non suscita più pas­sioni attua­liz­zanti», ma genera al più mostre, con­ve­gni, o serie televisive.
Non era invece così negli anni trenta, dopo la fine degli imperi ari­sto­cra­tici e la liqui­da­zione dei governi libe­rali a van­tag­gio di regimi per­so­nali a base mili­tare: il bimil­le­na­rio augu­steo del 1937-’38 fu cele­brato in Ita­lia con fer­vore fasci­sta. Impres­sio­nato da quel con­te­sto, Syme non rac­contò la vit­to­ria dell’Augusto come l’ineluttabile e «giu­sti­fi­cato» esito di un pro­cesso sto­rico (la «crisi senza alter­na­tive» di Chri­stian Meier), e ancor meno come l’affermazione di un uomo cari­sma­tico: largo spa­zio è per con­tro dato a tutte le ambi­guità del pro­ta­go­ni­sta (un cama­leonte, un ipo­crita, una sfinge, secondo le suc­ces­sive defi­ni­zioni datene da Giu­liano Impe­ra­tore, da Gib­bon, da Syme stesso).
Una certa com­pren­sione va piut­to­sto alle ragioni dei suoi avver­sari: l’apprezzamento di Syme per il punto di vista di Marco Anto­nio, più che una pro­vo­ca­zione, pare una scelta di campo. Ma senza con­ces­sioni a uto­pie «repub­bli­cane»: l’Augusto, un nuovo Cesare più paziente e meto­dico del primo, dopo essere stato un pro­blema (ossia una delle forze che lace­ra­rono defi­ni­ti­va­mente la com­pa­gine sta­tale) fu anche la solu­zione. Ria­dat­tando una effi­cace for­mu­la­zione di Plu­tarco (Vita di Cesare, 28,5), forse è vero che «il potere di uno solo era l’unico rime­dio ai mali della repub­blica, e allora era meglio che quella medi­cina venisse som­mi­ni­strata dal medico più umano», anche se non dal migliore.
Con La rivo­lu­zione romana Syme scrisse, con spi­rito ari­sto­cra­tico, la sto­ria della crisi di una ari­sto­cra­zia: la tra­sfor­ma­zione vio­lenta di una società tra­di­zio­na­li­sta, scossa da un lungo tra­va­glio e final­mente da una rivo­lu­zione. Il ter­mine, così discusso, si giu­sti­fica ampia­mente per il fatto che arrivò al ver­tice poli­tico un nuovo ceto diri­gente, uscito dalle feroci lotte che ave­vano deci­mato o emar­gi­nato le fami­glie che a lungo ave­vano tenuto stretto a sé il governo della repub­blica.
La sto­ria di que­sti gruppi è stata nar­rata ana­li­ti­ca­mente da Syme anni dopo in L’aristocazia augu­stea (tr. it. Riz­zoli, 1993). I nuovi gruppi di potere non sono descritti da Syme con sim­pa­tia. Ai valori cui era legato il vec­chio ceto erano suben­trate altre ener­gie, altri mores: «Quando un par­tito ha trion­fato con la vio­lenza e si è impa­dro­nito del con­trollo dello stato, sarebbe pura fol­lia con­si­de­rare il nuovo governo come un’accolita di per­so­naggi sim­pa­tici e vir­tuosi».
Del resto, il prin­ci­pato segnava la vit­to­ria di quanti ave­vano rinun­ciato alla libertà per avere la pace. I giu­dizi di Syme sem­brano sug­ge­rire che il libro guar­dasse a un pub­blico di let­tori soli­dali con le dif­fi­denze dell’autore: verso la folla inco­stante, verso gli eser­citi incon­trol­lati, verso gli avidi vete­rani smo­bi­li­tati, verso i nuovi poli­tici ambi­ziosi, verso gli uomini nuovi, spesso moral­mente impari alle sfide da fron­teg­giare, e privi di dignità. La pro­spet­tiva è libe­rale di fondo, ma con­ser­va­trice: un chiaro impulso anti­ti­ran­nico la dif­fe­ren­zia però net­ta­mente dalle posi­zioni degli amici di lord Dar­ling­ton, l’immaginario (ma non troppo) per­so­nag­gio di The remains of the day di Kazuo Ishi­guro (1989).
Pur segnate dall’esperienza degli anni trenta del secolo scorso, le pagine di Syme mostrano a più di sessant’anni di distanza dalla pub­bli­ca­zione, e oltre cin­quanta dalla tra­du­zione ita­liana, intatta forza. La tesi cen­trale, che la «rivo­lu­zione romana» portò al potere le classi apo­li­ti­che dell’Italia, escluse fino ad allora dal vero potere cen­trale, è stata discussa, sfu­mata o con­te­stata. Docu­menti sco­perti suc­ces­si­va­mente hanno modi­fi­cato l’interpretazione di taluni aspetti ammi­ni­stra­tivi.
La piena foca­liz­za­zione sui dati della tra­di­zione let­te­ra­ria portò Syme a lasciare ridotto spa­zio ai temi ideo­lo­gici, dal con­senso alla pro­pa­ganda, e al «potere delle imma­gini», al quale Paul Zan­ker ha dedi­cato anni fa il suo libro su Augu­sto (tr. it. Einaudi, 1989, poi Bol­lati Borin­ghieri, 2006). La scelta di Syme, nata anche dalla presa di distanza rispetto a certi lavori apo­lo­ge­tici verso l’Augusto, ha gio­vato alla strin­ga­tezza del rac­conto, lucido e disil­luso ma impe­gnato a cogliere le moti­va­zioni pro­fonde, psi­co­lo­gi­che più che politico-economiche, degli attori. I fatti sono riper­corsi con sapienza nar­ra­tiva, entro un magi­strale domi­nio delle fonti anti­che.
Scarno il ricorso alla biblio­gra­fia moderna, presso che nulle le con­ces­sioni alla teo­ria. E netto il rifiuto per le sot­ti­gliezze della for­ma­liz­za­zione giu­ri­dica, cara alla tra­di­zione ger­ma­nica del Momm­sen: lo sta­li­ni­smo aveva inse­gnato che le «costi­tu­zioni» pos­sono essere sem­plici fac­ciate, che poco o nulla dicono sul reale strut­tu­rarsi del potere, per­ché «qua­lun­que sia la forma di un governo, monar­chia, repub­blica o demo­cra­zia, in ogni tempo c’è, die­tro, una oli­gar­chia». Parole tor­nate oggi, per vie impre­vi­ste, di scon­cer­tante attua­lità: e certo, ogni età ha l’oligarchia che si merita.

Il Manifesto – 20 luglio 2014

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