09 agosto 2014

GRAMSCI E WITTGENSTEIN






Sui precedenti lavori di Franco Lo Piparo abbiamo già avuto modo di esprimere il nostro punto di vista. Oggi ci occupiamo dell'ultimo libro che lo studioso di Bagheria ha dedicato al grande sardo pubblicando di seguito una diretta anticipazione dell'autore e una recensione che coglie pregi e limiti dell'originale saggio di Lo Piparo.
f.v.

Gramsci e Wittgenstein la stessa lingua L'anticipazione L'incontro a distanza di due intellettuali Un libro racconta e documenta la sorprendente storia dello scambio culturale avvenuto tra il filosofo austriaco e il leader del Pci tramite l'economista Piero Sraffa, sul tema del linguaggio e i suoi usi

di Franco Lo Piparo

In una nota scritta negli anni 1939-40 Wittgenstein tracciò un sintetico e penetrante ritratto del proprio stile filosofico usando un'immagine botanica. Si considerava, più che un seme da cui si forma una nuova pianta, un terreno particolarmente fecondo, capace di far crescere e sviluppare in maniera inedita semi provenienti da altri terreni. «La mia originalità (ammesso che questa sia la parola giusta) è, credo, una originalità del terreno, non del seme. (Io forse non ho un seme proprio). Getta un seme nel mio terreno e crescerà in modo diverso che in qualsiasi altro terreno». Non è dato sapere a chi pensasse. I semi gramsciani che Sraffa gettò nel terreno di Wittgenstein negli anni che vanno dal 1930 agli anni quaranta del secolo scorso si adattano bene a questa immagine. Fu, del resto, lo stesso Wittgenstein che, ricorrendo a un'altra immagine botanica, paragonò il proprio stato mentale, dopo le chiacchierate filosofiche con Sraffa, a «un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami». Il libro racconta la storia della inseminazione gramsciana della mente di Wittgenstein tramite l'economista italiano Piero Sraffa. Non vuole fare di Wittgenstein un filosofo gramsciano né di Gramsci un filosofo wittgensteiniano. Gramsci e Wittgenstein sono due grandi e autonome personalità teoriche, due giganti direi, e ciascuno insegue i propri problemi teorici. A noi interessa qui portare alla luce un imprevisto canale di interazione intellettuale tra il carcere e le cliniche italiane da una parte, la grande Università di Cambridge dall'altra. È un nuovo capitolo, finora non studiato, della storia culturale europea. Siamo all'inizio di un percorso. Riletture di documenti noti e nuove ricerche d'archivio potrebbero in futuro riservare sorprese. Perché proprio Gramsci, da tutti conosciuto come il politico fatto arrestare da Mussolini in quanto esponente di spicco del Partito comunista? Il segretario del Partito comunista italiano come fonte robusta di un'opera unanimemente considerata un classico della filosofia, le Ricerche filosofiche? Stiamo per proporre, nostro malgrado, la riedizione del triste modello «Lenin o Stalin e l'arte, Lenin o Stalin e la biologia, Lenin o Stalin e la meccanica quantistica, Lenin o Stalin e la linguistica, eccetera»? Il libro dà una risposta che risulterà scandalosa ad alcuni studiosi: Gramsci fu anzitutto un grande intellettuale, votato alla filosofia della politica e del linguaggio, che solo per otto anni (1919-26) fu totus politicus, probabilmente anche con pochi poteri reali. Perfino Mussolini, nel discorso parlamentare del 1° dicembre 1921 ne parla come «professore di ec onomia e filosofia, un cervello indubbiamente potente». Il professor Gramsci non è incompatibile col compagno Gramsci. È però il tratto prevalente grazie al quale leggiamo i Quaderni per ricevere indicazioni su come orientarci nel grande e complicato mondo contemporaneo. In carcere, e poi nelle cliniche, lo studioso Gramsci riprese für ewig il progetto, interrotto per otto anni, di una ricerca scientifica ruotante su due poli complementari: il potere nelle sue varie articolazioni e il linguaggio. Prima di iniziare le nostre analisi e ricostruzioni un dato va posto in primo piano. Gramsci e Wittgenstein condividevano la stessa passione filosofica per il linguaggio, i suoi usi, il suo funzionamento, la sua non accessoria presenza in tutte le attività che rendono specifico l'animale umano. Entrambi sono guidati dall'idea che col concorso ineliminabile del linguaggio si formino le pratiche e i problemi di cui l'esistere umano, individuale e/o collettivo, è intessuto. Interrogare il linguaggio non è quindi, per entrambi, affare di una categoria di specialisti. Il teologo, l'epistemologo, il matematico, lo storico, il teorico del potere politico e delle società maneggiano manufatti linguistici e in essi e con essi vanno alla ricerca dei segreti che si propongono di esplorare. Il linguaggio, con i suoi poteri ma anche i suoi limiti, è per entrambi i pensatori la pratica da cui è impossibile prescindere. Il linguaggio è il luogo della specificità umana sia per il primo che per il secondo Wittgenstein, per l'autore del Tractatus e per l'autore delle Ricerche. Lo è anche per il Gramsci «giovane compagno, filosofo e glottologo», per il Gramsci che ricopre cariche politiche, per il Gramsci dei Quaderni.

10 June 2014 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 17) nella sezione "Speciali







In principio era la praxis 

di Francesco Raparelli 

Virtù e limiti de Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere di Franco Lo Piparo

Raramente capita di leggere un testo di filosofia con la passione instancabile con cui si legge un giallo: è il caso dell’ultimo saggio di Franco Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere (Donzelli 2014, 18 euro). Lo stile investigativo aveva già fatto la sua comparsa ne I due carceri di Gramsci (2012) e L’enigma del quaderno (2013), ma solo in quest’ultimo lavoro all’originale e a volte discutibile ricostruzione biografica si accompagna una parte filosofica tanto densa quanto potente.

Lo Piparo riprende e sviluppa una tesi di Amartya Sen: Gramsci fu l’ispiratore inconsapevole delle Ricerche filosofiche, l’opera a cui Wittgenstein dedica tanta parte della sua vita e che definisce una vera e propria svolta nel suo pensiero – oltre a essere opera che segna in modo dirompente il secolo appena trascorso e ancora il nostro presente. Il «traghettatore»? Piero Sraffa, l’economista italiano che, nello stesso tempo, insegna a Cambridge – e lì discute assiduamente con Wittgenstein – e intrattiene con Gramsci un rapporto continuativo durante gli anni del carcere, poi durante la sua (di Gramsci) permanenza nella clinica Cusumano di Formia e Quisisana di Roma.

Attraverso una puntigliosa ricognizione tra le lettere, Lo Piparo svela il ruolo decisivo di Sraffa: conosce bene, e in tempo reale, le ricerche che Gramsci sta conducendo nella sua cella di Turi, anzi, ne sollecita lo svolgimento. Altrettanto, la frequentazione intellettuale tra Sraffa e Wittgenstein è tutt’altro che marginale; a ricordarlo, in modo inconfondibile, le parole che Wittgenstein dedica all’amico nella Prefazione delle Ricerche. La tesi di Lo Piparo dunque è più radicale di quella di Sen: non è il Gramsci di Torino e de «L’Ordine nuovo» quello che Sraffa consegna a Wittgenstein nei seminari e nelle ripetute conversazioni di Cambridge, ma quello intento nella scrittura dei Quaderni. Di più: nel confronto serrato che Sraffa intraprende con Gramsci ormai fuori dal carcere, l’economista gli sottopone problemi teorici che assillano Wittgenstein e i seminari della svolta, quelli degli anni 1933-1934 e 1935-1936 (seminari stenografati e poi raccolti nel Blue Book e nel Brown Book). Un indizio tra i più convincenti? Nella primavera del 1935 Gramsci scrive d’un fiato il Quaderno 29, quello dedicato alla grammatica; nel 1936 Wittgenstein porta a compimento la prima stesura delle Ricerche filosofiche. Forse più di una semplice coincidenza.

Quali sono i temi che testimoniano l’indiretta frequentazione intellettuale tra Gramsci e Wittgenstein e, nel farlo, sostengono l’originale tesi di Lo Piparo? Un «grappolo di concetti»: uso, regola, istituzione, praxis, gioco linguistico, forma di vita. Per entrambi, infatti, il senso di una proposizione o di una parola dipende dall’impiego che se ne fa. Così è per Gramsci critico di Croce («Questa tavola rotonda è quadrata»), così per Wittgenstein polemico con i logici e il suo Tractatus («Ma l’eguale senso delle proposizioni non consiste nel loro eguale impiego?»). E la nozione di ‘uso’ – o impiego o funzione – viene subito declinata al plurale: gli usi sono «molteplici», «eterogenei», «innumerevoli». Non c’è uso, però, senza regola, senza tecnica. In questo senso parlare una lingua (fare uso di una lingua e, attraverso di essa, della propria facoltà di linguaggio) equivale a «seguire una regola» o a padroneggiare una tecnica. Altrettanto, vale la pena prestare attenzione alla preziosa precisazione di Lo Piparo: «è l’uso a stabilire la regola e non la regola a determinare l’uso». L’uso si presenta come «fenomeno originario», ma se uso allora regola e, passaggio fondamentale, se regola allora istituzioni («non si può seguire una regola ‘privatim‘»). A partire dal linguaggio si afferra l’umano come animale istituzionale, di conseguenza animale naturalmente artificiale, storico.

Giunti a questo punto, il lavoro di Lo Piparo si fa tanto potente quanto problematico. Come fece già con Aristotele, in un testo importante di qualche anno fa (Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza 2005), Lo Piparo torna all’originale, in questo caso il testo tedesco di Wittgenstein, per scovare elementi decisivi occultati dalle traduzioni più in voga. Non pare cosa marginale a Lo Piparo, e come dargli torto, che Wittgenstein utilizzi il termine praxis, quello stesso assai caro a Gramsci. Concetto imparentato con altre due decisive nozioni delle Ricerche: «gioco linguistico» e «forma di vita». La svolta di Wittgenstein è ormai piena: «chiamerò ‘gioco linguistico’ anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto»; «la parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita». Svolta – e qui il mio accordo con l’autore è massimo – che Lo Piparo non si limita a definire «antropologica», ma che qualifica anche come «storicistica». D’altronde il testo di Wittgenstein è fin troppo chiaro: «questa molteplicità [tipi di impiego di segni, parole, proposizioni] non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati»; in Della certezza, «il gioco linguistico cambia col tempo». Storicità degli usi e delle regole, storicità dei giochi linguistici, storicità delle forme di vita.

Con la nozione di praxis, dunque, il linguaggio perde la sua autonomia e si disloca, secondo la metafora tessile dell’intreccio, nell’attività. Scrive Lo Piparo: «pratiche verbali e non verbali formano un tessuto co-articolato e unitario, ossia una forma di vita». Questa la svolta di Wittgenstein, fin qui i meriti del libro di Lo Piparo.

Più problematico il riferimento a Gramsci. Non solo perché non convince l’affondo biografico: Gramsci professore mancato, totus politicus per un numero assai ridotto di anni, marginale nel partito anche prima del carcere. Di più: “libero” (dalla politica) in carcere perché finalmente dedito alla ricerca «disinteressata» e «für ewig». Una ricostruzione con qualche forzatura di troppo che dimentica il Gramsci radicalmente operaista, quello che prende appunti ai cancelli delle fabbriche, quello del «biennio rosso» e de «L’Ordine nuovo», il Gramsci convintamente leninista e soviettista.

Il problema più significativo, però, è a mio avviso un altro: Lo Piparo omette il rapporto, decisivo nei Quaderni, tra Gramsci e Marx. Un «ritorno a Marx» che intende liberare il rivoluzionario di Treviri e lo stesso Gramsci dall’idealismo italico, come dal materialismo volgare di Bucharin, dall’involuzione sovietica e staliniana, dal Pci di Togliatti. Non è casuale che, per qualificare la nozione di ‘filosofia della praxis‘ (locuzione che risale a Labriola, 1897), Gramsci si dedichi a tradurre le Tesi su Feuerbach ‒ tradotte prima di lui da Gentile nel 1899 ‒ e alcuni brani della Prefazione a Per la critica dell’economia politica. Filosofia della praxis è un nuovo modo di qualificare il materialismo storico, tentando di riempire quel vuoto teorico da Marx mai del tutto colmato: la connessione costitutiva, senza alcuna gerarchia possibile, tra produzione e linguaggio, rapporti di produzione e istituzioni politiche, lavoro e apparati ideologici. Questo Gramsci che con Marx pensa oltre Marx e che usa Marx per farla finita con lo stalinismo, dunque non il Gramsci professore e liberale, è stato vittima, anche dopo la sua morte, di un «secondo carcere»: il togliattismo e il socialismo all’italiana (il nazional-popolare, l’interesse generale e molto altro).

Proprio oggi che massima è la coincidenza tra produzione e linguaggio (e semiotiche a-significanti), tra moneta e speech act, e oggi che con Renzi e la svolta thatcheriana del Pd anche solo il ricordo di quel secondo carcere è stato completamente sommerso, è possibile tornare al materialismo storico gramsciano e, con Lo Piparo, conquistare il materialismo storico di Wittgenstein. Una grande occasione.

 Recensione tratta da: http://www.lumproject.org/?p=1406


 

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