28 agosto 2014

VISITA A VILLA PICCOLO


   Una visita a Villa Piccolo, la residenza siciliana dove Tomasi di Lampedusa scrisse il suo capolavoro e dove «le piante crescevano in un fitto disordine.
   Un luogo tanto amato da due dei nostri autori più amati: Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo.
Michela Becchis

Profumo di limone per il Gattopardo
Una ragaz­zina che aveva letto il libro, a volte un po’ arran­cando, visto il film di Luchino Visconti, quello sì affa­sci­nante anche per lei che certo mai sarebbe somi­gliata all’abbacinante Ange­lica — Clau­dia Car­di­nale, arrivò a imboc­care il viale della Villa Pic­colo. La seve­rità squa­drata e chia­ris­sima della villa sem­brava pen­sata affin­ché il parco potesse meglio esplo­dere nello sguardo stu­pito del visi­ta­tore pro­prio come una visione, con tutti i suoi colori, le infi­nite forme, la miriade di verdi.

Ma lo splen­dore del parco è nato dopo la villa, per la cura ele­gan­tis­sima di Agata Gio­vanna Pic­colo di Cala­no­vella. Certo, il grande ter­reno che cir­conda la villa, a pochi chi­lo­me­tri da Capo d’Orlando, è sem­pre stato attorno all’edificio con i suoi agru­meti, il frut­teto, l’uliveto, la vista sul mare sici­liano. Doveva moz­zare il respiro la bel­lis­sima vista della piana verso mare, verso quel golfo dove il Capo si sta­glia e con­trolla, verso le Eolie che chiu­dono l’orizzonte. Doveva accen­dere pen­sieri altis­simi prima che sulla fer­tile piana colasse il cemento, segno visi­bile, quasi ferita fatta di fora­tini, di un ter­ri­bile cam­bia­mento acca­duto su un luogo tra i più mitici della Sici­lia.

E non certo affin­ché nulla cam­biasse, tutto restasse così com’era come andava pen­sando il prin­cipe di Salina, non certo con la «levità di espres­sione» di Tan­credi e tut­ta­via osser­vato da lassù, da quel parco, «dal di den­tro, con una certa compartecipazione…e senza nes­sun astio», ma certo con malin­co­nia, pro­prio come Tomasi di Lam­pe­dusa aveva osser­vato e nar­rato il disfa­ci­mento di una Sici­lia con­sa­pe­vole e per­dente. Sì, per­ché pro­prio a Villa Pic­colo e nel silen­zio pro­fu­ma­tis­simo del parco tante parti del Gat­to­pardo hanno tro­vato esatta com­po­si­zione.

La Villa era la casa della fami­glia Pic­colo e fu tra­sfor­mata in severa Arca­dia dalla madre dei tre fra­telli Lucio, Casi­miro e Agata quando si ritirò a Capo d’Orlando rima­sta vedova di un bon viveur che non era stato troppo attento nep­pure alle poco fer­ree regole richie­ste a un nobile maschio sici­liano, morendo tra le brac­cia di una lon­tana bal­le­rina. I tre fra­telli erano i cugini di Tomasi e ognuno di loro modi­ficò e ridi­se­gnò la Villa e il suo signi­fi­cato secondo le rispet­tive incli­na­zioni, otte­nendo un risul­tato finale che ancora oggi scon­certa il visi­ta­tore per raf­fi­na­tezza, anzi meglio si direbbe per rare­fa­zione, poi­ché ogni oggetto, ogni pianta, ogni libro, ogni angolo della Villa e del parco hanno modi­fi­cato il loro sem­plice stato ori­gi­na­rio in virtù di quella cura.



Tutto que­sto l’autore del Gat­to­pardo lo avver­tiva, lo respi­rava inten­sa­mente anche gra­zie al pro­fondo legame che ebbe in par­ti­co­lare con Lucio, poeta e straor­di­na­rio eru­dito, a cui lo unì, oltre l’affetto, il costante con­fronto let­te­ra­rio e la comune ricerca di talenti poco noti. L’affanno per la scrit­tura del libro, quella Histoire sans nom come amava defi­nirla egli stesso, flui­sce nelle pagine del dia­rio di Tomasi ed è lì che si affac­cia il rap­porto sen­ti­men­tale con quel luogo. «13,15 Capo d’Orlando. Casa deserta abi­tata solo da un nuovo tele­sco­pio e da un globo ter­ra­queo…» (29 feb­braio 1956), «Tempo bello a Capo d’Orlando…» (1° marzo 1959).

E così via, in pic­coli appunti che sem­pre più spesso inclu­dono quella casa e quel parco non solo nello scor­rere dei suoi giorni, ma den­tro la scrit­tura che prende corpo e corpo regala alle sug­ge­stioni della resi­denza, gli infi­niti inte­ressi dei cugini che spa­ziano ben oltre la let­te­ra­tura per cor­rere verso la musica (ancora con Lucio), la pit­tura, la foto­gra­fia spe­ri­men­tale, l’esoterismo con Casi­miro, l’arte della gastro­no­mia e la bota­nica con Agata, l’astronomia, «scienza ata­ras­sica», «regno stel­lare» inda­gato dai tre fra­telli e con­so­la­zione degli affanni del Prin­cipe di Salina. Chissà come accolse Agata la descri­zione del giar­dino di casa Salina nar­rato sotto i passi del prin­cipe Fabri­zio, quel giar­dino dove «le piante cre­sce­vano in fitto disor­dine, i fiori spun­ta­vano dove Dio voleva e le siepi di mor­tella sem­bra­vano dispo­ste più per impe­dire che per diri­gere i passi».

In effetti, biso­gna essere veri esperti per inten­dere la logica di un giar­dino tra­sfor­mato in orto bota­nico. Nulla è casuale nel parco e nell’entropia verde che lo com­pone. E ben lo sa il prin­cipe di Salina che nei suoi sco­rati vagheg­gia­menti post rosa­rio paler­mi­tano rico­no­sce non una rosa qual­siasi, ma le fran­cesi Paul Ney­ron che quello spic­chio di terra tur­gida di Sici­lia, scom­po­sta tra le pagine del libro e la verità di quel rea­lis­simo giar­dino appar­tato, ha scon­volte e mutate in una sorta di apo­ca­lisse di natura, in una di quelle meta­mor­fosi epi­che che hanno scol­pito la natura e la cul­tura dell’isola.



Se il «Prin­ci­pone» cono­sce bene le piante, quelle arau­ca­rie, le «pesche fore­stiere», e le infi­nite spe­cie che testar­da­mente resi­stono al sole impla­ca­bile di Don­na­fu­gata, le intende per­ché il suo crea­tore pas­seg­giava silente tra una ster­mi­nata nomen­cla­tura che Agata pian­tava, mutava, cre­sceva, stu­diava con la cer­tezza e lo spe­ri­men­ta­li­smo della bota­nica inne­stata con lo stu­dio della sto­ria, della gastro­no­mia intesa come scienza della fan­ta­sia, di quat­tro lin­gue par­late per­fet­ta­mente. Una donna dalla bel­lezza intensa come un ritratto del Fayyum, appar­tata, timida, severa che richiama molto Con­cetta, la prima figlia del prin­cipe di Salina, incan­te­vole figura silen­ziosa, ma dagli occhi «attra­ver­sati da un bagliore fer­ri­gno» e «sotto la cui fronte liscia si ordi­vano fan­ta­sie di vene­fici» scal­zata dalla ruti­lante bel­lezza dei tempi nuovi, delle donne nuove.

Agata però stu­dia molto e capi­sce come la sua terra, il clima sici­liano, simile alla «col­lera di Dio», ma soprat­tutto certi rifugi del suo parco, pos­sono acco­gliere le piante pro­ve­nienti dai luo­ghi più lon­tani da porre accanto a piante autoc­tone che però nel parco cre­scono come in un incan­te­simo o come negli acqua­relli fan­ta­stici di Casi­miro.

Il parco è fatto da dia­lo­ghi ser­rati e sgar­gianti tra ibi­scus che da arbu­sti sono diven­tati alberi seco­lari e piante di stre­li­tzie giganti, tra gli­cini che avvin­ghiano il per­go­lato che spa­lanca sul mare e ciuffi gigan­te­schi di dasy­li­rion, trale impo­nenti eufor­bie la cui deli­cata fio­ri­tura ricorda le not­turne, reli­gio­sis­sime cuf­fiette di Maria Stella prin­ci­pessa di Salina e la famosa Puya ber­te­ro­riana, un auten­tico capo­la­voro bota­nico di Agata Gio­vanna che, per prima, riu­scì a farla attec­chire in un parco medi­ter­ra­neo e su cui scrisse anche un trat­tato. Il visi­ta­tore sci­vola den­tro il libro, cerca quel gat­to­pardo di pie­tra che torna così spesso in quelle righe e, pur nella sua assenza, fa com­ba­ciare ancora parti di giar­dino e pagine. 



Il giar­dino eso­te­rico voluto da Casi­miro, il peri­me­tro di alloro del tea­tro e quel sedile — ma dov’è a Palermo, a Don­na­fu­gata, a un passo da Capo d’Orlando? — sul quale il prin­cipe di Salina si siede e guarda arredi baroc­chi di pie­tra viva e car­nale, pro­prio come la fon­ta­nella barocca di Villa Pic­colo che sor­ve­glia nin­fee e fiori di loto. E poi quel viale che porta il visi­ta­tore all’accogliente sedile di pie­tra, ancora oggi detto la «pan­china di Lam­pe­dusa» dove Tomasi e Lucio, da bravi sici­liani, ten­zo­na­vano sullaHistoire sans nom e dove Fabri­zio guarda assorto il muso di Ben­dicò.

Già i cani, quei cani tanto cari alla fami­glia Salina che, morendo, rice­vono giu­sta sepol­tura. Dove? A che pagina? In una parte del parco. Eccolo qui il Cimi­tero dei cani, con tutte le pic­cole lapidi ognuna con il nome dell’animale che, secondo le teo­rie amate da Casi­miro, torna a far visita ai padroni. Non si tro­verà la tomba dell’alano nero del prin­cipe, ma certo quella di Crab, amato cane di Tomasi. Si ferma allora, in que­sto angolo geo­me­tri­ca­mente appar­tato, la visita di quella ragaz­zina, impa­rando il neces­sa­rio rispetto del silenzio.

Il Manifesto – 8 agosto 2014

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