28 agosto 2014

N. ROSOLIA: IL BRACCIANTE DI MARSALA RACCONTATO DA F. PICCIONE



           Dall'amico Nino Rosolia di Marsala ricevo e pubblico con particolare piacere questa sua bellissima recensione di un libro che parla di noi e della nostra terra.
 



Filippo il Resiliente e il senso perduto della comunità
                                                    
                                                        “Vuoi essere universale?
                                                             Parla del tuo villaggio.”
                                                                                                                       Lev Tolstoj

        Lo diciamo da semplici ma ostinati lettori: “Il bracciante di Berbaro di Marsala”, romanzo d’esordio di Filippo Piccione, più che a Giuseppe Bonaviri, rapsodo della Sicilia Incantata ne “Il Sarto della Strada Lunga”, fa pensare a Gavino Ledda e al suo  “Padre Padrone” (poi trasposto nell’indimenticabile film dei fratelli Taviani).
O alla “maletrata e molto travagliata e molto desprezata vita” messa su carta, nella sua strepitosa lingua, nel corso di sette, interminabili anni di cruento ma vittorioso conflitto con le parole, da Vincenzo Rabito in “Terra Matta”.
“Il bracciante” è un romanzo autobiografico, narra delle mirabolanti vicende di Filippo, contadino semianalfabeta, deprivato prima del suo sacrosanto diritto allo studio, avviato poi al ‘garzonato’ e, in seguito, alla dura vita dei campi.
Dai quali, però, emblematico esempio di resilienza, si affranca e, durante il periodo del servizio militare, aiutato dall’ingegner De Marco, suo commilitone, riprende in mano la sua vita e ricomincia a studiare conseguendo licenza media, diploma di Ragioniere e, dopo aver incontrato l’amore della sua vita, la bellissima ciociara Lea, non una ma, addirittura, due lauree(Economia e Commercio e Giurisprudenza): chiavi di volta per la sua luminosa carriera al Ministero di Grazia e Giustizia.                                                                                                          
Nel tratteggiare il contesto ove, di volta in volta, vive e si muove il protagonista, l’autore apre ampi squarci sulla vita sociale della comunità lilibetana tra il Secondo Dopoguerra e gli ‘Anni del Boom’.
Non un libro di parole alate, né di vacui esercizi di stile, dunque, ma di cose.  E, per dirla con Sciascia, di “Cose di Sicilia”.
Un libro che parla del dominio dei grandi latifondisti, complice la mafia o, meglio, il suo braccio operativo, i gabelloti, su ogni aspetto dell’economia e della vita delle famiglie e di ogni singola persona.
Che narra della manodopera sottopagata e degli scarsi mezzi di sostentamento che costringevano molti nuclei familiari a fare affidamento sulle giovani braccia di ragazzi di 10-12 anni, gettati, per pochi soldi e troppe ore giornaliere di lavoro, nella fornace dei campi o nelle raggelanti profondità delle cave di tufo.                Come i piccoli diseredati descritti da Verga in  “Rosso Malpelo”, come i poveri “carusi”protagonisti del film di  Grimaldi, “La discesa di Aclà a Floristella”.                                                                                                                           ‘Bambini ‘bruciati’, scippati della possibilità di proseguire gli studi, ‘privilegio’ riservato esclusivamente ai rampolli dei “possidenti”.
Tanto che, in barba al dettato costituzionale, le maestre, invece di incoraggiare i più meritevoli, li inducono – viste le loro precarie condizioni economiche a non proseguire gli studi, in modo tale da poter essere, al più presto, avviati al lavoro,  contribuendo così a rimpinguare l’anoressico bilancio familiare.
Se, di questa crudele legge materiale, sarà Filippo a farne le spese (a bottega presso un calzolaio e, in seguito, “iurnateri”, ‘ri suli a suli”) non si può certo dire che            mutatis mutandi   le cose, oggi, siano molto cambiate, visti gli stratosferici livelli di dispersione scolastica che caratterizzano l’isola (35% tra frequenze saltuarie, abbandoni precoci, presenze/assenze) specie nel biennio del superiore.
Sicchè, com’era capitato più di mezzo secolo prima a Filippo, infanzia e adolescenza, nella nostra ‘Repubblica Democratica & Antifascista’, continuano ad essere scippate ai figli della povera gente, con buona pace dei Padri Costituenti e degli articoli 3 e 34  della nostra meravigliosa (ma, in gran parte, tradita) Carta Costituzionale.
Ma, tornando a Filippo, è quello or ora accennato l’esaltante orizzonte esistenziale che si spalanca davanti a lui e alla sua generazione nei complicati Anni Cinquanta.                                                                                                       L’alternativa c’é: basta avere il coraggio di immettersi in quel flusso migratorio che,    mentre continua ad ingrossarsi ad ogni sconfitta del movimento contadino – dal massacro dei ‘Fasci Siciliani’ alla repressione del movimento per l’occupazione delle terre incolte – al contempo,a partire dal decennio successivo all’Unità d’Italia,sottrae  all’isola le braccia più robuste, le menti più brillanti, i suoi figli più audaci.
Non è ancora il tempo di involarsi per la capitale, ma alla grama esistenza che gli si para davanti, “Il bracciante di Berbaro”, tenta in tutti i modi di sfuggire.
E l’occasione gli si presenta davvero con l’annuncio di un ‘Corso di Recitazione’ per corrispondenza, segnalato dalle pagine di uno degli innumerevoli fotoromanzi che le sartine frequentanti la sua casa volentieri gli prestano.                                                                         Per pagarselo,dovrà lavorare più delle12 canoniche ore quotidiane: ma poco importa, è l’unica possibile via d’uscita dal suo immobile presente e Filippo non esita ad intraprenderla, convinto com’é che chi vuole un’altra vita ne deve essere l’artefice.
La voglia di scrutare altri orizzonti, del resto, sarà uno dei tratti distintivi della sua personalità ed egli ne darà prova quando (nel ’57) viene chiamato da Mario Signorino, gestore del primo lido sorto nella città lilibetana, a fare il bagnino per ‘proteggere’ la vita dei ‘nobili’che lo frequentano.
Oppure, quando, licenziato dal ”Signorino”, viene assunto al “Mediterraneo”, lo stabilimento balneare concorrente, sorto nel frattempo: target piccolo borghese, clienti privi di albagia e, soprattutto, meta quotidiana, per gran parte della stagione estiva, di un personaggio che sosterrà non poco gli sforzi profusi dal protagonista per cambiare vita: il giovane penalista nonché Deputato del PCI, Pino Pellegrino.
Attraverso questa specie di nume tutelare, Filippo entrerà in contatto con il Partito Comunista a quel tempo, prima che aggregazione politica, grande comunità umana. Partito fondato su una concezione della politica inscindibilmente legata all’etica. Scolpita nel suo DNA, la pratica del confronto e della battaglia delle idee, attraverso cui financo alcuni dei suoi rappresentanti, seppur privi dei minimi livelli d’istruzione (licenza elementare quando non addirittura analfabeti) nelle infuocate sedute del Consiglio Comunale,  a Palazzo VII Aprile, fanno la parte del leone.                                                                     
Per farla breve: per tanti iscritti e simpatizzanti, Il‘Partitone’è una sorta di ‘Università Parallela’,così come lo è per Filippo,che continua a frequentarla anche nella Capitale,  giovandosene per le sue sbalorditive imprese di studente-lavoratore
Personaggio alfieriano, il protagonista, però, non indugia mai, narcisisticamente, sulla sua stakanovistica capacità di sacrificio. Anzi, ha l’umiltà di riconoscere che i ragguardevoli traguardi raggiunti, sono il frutto del sostegno, della solidarietà, del costante incoraggiamento dell’intero microcosmo di “Chiano La Fata”.                    Ove affondano le sue radici,gli affetti, le amicizie dell’infanzia che durano una vita.
Così come ammette che è alla più vasta comunità del Partito Comunista che deve la conoscenza della società siciliana e l’acquisizione di quella coscienza di classe, che lo trasformerà da ‘oggetto’ in ‘soggetto’ di storia.

Bene: qui potremmo scrivere “The End” a questa recensione ‘extralarge’.                                        Ma per non correre il doppio rischio del nostos e dell’agiografia, prendendo a prestito la volteriana “tecnica del riflettore”, proveremo ad illuminare, attualizzandoli, alcuni dei nodi problematici che il volume presenta.
Del trauma originario legato al brutale abbandono degli studi, s’é già detto.               Basta aggiungere che, se “uno su mille ce la fa”, sarebbe ingiusto trascurare gli altri novecentonovantanove.Si spera,quindi,che la tanto strombazzata‘Crocetta revolution’ porti in dote, almeno,una legge sul ‘Diritto allo Studio’atto dovuto ai ragazzi siciliani.
E, a proposito di giovani, chiediamoci: uno con una storia simile a quella di Filippo, oggi, che i ragazzi sono costretti a studiare senza la benché minima  prospettiva di trovare un lavoro, anche un lavoro qualsiasi: riuscirebbe a farcela?                                                                                O, non resterebbe, anche a lui, che preparare il trolley, infilarci dentro un PC di ultimissima generazione e andarsene in giro per il mondo per sperare di vedere, finalmente, valorizzati i propri talenti?
E, ancora: dell’avvolgente solidarietà del “Chiano ‘a Fata”, cosa rimane oggi che la reificazione,l’atomizzazione e lavirtualizzazione dellerelazioni umane sono la regola?
Che ne é di quella meravigliosa comunità umana costituita dal fiero popolo del PCI?
Dov’é finita l’orgogliosa diversità che dirigenti e militanti rivendicavano ad ogni piè sospinto (in “Palombella Rossa”, Nanni Moretti, ne farà un celeberrimo tormentone: “Siamo uguali ma diversi, ma uguali, ma diversi...”) oggi che il Partito-Comunità é diventato Partito-Personale – al servizio dell’ “Uomo Solo al Comando”-  e il Sindacato sembra precipitato al rango di semplice Patronato?
Dove sono finiti (come denuncia da tempo Augusto Cavadi) i luoghi del confronto e della crescita civile per i nostri sempre connessi ma disorientati ragazzi?
E, per tornare ad uno dei temi cruciali del libro,chi ci ridarà indietro i dieci chilometri di spiaggia, gli estesi canneti e le dune alte 15 metri che costellavano per lunghi tratti la costa sud della nostra città, ora devastata da un’interminabile colata di cemento?                                                                           E, per questo scempio – circa 3000 costruzioni abusive a Marsala, 250.000 in Sicilia -le   responsabilità, non sono di nessuno?                                                                                       Sono soltanto di un ceto politico scellerato e immemore della funzione pedagogica consustanziale alla ‘buona politica’? O, anche, dell’acquiescenza, se non addirittura della complicità della popolazione? Ivi inclusa gran parte di quel popolo di sinistra che, dopo aver dimorato per troppo tempo tra le braccia di Morfeo, ad un certo punto si sveglia di soprassalto e scopre che uno dei più splendidi tratti della Costa Occidentale siciliana é sfigurato da miriadi di micro eco-mostri. In gran parte abusivi e, per il resto, in regola, grazie ai tanti condoni che, ciclicamente, si abbattono sull’isola, specie a ridosso delle frequenti, immancabili competizioni elettorali.                                                            La verità, forse, risiede nel fatto che, a tanta gente, purtroppo, assistere al cattivo esempio fornito da importanti figure istituzionali e da diversi rappresentanti della classe dirigente, ha finito per solleticare i peggiori appetiti, la vena speculativa, l’arrembaggio contro il patrimonio naturale e paesaggistico.                                                                                                                                Oggi, degradato a tal punto, da vedere depotenziata la sua fisiologica funzione di volano dello sviluppo economico e del progresso civile del nostro territorio.
Amministratori scellerati e popolazione acquiescente, dunque, accomunati in una sorta di  cupio dissolvi. Una catastrofe antropologica. La scomparsa delle lucciole di pasoliniana memoria. La consoliana disputa tra olivo e olivastro conclusa a favore di quest’ultimo.“Un vecchio e un bambino”di Guccini.“Vandali”di Gian Antonio Stella.
Ecco: forse è giunto il momento, per la sinistra marsalese, di farsi carico delle sue pesanti responsabilità, quale magna pars delle amministrazioni che non seppero   impedire l’irreversibile scempio, che non seppero immaginare uno sviluppo diverso.                                  Nell’abbondanza, peraltro, nel resto d’Italia, di best pratics, a cominciare proprio dalle ‘regioni rosse’: Umbria, Toscana, Emilia–Romagna.
Forse è venuto il tempo di provare a sciogliere alcuni nodi, di interrogarsi, su qualcuna delle enigmatiche ‘cose di Sicilia’.                                                                                    Sul mitico “lavoro extraparlamentare” del Parlamentare, ad esempio, argomento di cui, al giovane Filippo, spesso parlava il Senatore Pino Pellegrino, per capire: in che cosa, precisamente, esso si differenziava dal clientelismo tout court?                                                                                            Sulla vera  ragione della vertiginosa perdita, dalle nostre parti, di credibilità e autorevolezza, del cosiddetto “partito dalle mani pulite”, per comprendere: risiede, per caso, nell’inadeguato contrasto alla lenta ma inesorabile trasformazione dei diritti dei cittadini in favori da elargire in cambio del voto?                                                                                           Sulla cause della cocente sconfitta patita a Marsala dai comunisti (rappresentanza dimezzata a Sala delle Lapidi) alle Amministrative del ’75 , in controtendenza rispetto alla trionfale avanzata del PCI a livello nazionale (anticamera del 34% alle Europee che consentirà al partito di  Berlinguer di effettuare il sorpasso sulla Democrazia Cristiana, suo storico antagonista).
Qualche giorno prima della presentazione del libro, avvenuta proprio nel ‘luogo del delitto’, nel bel mezzo della contrada Fossarunza, in località ‘Rina’, con l’autore del “Bracciante”, concordavamo sul fatto che, pur con tutti i suoi limiti e i non pochi errori, tattici e strategici, quella cultura politica, impregnata di egualitarismo e libertà, ha, comunque, prodotto la lotta di Resistenza e la vittoria sul nazifascismo.                                                                                      Che quella comunità umana e politica è stata capace, comunque, di estrarre dalle lotte del Sessantotto e dell’ ‘Autunno Caldo’, lo Statuto dei Lavoratori.
Che il popolo di sinistra, infine, ha, comunque, trovato la forza di ergersi – fine Anni Settanta primi Anni Ottanta – a principale baluardo democratico contro il terrorismo, dimostrando sul campo la sua gramsciana capacità di farsi carico non soltanto degli interessi delle classi subalterne ma di quelli generali dell’intero Paese. Sapranno, nel nostro territorio, gli eredi di questa nobile tradizione aiutare l’antica Lilibeo a tirarsi fuori dalla crisi che l’affligge, restituire ai cittadini almeno un felliniano ‘raggio di sole’, rinverdire le affievolite speranze di futuro delle nuove generazioni?
Con “Il Bracciante”,intanto, Filippo Piccione, il suo prezioso contributo l’ha già dato. 

           Marsala, Agosto 2014                      G. Nino Rosolia










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