06 agosto 2014

J. JOYCE: UN GENIO INDECOROSO





Mirko Zilahi de' Gyurgyokai

Un oscuro e indecoroso genio


Uscito per Fel­tri­nelli nel 1964 con la bella tra­du­zione di Piero Ber­nar­dini e assente dagli scaf­fali troppo a lungo, nel cen­te­na­rio dei Dubli­ners Castel­vec­chi cele­bra il genio irlan­dese ripub­bli­cando un volume sto­rico, James Joyce (pp. 958, euro 50), la masto­don­tica ed essen­ziale bio­gra­fia scritta da Richard Ell­mann (1959, rive­duta nel 1982).

Nato a Highland Park (Michi­gan) nel 1918 da una fami­glia ebrea pro­ve­niente dall’est europa, Ell­mann è stato docente uni­ver­si­ta­rio (Nor­th­we­stern, Emory, Har­vard, Indiana, Oxford, Yale) oltre che pro­li­fico e apprez­zato cri­tico let­te­ra­rio (su tutto, l’antologia The Modern Tra­di­tion). Ma è in qua­lità di bio­grafo degli illu­stri irlan­desi, come il Nobel Wil­liam Butler Yeats (The Man and the Masks) e Oscar Wilde (bio­gra­fia pre­miata con il Puli­tzer nel 1987, da cui dieci anni dopo è stato tratto l’omonimo film di Brian Gil­bert con Ste­phen Fry), che Ell­mann ha rag­giunto la fama nel mondo anglo­sas­sone.

Tra i prin­ci­pali meriti in ambito acca­de­mico, a Richard Ell­man va ascritto quello di aver riem­pito, al tempo, un vuoto di pub­bli­ca­zioni cri­ti­che dovuto alla tra­di­zione orale dell’insegnamento e della ricerca in Irlanda. Di aver impli­ci­ta­mente difeso il moder­ni­smo irlan­dese dalle accuse d’indecenza ed eccen­tri­cità, mar­can­done la distanza da quello inglese. E se Joyce è ancora con­si­de­rato un gigante della let­te­ra­tura e la sua opera un uni­verso in con­ti­nua espan­sione inter­pre­ta­tiva, Ell­mann è stato cer­ta­mente il primo ad affron­tarne il pro­filo, cri­tico e bio­gra­fico, in maniera pro­fonda e capil­lare e a ren­dere giu­sti­zia alla sua gran­dezza.

Alla bio­gra­fia (pre­miata nel 1960 con il Natio­nal Book Award) ini­ziò a lavo­rare nel 1952 e mai come in que­ste pagine il let­tore verrà sopraf­fatto da due fasci­na­zioni che paiono mesco­larsi di con­ti­nuo. Da una parte, quella del pro­filo oscuro, miste­rico, ine­spli­ca­bile del dubli­nese, dall’altra l’americano che assume nei suoi con­fronti l’atteggiamento cele­bra­tivo che si ritrova nelle bio­gra­fie vit­to­riane, spo­sando i metodi ana­li­tici del New Cri­ti­cism, il tutto assi­stito da un’incantevole tra­spa­renza sti­li­stica: «Nella sua opera è impli­cito un nuovo con­cetto di gran­dezza, da inten­dersi non come lustro, ma come uno sca­vare che a tratti rag­giunge la super­fi­cie del lin­guag­gio o dell’azione. Que­sto tipo di gran­dezza si può avver­tire anche nella sua vita, per quanto masche­rato da umane fra­gi­lità. Pro­prio per­ché pre­ciso, per­so­nale e arbi­tra­rio e al tempo stesso capace di abbrac­ciare tutto, spie­tato e vistoso, lo stile di Joyce è grande».

Ne viene fuori un libro accu­rato e godi­bile che mette l’una di fronte all’altra le due anime di Joyce. Su un ver­sante l’artista deter­mi­nato, geniale ma sem­pre con­tro­verso: «Pochi scrit­tori si sono con­qui­stati la fama di geni atti­rando con­tem­po­ra­nea­mente su di sé tante anti­pa­tie e tante cri­ti­che. Per i suoi com­pa­trioti irlan­desi, Joyce è disgu­stoso, se non addi­rit­tura folle. Per gli inglesi è eccen­trico e ’irlan­dese’. Per gli ame­ri­cani è un grande spe­ri­men­ta­tore, un gran signore, forse, però, troppo duro di cuore; men­tre i fran­cesi, fra i quali visse vent’anni, riten­gono che gli man­chi quel raf­fi­nato razio­na­li­smo che farebbe di lui un vero let­te­rato».

Dall’altra parte, c’è il suo imper­fetto, man­che­vole alter ego umano: «Molte cose gli pos­sono essere rim­pro­ve­rate, la ten­denza a sper­pe­rare, l’attaccamento all’alcol, e altri atteg­gia­menti poco mae­stosi o poco deco­rosi (…). Si attor­niava di gente per lo più oscura: certi suoi amici erano dome­stici, sarti, frut­ti­ven­doli, por­tieri d’albergo, por­ti­nai, impie­gati di banca, e que­sta cer­chia di per­sone gli era indi­spen­sa­bile quanto mar­chesi e mar­chese a Proust».

Ma assieme allo stu­dio della bio­gra­fia e delle poe­ti­che joy­ciane, come ha notato Declan Kiberd, Richard Ell­mann pos­se­deva, sopra le altre virtù, un’enorme atti­tu­dine empa­tica. Una dispo­si­zione che pare acco­starsi al motto wil­diano secondo cui il ritratto riflet­te­rebbe molto più l’animo dell’artista che non quello del suo sog­getto. In tal senso si può dire che Ell­mann sia stato, a tutti gli effetti, esem­pio cal­zante del cri­tico come arti­sta: que­ste pagine (ma lo stesso può dirsi per quelle su Yeats e Wilde) paiono tanto minu­ziose nei det­ta­gli e nell’aneddotica, trac­ciando con­ti­nui link tra la vita e la scrit­tura, quanto, potremmo dire, intro­spet­tive, nem­meno fos­sero auto­bio­gra­fi­che.

Una voca­zione sin­cera e pode­rosa che Ell­mann rivela tanto nell’approccio ai suoi scrit­tori che nei rap­porti con i loro amici e fami­liari; pre­ziosi testi­moni ocu­lari, vere e pro­prie miniere d’informazioni, oltre che di mate­riali quali let­tere, diari, appunti, ma anche docu­menti per­so­nali, arti­coli di gior­nale, car­to­line e biglietti postali spe­diti da Joyce ai pro­pri cari nel corso di un’esistenza vis­suta da esule.

Se il volume ha un limite, è quello della distanza cro­no­lo­gica che lo separa dai let­tori odierni: si porta neces­sa­ria­mente die­tro l’inattualità di taluni pas­saggi cri­tici o, per­sino, la loro par­zia­lità. Come ha dimo­strato John McCourt, Ell­mann ha infatti sot­to­va­lu­tato — forse male imbec­cato dai reso­conti del fra­tello Sta­ni­slaus — la reale impor­tanza for­ma­tiva dell’esperienza trie­stina di James. Ma al di là di quest’appunto, la ripub­bli­ca­zione di James Joyce non va accolta come un ine­dito con­tri­buto cri­tico, quale, evi­den­te­mente, non può essere, ma come un docu­mento ecce­zio­nale e un neces­sa­rio omag­gio ai let­tori italiani.

Il Manifesto – 22 luglio 2014

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