FIGLI SENZA PADRI
Pubblichiamo un pezzo uscito su La Sicilia, che ringraziamo.
di Anna Giurickovic Dato
Dove sono finiti i nostri padri? Le arti contemporanee, prima tra tutte la letteratura, pongono, irriverenti, questa domanda. La domanda, però, arriva di traverso ai suoi destinatari e, d’improvviso, torna indietro come un’accusa.
Noi siamo i “bamboccioni”, così ci battezzò un ex ministro: pigri, sfaticati, attaccati alla gonnella di mammà. Esistiamo dal 2009 – o meglio, è dal 2009 che tale termine sprezzante ci etichetta – e, a quanto pare, così risulta da come ci descrivono, non ce ne andiamo di casa neanche sotto la spinta di un bel calcione, perché siamo incompetenti, deboli, poveri, precari, ma soprattutto pessimisti.
Siamo coloro che pagano il prezzo di un cambiamento epocale che noi stessi abbiamo sostenuto e sosteniamo, ma nel quale abbiamo bisogno di assestarci.
Siamo figli senza padri, né istituzioni, abbiamo continuato – non siamo noi ad aver cominciato quest’opera – a scardinare gli infissi di un sistema sociale vetusto e avariato, che tuttavia continua a resistere: non avevamo considerato la presenza di qualche serramento antieffrazione; non avevamo neanche considerato di poterci ritrovare a vivere in un sistema ibrido, di dover costruire dopo aver distrutto, di dover reinventare i padri che avevamo ucciso.
In casa nostra non c’è Dio – prendo in prestito un verso della canzone Zitti e buoni dei Måneskin e lo pluralizzo. D’altra parte, persino un personaggio molto illustre si ritrovò a invocare il padre proprio nel momento più angosciante della propria vita e, nonostante l’amore infinito e l’onnipotenza del genitore, si riscoprì solo: è notte fonda nell’orto degli ulivi e Cristo, in agonia, prega il padre, ma Dio non c’è. È un’esperienza di abbandono assoluto quella di Gesù che, poco prima di morire, è più che mai uomo e, in quanto uomo, è orfano e solo.
Noi, gli abbandonati, i bambini sperduti dell’Isola che non c’è, non rimpiangiamo i padri del passato. Chiediamo che la mano del padre simbolico (che è anche madre, garanzia, presenza) non sia pesante come quella dei padri letterari più temuti, ma sia in grado di offrirci i criteri e i valori attraverso cui sapremo orientarci, anche per mezzo della disobbedienza.
Era il 1919, quando Franz Kafka scrisse la sua Lettera al padre: aveva trentasei anni, due anni prima uno sbocco di sangue annunciò la sua tubercolosi, cinque anni dopo, nel 1924, morirà. Il padre gli sarebbe sopravvissuto sette anni. “Mi hai chiesto perché sostengo di avere paura di te” è l’incipit della lettera con cui Kafka tratteggia un padre autoritario, una figura gigantesca e temuta, estranea e per la quale non mostra alcun affetto. “Sei stato troppo forte per me” gli scrive; lo accusa di avere una fiducia illimitata nelle proprie opinioni, lo paragona addirittura a un tiranno perché, come tutti i tiranni, il suo diritto si fonda sulla persona, non sul pensiero: un padre legibus solutus che impone regole ma non le rispetta. Lui, il Franz-Edipo dell’epistola, si sente una nullità, continuamente disprezzato, diminuito, incapace di incontrare le aspettative che il padre ha per il suo futuro. Il padre, Hermann-Laio, è, invece, “la misura di ogni cosa”.
Così, mentre Franz Kafka lentamente moriva, Zeno Cosini riceveva un ultimo schiaffo umiliante dal proprio padre, anch’esso autoritario e sprezzante al punto che, ritenendo il figlio inadeguato alla vita, nel testamento previde che fosse seguito da un tutore per sempre. Era il 1923 quando uscì il romanzo di Italo Svevo, emblematico affresco di una società pienamente patriarcale, di padri “rivali” che non hanno stima dei figli e di figli prigionieri dell’odio verso i propri padri. Così come è Bepi, il Giuseppe Berto de Il male oscuro.
Ma ecco che a un certo punto – sarà merito degli anni Settanta? –l’aura autoritaria del padre si disgrega, si deforma, assume contorni sbiaditi e questo, ai figli, continua a far male, seppure in maniera diversa. Edipo è cancellato dall’Anti-Edipo che, diversamente da come sembrerebbe suggerire il suo nome, non rappresenta il suo opposto, ma la sua evoluzione: non più un figlio che medita vendetta in silenzio e che, nell’inerzia, soccombe, bensì un figlio che ha saputo passare all’atto e che, impugnato il coltello, quel padre, finalmente, lo uccide. Anche il padre appare diverso: autoritario, sì, ma soltanto in alcuni momenti; in altri, invece, è uomo privo di limiti, preso dalle passioni più che da un sentimento paterno, padre incestuoso o violento, assente, alcolizzato o dedito al gioco d’azzardo.
Lucas e Klaus, i gemelli della Trilogia della città di K. (il capolavoro di ÁgotaKristóf) il padre lo fanno saltare su una mina: lui aveva chiesto aiuto per attraversare la frontiera, ma viene sacrificato ed è sulle orme del padre morto che i figli potranno attraversarla indenni.
Il padre deve morire perché il figlio possa vivere. Nella morte del padre risiede, però, una profezia avversa che si ritorcerà contro i figli: nulla è stato ereditato, ogni valore che sia simbolicamente contenuto nel padre non soltanto evapora, ma non è stato mai trasmesso.
Non sono neanche questi i nostri padri: quelli che invochiamo oggi noi trentenni e quarantenni, né quelli che tratteggiamo oggi noi scrittori. Sono, invece, padri molto umani e, per questo, vulnerabili. Per Recalcati il presente offre un’altra possibilità, quella di essere dei figli Telemaco e dei padri Ulisse: l’uno aspetta che l’altro torni; nel frattempo sopporta ogni violenza e sopruso, resistendo, seppure con difficoltà, perché è certo che la promessa del padre non sarà una promessa vana. Il padre, tuttavia, non promette nessuna autorità, alcuna certezza, ma soltanto di desiderare fortemente la vita: quel desiderio è già un valore e un’eredità.
Così, nel citatissimo romanzo di McCarthy, La strada, padre e figlio, entrambi senza nome, attraversano un mondo apocalittico e senza salvezza: il padre guida, ma non rappresenta una sicurezza, lui stesso ha paura, lui stesso procede cieco nel percorso – il percorso di un’epoca – sino a che in un lapsus significativo si sbaglia e si rivolge al proprio figlio chiamandolo “papà”. Questa è forse la stessa sensazione di impotenza che prova un padre davanti a un figlio che gli insegna ad allegare un file nell’e-mail o lo aiuta a recuperare la password del profilo di Facebook o lo consola perché non ha ottenuto l’affidamento: chi accudisce e chi è l’accudito? Chi è il padre e chi è il figlio? Si nasconde nei piccoli ribaltamenti quotidiani la chiave dell’inversione generazionale.
Basta guardare ad alcuni dei romanzi pubblicati più di recente, senza sforzarsi di andare troppo indietro: il padre di Addio Fantasmi (Nadia Terranova) è scomparso, quello di Sembrava bellezza (Teresa Ciabatti) è assente, quello di Nessuna parola dice di noi (Gaia Manzini) è sconosciuto, il padre di L’acqua del lago non è mai dolce (Giulia Caminito) è paralitico e depresso, quello di Febbre (Jonathan Bazzi) è inaffidabile, quello de Gli affamati (Mattia Insolia) è un padre morto.
Non siamo gli “sdraiati” (dal famoso libro di Michele Serra) ma gli “spatriati”, come nell’ultimo, bellissimo, romanzo di Mario Desiati, destinato a segnare una frattura epocale: quella dei figli senza terra e senza padri, figli che scelgono di nominarsi da soli e di non essere più nominati.
Articolo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/
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