SE È ANCORA POSSIBILE FOTOGRAFARE VENEZIA
(foto di Anna Toscano)
La bellezza di alcune mostre, come di alcuni libri, è quella di spalancare una, o delle visioni, dove di norma si pensa non ci sia più nulla da vedere, dove si pensa i punti di vista siano esauriti e ormai ogni immagine sia obsoleta. Accade con Venezia. Fotografare o scrivere Venezia è ancora possibile? E come? È così ingombrante, con la sua bellezza e il suo passato, per non parlare del suo presente, che non potrebbe fare da sfondo a nessuna storia, per immagini o a parole, perché subito farebbe passare in secondo piano ogni personaggio, ogni oggetto, per esserne la sola e unica protagonista.
Fotografare Venezia ha a che fare con l’immagine di Venezia: immagine ritoccata, modificata, virata nei colori e nelle angolazioni tanto da chiedersi quale sia la Venezia che esiste ancora. Una città scenografia di sé stessa, scenografia imponente, per miliardi di umani che la attraversano da sempre: cambiano i costumi, le fogge, i modelli, i tagli di capelli e i cappelli ma lei è lì sullo sfondo. Lo penso ogni volta che esco di casa affrontando controluce campo Santo Stefano, e mi ritorna in mente un celebre scatto di Tomaso Filippi, fotografo veneziano che ha ripreso la città lagunare tra fine Ottocento e inizio Novecento, in cui esattamente dal punto in cui mi trovo immortala per sempre mezzo campo e alcune donne e uomini che lo attraversano. E penso, cosa abbiamo aggiunto ancora in oltre un secolo? Molto. Cosa c’è da aggiungere? Nulla, mi rispondevo. Ma sbagliando. Perché al netto degli scatti dei professionisti, delle immagini postate in tutti i social, delle tecnologie più avanzate come i droni, ci sono ancora modi nuovi di riprendere questa città.
L’ho pensato, con enorme gioia, visitando la mostra HYPERVENEZIA, a Palazzo Grassi fino al nove gennaio 2022: esposizione che raccoglie un immane lavoro di Mario Peliti, a cura di Matthieu Humery, composto da 400 fotografie in un percorso lineare che va a ripercorrere un ideale itinerario lungo i sestieri, un’installazione video di oltre 3.000 fotografie e una mappa composta da 900 foto che rappresenta la forma della città, ogni immagine è collocata esattamente nel posto in cui si trova nello spazio urbano. Circa 4.300 fotografie.
Il progetto di Peliti prende avvio nel 2006 – si concluderà nel 2030 – quando decide di mappare tutta la città per documentare il tessuto urbano, il numero totale delle immagini scattate sono 12.000. Si tratta di fotografie che, nonostante siano state fatte lungo un arco di tempo molto lungo, hanno le medesime caratteristiche: sono in bianco e nero, realizzate con la stessa condizione di luce, con pochissime ombre e senza presenza umana.
La disposizione lineare fa sì che le immagini si staglino come un confine a metà del muro bianco, nella parte sotto possiamo immaginare acqua e fondamenta, in quella sopra lo spazio bianco è tutto per lo spettatore: un po’ come nella poesia in cui tutto lo spazio bianco attorno a una poesia è lì per il lettore, affinché ci metta, ci veda e ci trovi qualcosa di sé durante la lettura, anche qui il muro sembra invitare ad amplificare e al contempo isolare l’evento visivo dell’immagine per stare anche nel bianco soprastante che parla delle fotografie ma anche di chi le guarda.
Il muro con la mappa della città composta di fotografie che riproducono il luogo di dove sono poste si può vedere già salendo la scala principale, intravedere attraverso le colonne, e la resa è di grande impatto già da distante; da vicino si avverte l’effetto immersione man mano che con gli occhi si cercano angoli e scorci conosciuti. Ispiratosi alla mappa in prospettiva di Jacopo de Barbari del 1500, questo lavoro dà un immediato senso si orientamento, per poi, man mano che ci si avvicina, creare un effetto di straniamento di essere ovunque e in nessun luogo, di dominare un luogo che vive benissimo, forse anzi meglio, come parrebbero testimoniare queste fotografie, senza l’umana invasione.
È proprio nell’inevitabile ricerca che ognuno fa dei luoghi, nel tentativo di riconoscimento degli scorci, che si inizia a percepire che qualcosa sta accadendo o è accaduto con questi scatti: l’inquadratura, fotografia dopo fotografia, non è mai quella che ci si aspetta, non è mai una inquadratura ovvia, standard, già vista. Ciò che fa di questa mostra, di queste fotografie, un discorso altro sulla città di Venezia è soprattutto questo coglierla, inaspettatamente, da un punto di vista insolito. E non è cosa da poco, trovare un punto di vista inconsueto rispetto a chi pratica e conosce la città, rispetto a chi la vede e l’ha vista una infinità di volte.
Ma questo è lo scarto del fotografo: Mario Peliti nel suo intento documentaristico ha usato l’occhio del fotografo, quel modo di guardare alle cose per vederle, per coglierle. La ricerca formale messa in atto, il comune denominatore di quantità di luce, bianco e nero, assenza di persone, sembra aver concesso una nitidezza di visione acutissima al loro autore e al contempo una incredibile sobrietà di composizione, cosa per nulla facile in una città come Venezia. La poca presenza dell’acqua, infine, della laguna, che compare in qualche fotografia ma a margine, sembra restituire forza a questa città creata da umani folli, geni e poeti, e togliere alla laguna la sua prevaricante presenza.
Venezia appare così vuota, sobria, quasi fosse un’immagine pensata e non reale. In effetti prima della pandemia queste immagini sarebbero sembrate assolutamente incredibili: a oggi, dopo aver visto direttamente o attraverso immagini di altri cosa possa essere Venezia vuota, la mostra ci sembra la rappresentazione di un sogno pensato, o semplicemente sognato. È questo il di più, è questo l’hyper del titolo: l’aver lavorato in una visione normale, con tutti i limiti e le possibilità di un apparecchio fotografico, ed esser riuscito a dire cose che non si possono dire, averle fatte vedere. E noi, nello spazio bianco che ci sta attorno, ci possiamo ritrovare, reinventare, fermare.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Scrive per minima&moralia e altri, tra i quali Il Sole24 Ore, Doppiozero, Leggendaria. Sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, (2018); liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti sono apparsi in riviste, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.
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