I PAZZI DI CORLEONE
La storia non si fa con i “se” e con i “ma”. Però, ieri sera, presentando al Cidma il libro di Ernesto Oliva “I pazzi di Corleone” (insieme a me e all’autore, sono intervenuti anche Claudio Di Palermo, vicepresidente Cidma, il sindaco Nicolò Nicolosi e Il giornalista Mario Midulla), non ho saputo trattenere una riflessione che adesso voglio condividere con i lettori. Se al processo di Bari del 1969 i mafiosi di Corleone alla sbarra (personaggi come Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano) fossero stati condannati per i tanti omicidi commessi, la storia d’Italia sarebbe cambiata. Probabilmente non ci sarebbero stati tanti omicidi eccellenti. Non ci sarebbe stato l’assassinio del giudice Cesare Terranova e del suo fedele collaboratore Lenin Mancuso (proprio ieri - l’abbiamo ricordato - ricorreva il 42mo anniversario del sacrificio dei due servitori dello Stato).
Non ci sarebbero state le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ma lo Stato allora non seppe proteggere né i primi “pentiti” corleonesi e nemmeno i primi “testimoni di giustizia” di questa cittadina dell’entroterra palermitano, per cui lasciò minacciare nel famigerato carcere dell’Ucciardone pentiti come Luciano Raia; lasciò minacciare nella sua casa la moglie Maria Lanza; lasciò intimidire la vedova della guardia campestre Calogero Comaianni, Maria Paternostro, testimone oculare dell’assassinio del marito operato da Luciano Liggio e Giovanni Pasqua.
Per salvarsi, Raia finse di essere smemorato e pazzo, la moglie ritrattò tutto e ai giudici non parve vero di poter assolvere boss e gregari per insufficienza di prove. La vedova Comaianni, intimidita e terrorizzata dalla paura che potessero far male anche al figlio Carmelo (pure lui testimone del delitto), interrogata in tribunale, ebbe qualche incertezza. E tanto bastò ai giudici per dichiararla inattendibile ed assolvere per insufficienza di prove i carnefici del marito.
Questi fatti ed altro ancora ci racconta il bel libro del giornalista Rai Ernesto Oliva. L’abbiamo voluto presentare al Cidma (Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e sul Movimento Antimafia) per far conoscere una pagina dimenticata della storia di Corleone. La “vulgata” mafiosa tramanda che non ci sono mai stati pentiti tra “i corleonesi”, mafiosi duri e puri, che si spezzano ma non si piegano. Non è vero. Luciano Raia era un mafioso corleonese della cosca navarriana che, “per paura di essere scannato come un maiale”, volle parlare prima col vicequestore Angelo Mangano e poi con i magistrati Pietro Scaglione e Cesare Terranova. Confessò tanti crimini commessi dalla cosca avversaria, quella dei “liggiani, per salvarsi la pelle. Ma le cose, purtroppo per lui e per l’Italia civile, andarono diversamente. Allora non c’era una legislazione per i “pentiti” e per i “testimoni di Giustizia”, il codice penale ancora non prevedeva il reato di associazione mafiosa (il 416bis della futura legge La Torre), erano di più i pezzi dello Stato che sottovalutavano la mafia (o flirtavano con essa), che quelli che la combattevano con determinazione e coraggio.
DINO PATERNOSTRO
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