ZANZOTTO NEL TEMPO DELL' ANTROPOCENE
di Alberto Russo Previtali
[È uscito da poco per Franco Cesati Editore il saggio Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio di Alberto Russo Previtali. Ne pubblichiamo un brano tratto dal secondo capitolo, intitolato Zanzotto: la consapevolezza geologica e lo sterminio dei campi].
Negli ultimi decenni della sua vita, Andrea Zanzotto è intervenuto spesso sui problemi che riguardano l’ambiente con toni di denuncia accorata e ardente passione civile. Nella “pletora” – per usare una sua parola importante – che caratterizza il mondo contemporaneo, la sua voce è riuscita a ritagliarsi uno spazio simbolico autorevole, certamente anche in virtù della profondità e della coerenza del suo percorso poetico. Questi interventi, ispirati da una fedeltà assoluta ai valori della poesia, attraversano i grandi temi dell’ecologia da un’angolazione singolare e rivitalizzante. Essi sono animati più che mai dall’esigenza profonda di denuncia sociale, dalla ricerca di una parresia attraverso la quale affermare chiaramente il fatto che «una megamalattia è in corso». Giunto alla fase senile della vita dopo aver vissuto in prima persona i cambiamenti radicali inferti dal mutamento storico alla sua terra, all’Italia e “al mondo”, Zanzotto denuncia i problemi più impellenti della contemporaneità con un’insistenza e un’intensità all’altezza della loro gravità. E lo fa con la consapevolezza di dover sfidare le narrazioni ufficiali dettate dagli interessi dominanti, correndo cioè il rischio di rientrare nella categoria stigmatizzata degli «inattendibili catastrofisti, intenti a predicare angosciosi quaresimali e utopie sinistre all’insegna del mille-e-non-più-mille». Zanzotto ha sfidato queste forme strutturali di delegittimazione, affermando con umiltà tenace che «il problema esiste ed è enorme». Nel passo citato, tratto dalla conversazione con Marzio Breda pubblicata nel 2009 con il titolo In questo progresso scorsoio, il poeta usa il termine “problema” per esprimere la sua condivisione dell’idea del rischio di «un collasso planetario», evocata dal suo interlocutore in riferimento alle teorie della decrescita di Serge Latouche. Ma il “problema” è per Zanzotto, in senso più lato, quello di una patologia generalizzata del mondo contemporaneo, che si è sviluppata nel corso brevissimo della Grande accelerazione, passando dallo stato di minaccia a quello di devastazione tangibile:
se mi è capitato ben presto di sottolineare una […] minaccia sovrastante il luogo e la lingua, devo però precisare che solo con il procedere degli anni Settanta e particolarmente dopo la metà degli anni Ottanta questa minaccia si è trasformata in reale devastazione. Una devastazione che non è solo morte di forme di vita: si sa che questo accade e un giorno qualcosa c’è, poi il giorno dopo scompare. Uso la parola devastazione perché si ha una proliferazione-metastasi di sopravvivenze distorte, di sincronie e acronie velenose[1].
Queste riflessioni sulla devastazione, formulate alla fine del Novecento, si affinano negli interventi degli anni di inizio millennio, giungendo a porre con chiarezza il problema centrale: «il problema dei problemi: quello della catastrofe climatica»[2]. Zanzotto lo definisce anche «l’unico, terribile problema che abbiamo davanti», e ne dà ancora una descrizione in chiave patologica: «un delirio sul quale si tenta di stendere un velo di dissimulazione nonostante ci siano sintomi che si accavallano ad altri sintomi e che confermano in pieno questa realtà» (ivi, p. 24). Siamo di fronte al punto di convergenza e di eruzione di tutta una serie di segnali e di eventi minacciosi e “deliranti” sentiti e denunciati poeticamente da Zanzotto nei decenni precedenti.
Un punto di riflessione importante, presente già negli anni Cinquanta, riguarda l’interrogativo sul senso dell’umano, posto sullo sfondo di una situazione storica parassitata dall’equilibrio del terrore e dalla minaccia atomica. L’aumento sconsiderato della potenza autodistruttiva e il concomitante tramonto di «tutte le formulazioni note dell’umano» aprono un vuoto simbolico che disorienta la vita collettiva, e nel quale la poesia, con il suo lavoro di resistenza e tessitura simbolica è chiamata a posizionarsi. Questa perdita del senso dell’umano si inserisce nella percezione di un collasso del tempo storico tradizionale, nell’idea apocalittica di fine della storia:
In un tempo come il nostro, tanto carico di tensioni divergenti, positive e negative, ogni ricerca deve in primo luogo fare i conti con la crisi che ha investito un’idea di uomo rimasta abbastanza stabile per millenni quale profonda ‘norma’, mentre ancora si è ben lungi dall’aver chiaro ciò che si vuole sostituirle. La scienza e la tecnica hanno creato un ingorgo, una congestione di ‘rivelazioni’ (invenzione e scoperta), da giustificare largamente l’appellativo di apocalittico dato al nostro tempo[3].
In questo passo vediamo già Zanzotto impegnato a sfidare il pregiudizio contro le tesi apocalittiche. Queste affermazioni, nella loro perentorietà, sono ancora più significative se si pensa che il saggio a cui appartengono, pubblicato nel 1966, annus mirabilis della fioritura dello strutturalismo, risente molto del clima di rigoglio nel campo delle scienze umane. Il passo ci ricorda dunque che l’interesse e l’uso poetico da parte di Zanzotto di concetti tratti da quelle discipline (in primis dalla psicoanalisi e dalla linguistica) avviene sullo sfondo della coscienza di vivere in un «tempo di fine di tempi, di mutamento dell’eone». Questo slancio avviene come tentativo speranzoso di trovare degli strumenti per affrontare lo «choc da apocalisse», ovvero per iniziare il lavoro poetico di rifondazione di una nuova idea dell’umano, di una nuova “norma”.
Quando Zanzotto denuncia la crisi di «un’idea dell’uomo rimasta abbastanza stabile per millenni» è già nel solco della mutazione antropologica pasoliniana. Ciò che interessa però, oltre all’indiscutibile convergenza di visione, è sottolineare che Zanzotto mette l’accento sulla dimensione strutturale e simbolica, e quindi psicologica (universale) di quella rottura, mentre Pasolini assegna in definitiva la priorità ancora a una dinamica di classe, con l’idea di borghesizzazione totalitaria della società e di genocidio culturale. Queste visioni sono inserite in una convergenza ancora più fondante, quella tra il privilegio accordato da Zanzotto alle idee di «choc da apocalisse», di «fine dell’eone», e quello riservato da Pasolini alla descrizione della fine del millenario mondo contadino. Anche in questo caso, partendo dal punto comune, è bene inoltrarsi nelle diverse sfumature prospettiche. Nel descrivere la sua apocalisse, Pasolini rimane in una prospettiva antropocentrica, e quando deve esprimere la fine della storia parla di una «Nuova Preistoria», non abbandonando la dimensione del tempo umano. Al contrario, attraverso il termine «eone», Zanzotto inserisce la sua riflessione in un tempo non umano, quello, impensabile e perturbante, delle ere geologiche. Si tratta, in effetti, di una delle linee tematiche più caratterizzanti e feconde di tutta la sua opera, che pone la sua esperienza in una profonda consonanza con la prospettiva dell’Antropocene, nella quale il punto di vista della geologia occupa appunto un posto centrale. Il confronto con la temporalità geologica come dimensione di verità umanamente insostenibile è rinvenibile con tagliente chiarezza già in alcuni passi premonitori di Vocativo:
E se intorno la terra è tempestosa,
se premono laggiù le rupi acerbe,
oltre i secoli amica a te la rosa
pende il lembo d’Arcadia pingue d’erbe.
[…] Quel nimbo ci dissanguerà,
quel furto molle che tarpa con la rosa il mostro
fossile e il marmo piega: stasi ed urto
dove in un altro vero affonda il nostro.
In questi versi di Bucolica, che Zanzotto stesso cita e commenta nella conversazione con Breda, vediamo come la «rosa» e l’«Arcadia», topoi che rimandano a una dimensione altamente idealizzata e letteraria della natura, vengano alterati nel contrasto con le rupi che, seppure «acerbe», appartengono a una temporalità che va «oltre i secoli» nei quali l’uomo scandisce la storia. Così, nell’ultima quartina del componimento, ecco la «rosa» essere assorbita dal «mostro / fossile», con l’enjambement come unica soluzione di continuità. In questi passi, nei quali Zanzotto dice di guardare oltre il tempo storico «occhieggiando alla paleoantropologia», emergono chiaramente le condizioni della crisi dell’idea dell’umano, che viene appunto verbalizzata in Fuisse, il componimento successivo che chiude la raccolta: «non-uomo mi depongo / ad attenderti senza nulla attendere». La temporalità che si estende «oltre i secoli» della storia nega l’immagine umanamente pensabile dell’uomo, che si presenta dunque come un «non-uomo» che vive una «vicenda non-umana» attraversata dal nulla in cui si confondono il passato e il futuro: il «fuisse umano», il tempo dell’essere stato. È uno sguardo che cerca di cogliere la vita «al livello della pietra», come si legge già nel saggio L’inno nel fango (del 1953), in cui Zanzotto dà un’interpretazione della poesia di Montale come approdo di una «discesa verso la “cosa”», nel quale la temporalità umana si vede ridotta all’inerzia dello scarto, del «presente come regno delle scorze e dei gusci vuoti». Questo spazio tematico zanzottiano trova certamente nell’opera di Leopardi la sua sorgente, ma si nutre anche di altre presenze (come quella dell’abate Zanella e della sua «conchiglia fossile») crescendo progressivamente nel corso dei decenni, fino a diventare un punto fisso della riflessione del poeta, come attesta il titolo dell’exit opus del suo itinerario: Conglomerati.
Negli interventi di inizio millennio, l’idea di un’irruzione del tempo geologico si presenta da un lato come un effetto importante della “malattia” della contemporaneità, e dall’altro, invece, come una delle sue cause, e quindi come un possibile orizzonte di azione culturale. Zanzotto parla della «consapevolezza geologica» come «del trauma forse più forte che l’uomo abbia dovuto soffrire: passare dalla storia alla geologia e tentare di armonizzare il tempo storico con il tempo biologico e, appunto, con quello geologico e cosmologico» (Eterna riabilitazione, p. 66). Questo colpo poderoso inferto all’immagine dell’uomo collettivamente condivisa ha reso necessario «un brusco aggiornamento», che Zanzotto data «a partire dal XIX secolo» (ivi, p. 46). La visione storica dell’affermazione della «consapevolezza geologica» può dunque essere letta come un tentativo di raccontare “l’evento Antropocene”, o almeno di metterne in evidenza un aspetto essenziale. Tuttavia, quando Zanzotto parla di «vero grande trauma, che non è stato ancora digerito, anche socialmente» (ibid.), sembra mettere l’accento sulla sfida etica, culturale e civile che questo trauma comporta.
L’accento posto sul carattere traumatico e spaesante di questa irruzione non può che richiamare la narrazione freudiana dell’invenzione dell’inconscio come terza ferita narcisistica inferta dalla scienza al genere umano, dopo quelle di Copernico e di Darwin. Ebbene, Zanzotto sembra porre l’irruzione geologica come una quarta umiliazione per il genere umano, che oltrepassa e rende più acute ad un tempo le ferite precedenti, essendo ad esse intimamente legata. Porre le tre sovversioni – cosmologica, etologica e psicologica – nella prospettiva «dei baratri dei milioni di anni», facendo crollare anche la barriera rappresentata dall’impresa della civiltà, dalla «storia umana, quella condensata nei libri», significa davvero «scivolare in uno smarrimento totale, in un gorgo di contraddizioni». Ma, proprio in quanto trauma, questa ferita, che viene inferta con l’avvento dell’Antropocene, può anche essere vista come un’occasione per una rifondazione dell’umano. La quarta ferita narcisistica aggrava le tre precedenti perché aggiunge ad esse la dimensione del nulla, di una nientificazione più radicale di quella della morte individuale o dei cambiamenti storici. La prospettiva del «fuisse umano», dell’essere stato, è quella di una riduzione dell’uomo, qui e ora, da sempre, a fossile, a pietra, a scarto. È dunque un’occasione per provare a emanciparsi da una forma di società strutturata come moltiplicazione reticolare e speculare degli io, e muoversi verso una collettività fondata sul primato dell’inconscio come dimensione della povertà, della vulnerabilità del vivente. Riconoscersi collettivamente come appartenenti ai tempi geologici, ovvero uscire il più possibile dal punto di vista antropocentrico, potrebbe finalmente portare alla conquista di quel «giusto “antropocentrismo”» che è al centro della riflessione più antica di Zanzotto sul senso dell’umano:
L’insediamento umano nel quadro naturale costituito dal paesaggio potrebbe apparire del tutto accidentale o senza senso o addirittura dannoso come una piaga. […] Ma se, con sufficiente orgoglio e sufficiente umiltà, ci si colloca sul piano dell’uomo […] è necessario che riappaia un senso della presenza umana nel quadro naturale. […] E tale “collocarsi” dell’uomo assume piena evidenza quando lo si considera sotto l’aspetto dell’insediamento, giacché questo, come i lineamenti di un volto, traduce in termini sensibili tutta una storia della ragione, oppure, come purtroppo è possibile che accada, il suo fallimento[4].
La tensione etica profonda di questa visione, di questo «ingenuo ottimismo», pur nel suo progressivo indebolirsi di fronte al crescere della devastazione, rimane comunque viva nella forma di una disincantata speranza, di una spes contra spem tipicamente poetica. Quando per esempio Zanzotto osserva, in modo critico, che «anche ora le classi dominanti si comportano seguendo schemi temporali arcaici» (Eterna riabilitazione, p. 46), lascia intravedere una prospettiva di azione nell’assunzione di paradigmi all’altezza dell’epoca, che è quella appunto, insostenibile e feconda, della consapevolezza geologica. Senza un’elaborazione profonda di questa consapevolezza a livello delle strutture politiche e sociali non potrà prodursi nessuna ipotesi valida di terapia.
Il trauma della temporalità geologica, determinato anche dallo sviluppo della scienza e della tecnica, si dà al tempo stesso come rivelazione della loro incapacità di organizzare in modo equilibrato la vita umana sulla terra. Questa ambivalenza del rapporto tra la scienza-tecnica e la consapevolezza geologica si manifesta nel modo più eclatante con il problema della minaccia atomica. L’esistenza delle armi nucleari, ovvero lo sviluppo della capacità di autodistruggersi, è leggibile come una causa importante dell’irruzione della prospettiva geologica. Di fronte alla capacità nullificante di queste armi, viene scossa nelle sue fragili fondamenta la costruzione laboriosa dell’insediamento umano nelle strutture insondabili della natura, ponendo immediatamente il qui e ora della civiltà nella prospettiva temporale del fossile, riducendo l’uomo a non-uomo. D’altro lato, lo sviluppo delle armi nucleari può apparire anche come una reazione all’impossibilità stessa di assorbire la ferita geologica, come un modo di evitare il trauma. Una reazione maniacale, che si dà come diniego di fronte all’ultima ferita narcisistica: la perdita di potere e di prestigio viene occultata con una corsa all’onnipotenza, ovvero con il tentativo di portare all’estremo l’illusione narcisistica dell’uomo come protagonista di una storia lineare di progressi; un’illusione nella quale, come in ogni narcisismo, si annida il germe dell’autodistruzione. Il diniego che accompagna la presenza delle armi nucleari produce degli effetti sulla struttura stessa della cultura, intesa come spazio di vita.
Pur rimanendo su posizioni critiche, Zanzotto non ha comunque mai smesso di dialogare con il sapere scientifico. Nel richiamarne spesso le radici filosofiche, così come il fatto che, per gli antichi greci, «Apollo presiede sostanzialmente alla medicina come alla poesia», il poeta vuole affermare la necessità di credere nella scienza, poiché in essa è conservata la speranza in una «“terapia” totale». Ora, per Zanzotto, credere nella scienza significa provare a riportarla in contatto con il rovescio di una verità da servire: il trauma, la faglia insanabile, «il mancamento che ansima su una china» (Eterna riabilitazione, p. 37) da cui cresce la poesia. Significa provare a riportarla all’umiltà, all’assunzione della pochezza, dell’impurezza che sono proprie del soggetto gettato nel mondo e dei suoi referenti. Per questo la speranza di Zanzotto nel sapere scientifico è agli antipodi del prometeismo che anima una parte del dibattito in Antropocene. Il suo auspicio è quello di una scienza attraversata dal pessimismo, che diventi fonte di una prudenza etica e di un “gaio sapere” che sappiano orientare al meglio la scelta degli obiettivi e le strategie per ottenerli. Un “gaio sapere” testimoniato dalla sua poesia, in costante ritorno al mancamento bruciante con il passo erotico e giocoso della sua parola (come «ludus-rito-ritmo»), e capace in ogni momento e su ogni lacerazione della più salvifica ironia, del più eroico tentativo di assunzione soggettiva.
[1] A. Zanzotto, Tra passato prossimo e presente remoto [1999], in Id., Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano, 1999, p. 1367.
[2] Id., Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Nottetempo, Roma, 2007, p. 14.
[3] A. Zanzotto, Alcune prospettive sulla poesia oggi [1966], in Id. Le poesie e prose scelte, cit., p. 1137.
[4] Id., Ragioni di una fedeltà [1967], in Id., Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, 2013, pp. 69-70.
Articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=42418
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