Quelle accuse che spiegano la sentenza
di Armando Spataro
Come era prevedibile, la sentenza della II Corte d’Assise di Appello di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha generato opposti commenti. In attesa delle motivazioni, è bene discuterne con freddezza, comunque nel rispetto di quanti si sono impegnati per far emergere la verità sulla "zona grigia" che spesso ha caratterizzato i rapporti tra mafia e istituzioni.
Il dibattito post sentenza, però, è caratterizzato da una grave lacuna preliminare, l’omessa conoscenza dei capi di imputazione. Infatti, coloro che la criticano affermano che se la trattativa tra mafia e istituzioni c’è stata ("il fatto sussiste") non sarebbe accettabile che siano stati condannati solo i mafiosi affiliati ed invece assolti gli ex alti ufficiali dei Carabinieri ("perché il fatto non costituisce reato"), essendone stati, gli uni e gli altri, gli attori.
Ma proprio qui sta l’errore: la contestazione in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa — reato non previsto dal nostro codice penale — ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, prospettando stragi ed altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici. Il tutto con varie aggravanti, tra cui quella di voler avvantaggiare Cosa nostra, avvalendosi della sua forza intimidatrice.
Tale minaccia, prevista e punita dall’articolo 338 del Codice penale, è descritta in circa quattro pagine di capi di imputazione fin troppo articolati, sicché la sintesi qui proposta non è certo esaustiva, ma basta a porsi una precisa domanda: se il reato è facilmente configurabile per i vari boss mafiosi, che hanno minacciato e commesso gravi delitti, in particolare le stragi del 1992 e del 1993, per ottenere dalle istituzioni alcuni vantaggi, quali la revisione del cosiddetto maxiprocesso a carico dei componenti della "cupola" o del "carcere duro" previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, si può pensare che pubblici ufficiali ed esponenti politici approvassero tali condotte minacciose e si proponessero gli stessi fini, anche per rafforzare il potere mafioso?
Questo, infatti, integra il concorso in quel reato, il che appare assolutamente illogico, quasi surreale. È certo possibile, invece, che alcuni ufficiali dei carabinieri, a fronte di una lunga stagione di delitti mafiosi (risalente già agli anni Ottanta) nel corso della quale era drammaticamente emersa l’incapacità dello Stato di prevenire tali crimini, abbiano ritenuto di dover contattare uomini collegati a Cosa nostra per capire quali fossero le condizioni poste dall’organizzazione criminale per interrompere quella serie di sanguinose aggressioni (salvo poi verificare se tale iniziativa sia stata decisa autonomamente o sollecitata da uomini politici, anche di governo). Questo, però, non può integrare una condotta di concorso nel reato, ma semmai scelte e prassi investigative politicamente ed eticamente censurabili, tali da suscitare reazioni simili a quelle che, ad esempio, divisero il Paese in occasione delle trattative tra Stato e Br durante il sequestro Moro o quello del giudice Sossi.
Nel capo di imputazione, si legge però che quel tipo di approccio da parte di uomini delle istituzioni avrebbe comunque rafforzato la criminale determinazione mafiosa a minacciare lo Stato: potrebbe in teoria essere avvenuto, ma neppure ciò integra il concorso degli uomini delle istituzioni nel reato contestato poiché è a tal fine richiesto il dolo, cioè la volontà di rafforzare quella di chi agisce.
Ma è francamente difficile — se non impossibile — pensare che gli uomini delle istituzioni qui imputati, tentando di contenere l’impatto criminale di Cosa nostra, sia pure con contatti criticabili, "tifassero" per i mafiosi e ne volessero rafforzare la capacità di condizionare l’attività del governo e di limitare il doveroso esercizio dei poteri repressivi dello Stato.
Si vedrà se queste osservazioni saranno presenti nella motivazione della sentenza, ma intanto va respinta l’immagine del magistrato che si propone anche il compito di scrivere la storia oltre l’unico che gli compete, cioè quello di provare la responsabilità degli autori dei reati con riscontri oggettivi.
Lo affermò anche il magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi che, dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia nel 2002, parlando delle sue indagini su stragi e sui rapporti tra mafia e politica, concluse affermando che le connessioni e le conseguenze sulla società di fatti di grave entità, come ad esempio le stragi, non possono che essere accertate da una commissione parlamentare, competente per approfondimenti sotto altri profili.
La sentenza di Palermo, peraltro, rende onore anche a Francesco Di Maggio, deceduto nel 2002, il primo pm ad occuparsi del contrasto della mafia nel Nord del Paese, ma incredibilmente considerato nel capo d’accusa, con forzatura inaccettabile, concorrente dei mafiosi nelle condotte finalizzate a condizionare lo Stato.
Articolo ripreso da LA REPUBBLICA d'oggi
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