24 luglio 2014

F. ARMINIO: NELLE TERRE DEL GRANO



Questo intervento fa parte del numero 19 di «il Reportage» (luglio-settembre 2014), che è uscito nei giorni scorsi. Oggi è stato pubblicato nel sito leparolelecose:






Nelle Terre del grano, dove ogni paese è solo

di Franco Arminio

Sulla Napoli-Bari per chi esce al casello di Lacedonia ci sono due opportunità. A destra l’Irpinia d’Oriente: Calitri, Bisaccia, Cairano, Monteverde. A sinistra i monti dauni. Io che in Irpinia d’Oriente ci sono nato e ci vivo i monti dauni me li vado a prendere quando voglio. Ormai mi sento un ricco possidente. La terra è tutta mia, me l’hanno lasciata quelli che sono partiti. E anche i rimanenti, loro alla terra ci pensano poco.
Il mio giro comincia a Sant’Agata. Ci sono stato centinaia di volte. La meraviglia è vedere il paese da lontano. Una forma perfetta, che non ha avuto bisogno di piani urbanistici, si è fatta con l’idea di mettere le case al sole e una vicina all’altra. C’è stato un tempo in cui le vicende della comunità contavano più di quelle dei singoli. Il mondo contadino era durissimo, ma ora possiamo estrarne una buona radice.
Prima di arrivare a Sant’Agata mi fermo sotto una pala. In questo lembo di terra si produce un terzo di tutta l’energia eolica italiana. Una fabbrica nuova e una fabbrica antica, la fabbrica del pane e quella del vento. Stanno insieme senza molti problemi. Qualcuno pensa che hanno rovinato il paesaggio, magari si tratta di persone che il paesaggio non lo hanno mai guardato. Qui è il caso di usare un’orrenda frase: il problema è un altro. Il problema è che questa pale contengono la più grande rapina mai fatta a questi territori. Si può dire che dall’Unità d’Italia ad oggi i governi non siano stati attenti al Sud e ai paesi, si può piangere sulla grande ferita dell’emigrazione, sugli imbrogli venuti dopo i terremoti, tutte storie ampiamente dibattute. Quello delle pale eoliche è uno scandalo che non si riesce a istruire. E i primi a tacere sono le vittime. In questi paesi nessuno si sente imbrogliato, nessuno lo sente suo il vento e il vento se ne va, porta la sua ricchezza a pochi intrallazzatori che hanno fatto affari enormi, lasciando qui solo le briciole.
Mi fermo due minuti nella piazza di San’Agata, giusto per ammirare la tribù dei bastoni a passeggio nell’unico punto in cui il paese è in piano. Oggi non è il caso di salire verso il castello. Prendo la via di Accadia. Qui nessun luogo è vicino. Un paese lo vedi, ma poi per arrivarci devi rassegnarti a lunghi giri. Le strade sono poeticamente dissestate. Ogni tanto le frane portano via un pezzo di asfalto, le buche sono buone per allevarci le trote. L’unico vantaggio è che la strada non la devi spartire con nessuno. Sei solo a qualsiasi ora e in qualsiasi stagione.
I manifesti funebri
Ad Accadia tutto è come l’avevo lasciato. Il paese vecchio restaurato per un improbabile albergo diffuso è ancora perfettamente in disuso. Quello che doveva essere un carcere è una torta di cemento senza candeline. E chi doveva morire è morto, guardo i manifesti funebri e le panchine vuote e quando finalmente spunta qualcuno chiedo quanto tempo ci vuole per arrivare a Orsara. La strada la conosco, sono stato molte volte a Orsara, così come a Bovino, ma ho voglia di sentire una voce. Il tipo mi spiega tutto per filo e per segno, come se dovessi andare all’estero. Altro che Europa o Nazione, qui ogni paese si sente solo, non appartiene a nessuna Provincia, a nessuna Regione.
Eccomi di nuovo in moto sulla cresta di questi monti senza cime. Ecco da lontano la forma stranissima di Panni. È come se il paese avesse un lato tirato con la riga e il resto disegnato a mano. E pure ad arrivarci dentro ti prende una sensazione strana. Qui è come se il mondo contadino avesse concesso alla modernità solo qualche scampolo, l’atmosfera sa di terra e di cielo, le macchine, le insegne, tutto felicemente dimesso: il carro delle merci è ai margini del quadro.
Per arrivare a Orsara devo scendere a valle, e poi risalire. Il paesaggio non cambia. Ancora silenzio. Oggi sono un turista del silenzio e della luce. Mi sto facendo un meraviglioso regalo con poco, con niente.
A Orsara il primo incontro della giornata. Vado a trovare Peppe Zullo. Rimango stupito nel vedere cos’ha creato. Non è il caso di definirlo un oste. L’Appennino meridionale è pieno di buonissimi ristoranti. In Zullo mi pare che ci sia una costellazione di idee che legano terra e cibo in una nuova adiacenza. Si produce e si fa mangiare ciò che si produce. A me viene da pensare al fatto che nessuno mi aveva mai parlato veramente del suo lavoro. Le narrazioni al Sud sono riservate alla diffidenza e alla maldicenza, mai all’ammirazione.
A questo punto non posso non arrivare a Troia. Il paesaggio è bellissimo e mi aspetta il rosone della cattedrale e i buonissimi dolci della pasticceria vicina.
Ci metto poco a confezionare questo ennesimo regalo di una giornata vastissima. Da Troia cerco la via del ritorno e trovo ancora grano e terra e nessuna traccia di capannoni e officine e insegne e pompe di benzina. A un certo punto mi sembra che l’orrore della nostra modernità incivile sia svanito di colpo. Non c’è più niente e nessuno, solo terra e cielo. Non ci sono nemmeno io. Ero partito che mi sentivo un vecchio ramo che non riesce a fiorire e ora mi sento un filo d’erba che cresce per diventare grano.
Pina e Lorenzo
Parto da casa prima delle tre. Un anno fa moriva mia madre. In un anno sono successe tante cose. Intanto ho cominciato a scrivere senza aver voglia di scrivere. Sono tornato alla paesologia dopo le elezioni europee. Andare in un paese non a chiedere voti, ma solo per guardare, per sentire.
Mi sento stanco e forse sono anche stanco di fare il paesologo. Mi sembra che il terrore della morte un poco si è allontanato da me. E questo toglie intensità alle mie giornate e dunque anche alle visite paesologiche.
Non appena partito mi accorgo che la mia Canon è senza batteria, per fortuna ho il telefonino, qualche foto la posso fare comunque. Comincio sulla strada verso Deliceto. Alberi in mezzo al grano. Gli alberi solitari in mezzo al grano mi sembrano una cosa solenne.
Arrivo a Deliceto con un poco di sonno in testa, con il ginocchio leso che sembra più leso. Vado al forno a comprare qualcosa, consumismo rurale. Compro pane e biscotti. Chiamo Pina, una mia lettrice conosciuta un paio di giorni fa. È venuta col marito al mio paese per una riunione che avevo indetto per fondare un movimento che ho chiamato Democrazia percettiva.
Pina e Lorenzo arrivano presto. Si vede che sono assai contenti di parlarmi del loro paese. Lorenzo è stato appena eletto consigliere comunale, ma sarà un consigliere di opposizione.
Dentro il bar mi parlano lungamente di Deliceto. Vengo a sapere che ci sono una quarantina di associazioni, un numero incredibile per un paese del Sud con meno di quattromila abitanti.
Mi rincuora anche il fatto che un po’ di persone sono tornate alla pastorizia. Insomma, qui c’è tanto grano, ma i contadini fanno anche altro. Il primo regalo è un vasettino di Zafferano. Andiamo in un negozio di prodotti a chilometro zero. Pina e Lorenzo mi vogliono dare tutto il bello che c’è nel paese. Alla fine riuscirò a ricambiare solo con due miei libri: “Geografia commossa dell’Italia interna” e “La punta del cuore”, il libro di versi dedicato a mia madre.
Mi sono preso un caffè mentre parlavamo al bar, ma i nervi non si sono smossi. È un frutto della campagna elettorale: una volta andavo avanti a xanax, ora vado avanti a caffè. Dal panico allo sfinimento. La continuità è nella veloce alternanza di contentezza e disperazione che da sempre si alternano in me. Capita anche ad altri immagino. Forse la specificità nel mio caso è che sono disperato quando dovrei essere contento e sono contento quando dovrei essere disperato.
Deliceto non è un paese della bandiera bianca. Ha una bellissima posizione geografica. Il bosco nella parte alta del territorio, il grano nella parte bassa. E c’è anche una zona di ulivi. A guardare le case addossate sotto il castello è anche un bel paese, raccolto, aggraziato nel suo sapore rurale. La nota stonata viene da quello che hai sotto i piedi. È come se ogni sindaco avesse voluto lasciare il suo segno. Ho visto in piazze e strade almeno una trentina di pavimentazioni diverse.
Saluto Pina e Lorenzo. Mi avvio ancora una volta verso Accadia. La strada che percorro è bella e silenziosa. Il grano e le ginestre, ogni tanto spunta una capra, non si vedono villette, un paesaggio sobrio.
Arrivo ad Accadia, ma non entro dentro, ci sono stato tante volte. Passo dal bivio di Monteleone. Anzano non si può evitare, ma la attraverso di striscio, in effetti le persone è più facile trovarle in periferia che al centro. Scampitella non ha centro né periferia, attraversi la strada e il paese è ai lati della strada.
Facce come campi arati
Sono rientrato a casa prima delle otto di sera. In altri tempi avrei fatto un giro con più indugi.
Le prime volte che ho visto questi paesi del sub appennino dauno mi sono molto emozionato. Mi piacciono ancora. Mi piace che sanno di terra. Le facce degli anziani sembrano campi arati. Oltre alle macchine, vedi i trattori parcheggiati davanti alle case. Mi fermo a quello che vedo. Lorenzo mi ha parlato in continuazione delle potenzialità del paese, ma è come se mancasse qualcosa, anche se non manca niente, c’è perfino una fabbrichetta che costruisce lo speculum che i ginecologi usano per le ispezioni vaginali.
La cosa che mi ha colpito di Deliceto è che ci sono tante persone in giro, è una caratteristica dei paesi pugliesi. La gente sta ancora volentieri all’aria aperta. Mi pare una buona cosa.
Stasera ho assaggiato alcuni dei prodotti che mi hanno donato. Sono buonissimi. Allora si può dire che Deliceto è uno dei punti in cui l’Italia resiste. È grazie a posti come questi che la penisola conserva una sua forza. Un viaggio tanto breve non mi fa conoscitore del luogo, ma è un posto che mi dà fiducia, anche se forse è amministrato senza slanci utopici. Non è facile capire cosa sia il futuro, forse non è la telecamera installata in piazza per trasmettere in streaming il passeggio ad uso degli emigrati che possono vedere ciò che accade al loro paese.
Il futuro di Deliceto è nella sua terra, è nella sua lontananza dai caselli autostradali. Forse i problemi di questo paese non sono economici, forse c’è un problema di umore, come se nei paesi ci fosse un meccanismo che tiene a galla la scontentezza e affonda la felicità. Prima di un sindaco i paesi dell’Italia interna avrebbero bisogno di una psicoterapia di gruppo. Questi paesi non sono più divisi tra cafoni e galantuomini, ma tra scoraggiatori militanti e sognatori solitari. I primi sono molto più numerosi dei secondi, ma ormai hanno gli anni contati. Il futuro è dei sognatori.
 

GOBETTI LASCIATO SOLO



Due lettere finora inedite permettono una nuova lettura dei rapporti fra Piero Gobetti e Filippo Turati nel periodo del rapimento e dell'assassinio di Matteotti. E il dirigente socialista non ne esce benissimo.

Massimo Novelli

Quando Gobetti fu lasciato solo contro il Duce



Dopo il delitto Matteotti, 90 anni fa, il giovane liberale fu l’unico a lanciare l’allarme Ma Turati non raccolse. Come testimonia un carteggio mai visto fu incompreso, o perlomeno visto con sospetto, anche da chi militava nel suo stesso fronte antifascista. Il destino di Piero Gobetti, nato a Torino nel 1901 e morto in esilio a Parigi, non ancora venticinquenne, nel febbraio del 1926, era segnato fin dall’inizio.

Lo testimonia lo scambio epistolare che intrattenne con Filippo Turati, il grande vecchio del socialismo italiano, nel giugno del 1924, poco dopo il rapimento e l’assassinio, il giorno 10, di Giacomo Matteotti, il cadavere del quale sarebbe stato scoperto il 16 agosto, esattamente 90 anni fa. Al giovane autore de La rivoluzione liberale, che gli chiedeva consigli e autorizzazioni per dare velocemente alle stampe un volume di scritti di Matteotti, in funzione della battaglia per «battere in blocco mussolinisno e maggioranza», il leader del riformisti del Partito socialista replicò opponendo un diniego.

Nei giorni seguenti, scrivendo ad Anna Kuliscioff, Turati spiegò di avere accelerato il proposito di pubblicare quei testi, se no «altri ci usurperà quello che è un nostro diritto e dovere». L’iniziativa, in sostanza, era stata presa dall’anziano dirigente politico quasi come una sfida o un’appropriazione indebita, dimostrando così di non avere compreso gli intenti di Gobetti, teso invece a dare concretezza e slancio alla lotta antifascista nel nome di Matteotti. In ogni caso Gobetti non si arrese.



Nel ‘24 fece uscire alcuni testi dedicati al deputato fatto uccidere da Mussolini: prima nella rivista La Rivoluzione Liberale e, successivamente, in un volumetto della sua casa editrice.

A rendere note le due lettere, ricostruendo l’episodio esemplare nel contrapporre il dinamismo gobettiano all’attendismo di Turati, è lo storico torinese Marco Scavino. Lo fa nell’ultimo numero di Critica liberale, il trimestrale fondato nel 1969 e diretto da Enzo Marzo. Non è il solo documento proposto dal periodico, che riporta anche una fotografia inedita dell’intellettuale torinese rintracciata dagli archivisti del Centro studi Piero Gobetti di Torino.

Certo è che la lettera a Turati e la risposta di questi assumono una valenza particolare, soprattutto se si leggono alla luce dei travisamenti che Gobetti avrebbe subito dopo la Liberazione. Fu «imbalsamato», o interpretato in maniera fuorviante, dalla sinistra egemone, ossia dal Pci. E venne (e viene) fatto passare per un comunista, estraneo alla tradizione liberale, dalla destra che pure si richiamava e si richiama a quei valori.

Una sorte, quella di Gobetti, comune ad altri esponenti di spicco della «altra sinistra», non comunista e democratica, libertaria e socialista, che si guadagnò la persecuzione tanto
dai fascisti quanto dagli stalinisti. Su Gobetti, poi, ci furono ampie ricadute, nelle interpretazioni di comodo del suo pensiero, nel dopoguerra. Altrettanto emblematico, al riguardo, è il caso di Carlo Rosselli,vassassinato dai fascisti francesi col fratello Nello su verosimile mandato di Galeazzo Ciano.

La sua opera Socialismo liberale, anche nell’Italia repubblicana, nata dalla Resistenza, per decenni venne osteggiata dal Pci. Palmiro Togliatti ravvisava nelle pagine di Rosselli un pericolo per la politica del suo partito e per l’Unione Sovietica; e anche Giulio Einaudi con la sua casa editrice si adeguò al silenzio, come ricordava in una lettera (pubblicata ora da Critica liberale) Aldo Rosselli, figlio di Nello.

A dare conto della «fortuna e sfortuna del filo rosso che parte da Gobetti e Rosselli », delle censure e degli occultamenti che si sono estesi ad Antonio Gramsci, è Marzo. Il direttore di Critica liberale le compendia in un lungo articolo di apertura in cui non risparmia critiche alle passate direzioni del medesimo Centro studi Gobetti, colpevole di non mettere a disposizione degli studiosi l’epistolario gobettiano tra il 1923 e gli inizi del 1926, che potrebbe «portare elementi nuovi alla vexata quaestio dei rapporti col comunismo e con i capi comunisti ».

Non è un mistero, d’altronde, che già nel 1921 Gobetti avesse sottolineato come «l’economista Marx è morto, con il plus-valore. con il sogno dell’abolizione delle classi, con la profezia del collettivismo ». Tutt’altro che un comunista, in buona sostanza.

Non si sa che cosa Gobetti avrebbe scritto e fatto, se la morte non l’avesse stroncato nel febbraio del ‘26. Ma proprio la lettera a Turati, «post 10 giugno 1924», ne rivela la tempra. Al capo socialista, oltre a domandare le carte di Matteotti, aggiungeva una postilla in cui affermava che era «necessario agire». Mussolini, continuava, «non cadrà: ma bisogna, se cade, che siano le minoranze a farlo cadere e a succedergli. Guai se si dovesse tornare a Giolitti!».

Nella risposta, invece, Turati evitò ogni considerazione politica, preferendo rivendicare il diritto di proprietà del partito rispetto a Matteotti, non senza qualche frecciata alla vedova e alla famiglia del parlamentare di «cui condividevano neppure le idee».


la Repubblica - 24 Luglio 2014  

SINDROME CRISPINA




Secondo un vecchio detto popolare “il paese è complesso, la gente mormora”. Forse non dice proprio così. Ma di sicuro gli italiani sono da sempre alla ricerca di un Uomo della Provvidenza che dall'alto aggiusti le cose. Salvo poi pentirsene a disastro avvenuto.

Alfio Mastropaolo

La sindrome crispina


È un feno­meno ricor­rente nella sto­ria d’Italia. Il paese è com­plesso. È arti­co­lato ter­ri­to­rial­mente e social­mente. Ha una sto­ria com­pli­cata, che ha lasciato stra­sci­chi impo­nenti, che l’unificazione non poteva can­cel­lare. Col tempo si sono pro­dotte arti­co­la­zioni ulte­riori e da sem­pre è stato pro­ble­ma­tico il fun­zio­na­mento delle isti­tu­zioni che soli­ta­mente reg­gono le società moderne. Cioè quello che pos­siamo sin­te­ti­ca­mente indi­care come il governo rappresentativo.

Labo­rioso fu il fun­zio­na­mento del par­la­men­ta­ri­smo postu­ni­ta­rio, fino al suo col­lasso che con­dusse al fasci­smo. E labo­rioso è stato il fun­zio­na­mento della demo­cra­zia dei par­titi, isti­tuita nel dopo­guerra. Sicu­ra­mente non priva di costi, tale labo­rio­sità ha dato ori­gine a una lunga sequela di ten­ta­tivi di dra­stica sem­pli­fi­ca­zione, magari evo­cando felici modelli stranieri.

Quel che si dimen­tica è che ogni paese ha i suoi pro­blemi. Che il plu­ra­li­smo è ovun­que dif­fi­cile da gover­nare. E che sono a dir poco cari­ca­tu­rali talune rap­pre­sen­ta­zioni idil­lia­che della sto­ria inglese, fran­cese, tede­sca, ame­ri­cana, di cui si com­piace la pole­mica poli­tica, ma che gli stu­diosi seri rifiu­tano (ma ci sono pure quelli non seri che atti­va­mente par­te­ci­pano alla pole­mica poli­tica!). Sta di fatto che cicli­ca­mente in Ita­lia com­pare qual­che attore poli­tico che nutre l’ambizione di ridi­se­gnare la forma di governo e di redi­mere d’un colpo il paese dei suoi difetti.



Tra i sud­detti ten­ta­tivi, oggi diremmo di “rifor­mare”, il primo effet­tuato su vasta scala fu quello di Fran­ce­sco Cri­spi. Il quale negli anni ’80 del XIX secolo, preso Bismarck a modello e con­dotta un’intensa cam­pa­gna nazio­na­li­stica, nutrita di vel­leità colo­niali, imma­ginò di intro­durre un regime di can­cel­lie­rato, met­tendo in ombra la sua ben più apprez­za­bile ambi­zione di pro­muo­vere vaste riforme sociali anche di segno demo­cra­tico.

Il ten­ta­tivo, com’è noto, finì malis­simo, tra scan­dali, san­gui­nosi eccessi repres­sivi e la scon­fitta di Adua, segnando in nega­tivo la figura di uno dei pro­ta­go­ni­sti del Risor­gi­mento. Se però Cri­spi fallì, sta­bilì in com­penso un pre­ce­dente, dato che la sin­drome cri­spina si è più volte ripre­sen­tata: a fine XIX secolo, al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo con­flitto mon­diale, col fascismo.

Allora l’involuzione auto­ri­ta­ria ebbe pieno suc­cesso. Que­sto è forse il più vero bipar­ti­ti­smo ita­liano: governo rap­pre­sen­ta­tivo mac­chi­noso da un canto, sin­drome cri­spina dall’altro.

In realtà, le for­za­ture anti­de­mo­cra­ti­che van­tano un solo suc­cesso: il fasci­smo, che riu­scì a rimuo­vere il governo rap­pre­sen­ta­tivo per un lungo ven­ten­nio, con con­se­guenze a dir poco tra­gi­che. Che non sono tut­ta­via bastate a gua­rire una volta per tutte la sin­drome cri­spina. Nella vicenda repub­bli­cana essa è riap­parsa più volte: ai tempi di De Lorenzo, con le mene della P2, ovvia­mente col craxismo.



Anzi, da Craxi in poi la sin­drome cri­spina non ha dato più tre­gua alla demo­cra­zia repub­bli­cana. Ci ha ripro­vato in par­ti­co­lare e con discreto zelo Ber­lu­sconi, tro­vando però un osta­colo insor­mon­ta­bile nelle isti­tu­zioni di garan­zia, nella corte costi­tu­zio­nale, nella pre­si­denza della Repub­blica, nei par­titi di oppo­si­zione, per­fino nella sue pro­pen­sioni affa­ri­sti­che, che hanno reso quanto meno sgan­ghe­rata la sua azione in tutti i campi.

Adesso è venuto il tempo di Renzi, il quale, van­tando un illu­so­rio 40 per cento di con­sensi elet­to­rali (non ha votato nem­meno il 60 per cento), cerca un diver­sivo ai dati depri­menti sulla cre­scita e sull’occupazione. A tal fine vuole a ogni costo libe­rarsi del Senato e adot­tare una legge elet­to­rale che, con il suo inde­cente pre­mio di mag­gio­ranza a chi arriva al 37 per cento e le sue non meno inde­centi soglie di accesso, non ha eguali in alcuna demo­cra­zia degna di que­sto nome. 

Tutto ciò con la com­pli­cità del lea­der — dimez­zato e squa­li­fi­cato da una con­danna penale — dell’opposizione e il silen­zio, tra­mor­tito, di gran parte del suo stesso par­tito. Torna dun­que la sin­drome cri­spina, men­tre sul Qui­ri­nale, finora atten­tis­simo ai destini del paese e alla buona salute della demo­cra­zia, aleg­gia il fan­ta­sma di Vit­to­rio Ema­nuele III.


Il Manifesto – 23 luglio 2014


19 luglio 2014

ABBASSO LA SCUOLA!


Pubblichiamo la prima parte di un articolo uscito sul numero di giugno di Educazione Democratica. Rivista di pedagogia politica (Edizioni del Rosone). Nelle prossime settimane seguiranno le altre tre.

Abbasso la scuola. Effetti perversi di un’utopia democratica



Quando un attività strumentale supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale.
Ivan Illich, La convivialità (1973)

Istruzione e crescita economica: un falso mito?

Se Gustave Flaubert tornasse in vita per scrivere un’edizione aggiornata del suo Dizionario dei luoghi comuni, sui principali argomenti potrebbe limitarsi alla semplice trascrizione di qualche documento ufficiale dell’ONU o dell’UNESCO. Nella fitta produzione letteraria di questi organismi transnazionali si articolano i dogmi della religione del nostro tempo in materia d’arte, cultura, politica e istruzione. Un distillato dell’ideologia che poi respiriamo nella propaganda istituzionale, nella comunicazione pubblicitaria e nella filosofia spicciola. Avendo già discusso della concezione dominante di Arte in un articolo del 2009 (raccolto nell’ebook Forza d’Arte), per proseguire il lavoro di critica dell’ideologia intendo concentrarmi sulla questione dell’istruzione — scolastica e universitaria — usando anche in questo caso come pretesto le definizioni emanate dalle organizzazioni delle Nazioni Unite.
In forma più sintetica e impulsiva, queste concezioni riaffiorano nei più suggestivi slogan di piazza che abbiamo letto in questi anni: «Senza cultura siamo solo spazzatura», «Chi taglia la scuola, cancella il futuro», eccetera. Seguendo queste tracce tenterò di rispondere a quattro semplici domande: primo, che cosa si aspetta la società dal sistema educativo? secondo, quali effetti perversi produce questo sistema sul piano economico e sociale? terzo, a cosa servono effettivamente l’obbligo scolastico e gli investimenti formativi? E infine quarto, per citare Ivan Illich[1]: bisogna descolarizzare la società? In questi quattro movimenti verranno descritte le contraddizioni di una società che, per rovesciare la replica di Mefistofele nel Faust di Goethe, «vuole costantemente il bene e opera costantemente il male». A interessarci qui non sono le problematiche interne del sistema educativo — sistema che conosciamo in qualità di ex-studenti e non di addetti ai lavori — ma le conseguenze collaterali che la competizione scolastica e universitaria provocano sulla società intera. Insomma partendo dalla scuola arriveremo a parlare della crisi della democrazia; forse perché l’unico modo di parlare di questa crisi è appunto partendo dalla scuola.
Procediamo con ordine: cosa ci aspettiamo, dunque, dal sistema educativo? L’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sancisce il diritto di ogni cittadino all’istruzione o più generalmente all’educazione, secondo i testi originali in inglese e francese. Due sono le principali finalità dell’istruzione: il «pieno sviluppo della personalità umana» e il «rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». La prima fa riferimento all’uguaglianza delle opportunità mentre la seconda esprime la convinzione che l’individuo debba essere, diciamo, programmato per la democrazia. Coltivando la finzione teorica di un livellamento preliminare delle condizioni economiche e delle posizioni politiche, la scuola appare insomma come pietra angolare dell’intero edificio di legittimazione del cosiddetto stato liberale secolarizzato. Un sistema che dovrebbe permettere al figlio di un operaio di diventare impiegato o al figlio dell’impiegato di diventare avvocato; un sistema nel quale a ognuno vengono forniti gli strumenti culturali per decidere del destino comune. Fondare la democrazia — ecco, in tutta semplicità, quello che ci aspettiamo dalla scuola.
Questa idea risale all’Illuminismo: nel progetto di riforma del sistema educativo presentato all’Assemblea Nazionale nel 1792, il marchese Condorcet sosteneva che l’istruzione pubblica fosse lo strumento necessario per formare una società composta da individui responsabili, uguali e opposti al dispotismo[2]. Secondo questa visione la scuola è la prima, vera e necessaria condizione della convivenza civile. In effetti, il buon cittadino democratico deve essere in grado di capire il mondo che lo circonda per esprimere delle preferenze politiche: egli si emancipa imparando a riconoscere il proprio interesse. Ma deve inoltre farlo in piena armonia con l’interesse collettivo, all’insegna di valori condivisi ovvero — cito ancora l’articolo 26 — «la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi».
Non si tratta di trasmettere soltanto una certa quantità di sapere, ma anche una specifica qualità. La Dichiarazione fa riferimento a un insegnamento animato dai principi della carta stessa: «libertà di parola e di credo», «uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna», eccetera. Secondo questa visione, un cittadino non-istruito potrebbe essere portato a formulare posizioni non-democratiche che risulterebbero per ciò stesso non-legittime. Ma secondo concezioni più inclusive della democrazia, come ad esempio quelle di Paul K. Feyerabend[3], Immanuel Wallerstein[4] o Slavoj Zizek[5], qui sta la contraddizione fondamentale dell’ideologia detta «universalista» o «umanitarista». Associando la legittimità di una posizione politica a una competenza che deve essere acquisita, o a una scala di valori che deve essere accettata, questa concezione di democrazia presta essa stessa il fianco ad accuse di classismo, razzismo e talvolta neocolonialismo.
Si tratta di un vero e proprio paradosso, che riemerge non appena uno scrutinio premia forze politiche considerate aberranti. Pensiamo alle reazioni di fronte ai risultati del Fronte Nazionale in Francia o di Hamas a Gaza, ma anche alla litania che abbiamo sentito in Italia per vent’anni sugli elettori di Berlusconi o della Lega Nord naturalmente «ignoranti». Le statistiche effettivamente possono mostrare, in certi contesti, una correlazione tra elevato livello di studi e posizionamento politico a sinistra e questo dato ha potuto rinforzare l’idea paternalista secondo cui gli «incidenti di percorso» della democrazia dipendono da un difetto d’istruzione dei cittadini chiamati a esprimere le loro preferenze. Pare più difficile accettare che queste divergenze politiche radicali siano piuttosto l’espressione di divergenze d’interesse altrettanto radicali, e si preferisce dunque «medicalizzare» il conflitto.
Pur di ampliare il campo delle patologie culturali da debellare si è creata nel dopoguerra la categoria di «analfabetismo funzionale». Ricorrendo a elaborati test e indicatori, l’OCSE poteva affermare nel 2014 che «in totale il 70% della popolazione italiana si colloca al di sotto del Livello 3, il livello di competenze considerate necessarie per interagire in modo efficace nella società del XXI secolo»[6]. Il confine tra filantropia e disprezzo risulta spesso molto sottile e talvolta sembra addirittura scomparire, come nel caso di un maldestro striscione del 2011 (segnalato da Antonio Vigilante) che proclamava: «Senza cultura siamo solo spazzatura»; uomini indegni, cittadini per metà.
La soluzione a tutti questi problemi sarebbe quindi semplicissima: bisogna investire nella formazione. Ma se non basta la scuola dell’obbligo, quanti anni di studio sono necessari per educare gli italiani a «interagire» e votare correttamente? Bisognerà istituire il dottorato obbligatorio e generalizzato per assicurare la vittoria delle forze democratiche? Questa ipotesi caricaturale non è troppo distante da certe incarnazioni contemporanee dell’idea di «diritto allo studio» inteso come assegno in bianco per un investimento di risorse pubbliche e private senza limite. A dire il vero, è il concetto stesso di diritto allo studio a essere indeterminato. Raramente viene indicata la misura della dose d’istruzione alla quale ogni individuo avrebbe «diritto», anche se nei testi ufficiali vengono talvolta fornite delle indicazioni di minima per quanto riguarda la sua applicazione. In cosa consiste precisamente questa educazione?
Si parla di conoscere l’alfabeto o di leggere romanzi o di leggere buoni romanzi (no Fabio Volo) o di navigare su Internet o di conoscere la storia delle idee politiche oppure di che altro? Il diritto all’istruzione è vago e quindi estensibile secondo i punti di vista: può giustificare tanto la promozione di programmi di alfabetizzazione in Sudan quanto la difesa tenace di cicli di studi universitari lunghi tre, cinque o otto anni in Italia — al termine dei quali, peraltro, non si è nemmeno certi che lo studente abbia acquisito le competenze basilari di comprensione del testo[7]. Nella grande confusione ideologica che regna, possiamo quindi vedere le piazze occidentali riempirsi prima di ventenni che reclamano finanziamenti pubblici per sofisticatissime formazioni, e poi, qualche anno dopo, di trentenni che rivendicano il diritto a un inserimento professionale all’altezza della loro educazione. Perché «Choosy ci sarai tu», io ho un master in Cooperazione allo sviluppo e non vado certo a fare la commessa al Lidl.
La Dichiarazione dei diritti umani del 1948, che ha forza di soft law per gli stati aderenti alle Nazioni Unite, prescrive come minimo la gratuità delle classi elementari, l’obbligo dell’istruzione elementare e la libertà di accesso sulla base del merito all’istruzione superiore. Ma gran parte degli stati occidentali si sono spinti ben oltre, estendendo l’obbligo fino alla scuola secondaria (15-16 anni), la gratuità fino all’università (Francia, Nord-Europa) e spianando per quanto possibile le barriere all’accesso, in nome — ma solo in nome, come vedremo — della lotta alla discriminazione di censo. L’aumento della durata degli studi e della spesa per l’educazione viene generalmente interpretata come un «progresso»: ma ancora una volta non è chiaro a che punto si possa considerare sufficiente l’istruzione del cittadino. Sappiamo solo che è giusto indignarsi perché (come tutti sanno) l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. Ma che l’aumento della spesa sia auspicabile è tutto da dimostrare.
Già nel 1971 Ivan Illich denunciava il costo considerevole dell’intero sistema, a fronte di risultati sociali sempre meno incoraggianti. La sua analisi, che all’epoca poteva sembrare «utopistica» e magari un po’ hippie, appare oggi al contrario anti-utopistica e terribilmente realista. Il sistema educativo rappresenta un costo privato innanzitutto, per coloro che inseguono la promessa di un’improbabile ascesa sociale. E rappresenta inoltre un costo pubblico, poiché si chiede allo Stato di finanziare una crescente domanda di educazione drogata dalla competizione per l’accesso al mondo del lavoro: una «gara al rialzo» senza nessun rapporto con le competenze necessarie per partecipare alla vita economica della collettività. Questi costi sono diventati semplicemente irrazionali. Ma i sostenitori del diritto allo studio rispondono: lo studio non è un costo ma un investimento. Il progresso sul piano dell’educazione accompagnerebbe e guiderebbe il progresso economico. E il progresso economico, come noto a tutti da quanto John Maynard Keynes ha inventato la pietra filosofale, di limiti non ne ha. Il progresso insomma non sarebbe più soltanto un movimento verso un ordinamento giuridico conforme ai principi rivelati del diritto naturale, bensì un’evoluzione inarrestabile verso un benessere sempre crescente.
Nella presentazione del programma «Istruzione per il secolo XXI» sul sito Internet dell’UNESCO si afferma che il diritto allo studio deriva «dalla convinzione che l’istruzione svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo umano, sociale ed economico». Questo «ruolo fondamentale» allude a una possibilità affascinante: ovvero che sia possibile alimentare lo sviluppo con l’istruzione, e da lì finanziare l’istruzione con lo sviluppo, in un miracoloso circolo virtuoso keynesiano. Stimolando i consumi e incrementando la produttività del lavoro, effettivamente i diplomi possono generare posti di lavoro. Per questo motivo sarebbe utile continuare a estendere l’istruzione nel tempo e nello spazio, facendo studiare tutti e più a lungo, alimentando con sempre maggiori risorse la scuola e l’università.
Secondo una teoria molto fortunata, ci sarebbe un necessario rapporto di causa a effetto (o addirittura di proporzionalità) tra il livello d’istruzione e la crescita economica di un paese. Molto sostengono addirittura che il rapporto sarebbe «dimostrato» ma si tratta più che altro di un luogo comune. Questa teoria è fondata su una correlazione che può effettivamente essere ravvisata in certi contesti, ma su di essa gravano anche numerosi controesempi e tare metodologiche. Primo, se le due curve crescono in parallelo, di tutta evidenza il rapporto causale può anche essere rovesciato: la società risulta sempre più educata innanzitutto perché può permettersi di spendere risorse nell’istruzione, e come abbiamo visto ha forti ragioni ideologiche per farlo. L’istruzione è un effetto prima di essere una causa della crescita. Inoltre, se l’educazione può garantire un più alto livello di produttività del lavoro e una maggiore capacità di assorbire tecnologie avanzate dai paesi sviluppati, ciò dipende dalla specifica conformità tra formazione e domanda del mercato e non da una quantità generica di anni di studio o di «cultura», come può invece risultare da dati statistici eccessivamente vaghi messi al servizio di una specie di pensiero magico. Insomma non basta investire nella formazione, ma bisogna anche chiedersi in quale formazione.
Infine, poiché la famosa correlazione nei paesi occidentali risulta sempre più fiacca e meno evidente, è assurdo ignorare la possibilità molto concreta che esista una soglia di saturazione,raggiunta la quale la causa cessa di agire o agisce più debolmente. Un rendimento marginale decrescente dell’istruzione, per così dire, peraltro conforme alla legge più generale sul rendimento decrescente dei fattori di produzione. In generale la teoria del rapporto necessario e meccanico tra educazione e crescita è stata sottoposta a varie critiche a partire dagli anni Sessanta e definitivamente confutata dall’economista inglese Alison Wolf nel fondamentale Does education matters? Myths About Education and Economic Growth al quale rimandiamo per un’analisi più rigorosa e completa[8].
Tralasciando ogni precauzione di sorta, il Centro Studi di Confindustria ha presentato nel 2014 uno studio[9] le cui conclusioni, riassunte sul Sole 24 ore del 29 marzo 2014, appaiono semplicemente fantascientifiche:
Un aumento del Pil fino al 15% in più in termini reali in 10 anni. Tradotto in cifre 234 miliardi, con un guadagno di 3.900 euro per abitante. Uno scenario che potrebbe diventare realtà se il grado di istruzione italiano salisse al livello dei paesi più avanzati.
Nello stesso modo, un economista boemo nell’Ottocento avrebbe potuto formulare una legge universale, anzi un rigoroso modello matematico, che collega la produzione di manufatti di cristallo alla ricchezza di una nazione: salvo essere confutato due secoli dopo da una crisi del mercato del vetro. Dio non voglia che in Boemia esista un setta di «cristalliani» fedeli all’insegnamento di quell’economista, i quali come dei disperati continuino a fabbricare vasi brocche e bicchieri nel cieco convincimento che a furia di produrre merci invendibili si riesca alla fine a riavviare il meccanismo!
Con lo stesso metodo astratto da tacchini induttivisti, gli economisti americani avevano negli anni Duemila creato l’illusione di un mercato immobiliare che avrebbe continuato a crescere; e si sono poi ritrovati nel 2008 ad assistere allo scoppio della più gigantesca bolla speculativa della storia umana. Oggi, mentre altri tacchini continuano a proclamare che «la cultura non è un lusso»  sono sempre più numerosi gli analisti che parlano di una «bolla educativa» pronta a scoppiare e a trascinare nella povertà la parte più fragile della classe media. Ma quali sono precisamente gli effetti perversi che produce questo sistema sul piano economico e sociale?

[1] Ivan Illich, Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 1983.
[2] «Rapport et projet de décret relatifs à l’organisation générale de l’instruction publique Présentation à l’Assemblée législative : 20 et 21 avril 1792», su http://www.assemblee-nationale.fr/histoire/7ed.asp. Si veda anche B. Jolibert «Condorcet (1743-1794)», in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée», Paris, UNESCO : Bureau international d’éducation, vol. XXIII, n° 1-2, 1993, p. 201-213.
[3] P. K. Feyerabend, «Concerning an appeal for philosophy» in «Common Knowledge» 3, 1994, pp. 10–13.
[4] I. Wallerstein, La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo, Roma, Fazi, 2007
[5] S. Zizek, Contro i diritti umani, Milano, Il Saggiatore, 2005.
[6] «PIAAC-OCSE : rapporto nazionale sulle competenze degli adulti», Roma, ISFOL 2014, online su http://sbnlo2.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=19827
[7] Sullo stato dell’università e della cultura italiana si veda C. Giunta, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Il Mulino, Bologna 2008.
[8] A. Wolf, Does education matters? Myths About Education and Economic Growth, Penguin, Londra 2002.
[9] «People first. Il capitale sociale e umano: la forza del Paese», a cura di Luca Paolazzi, Centro studi Confindustria 2014, disponibile online.

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Pezzo pubblicato su  http://www.minimaetmoralia.it/  venerdì, 18 luglio 2014

LA LIBERTA' DI CIASCUNO DI NOI E' IN PERICOLO!



     L'attuale Parlamento, frutto di una legge elettorale incostituzionale, sta distruggendo, frettolosamente e rozzamente, i principi della democrazia borghese del XIX secolo e quella popolare del XX.
      Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano in un articolo de Il manifesto:

La Costituzione non  è lo statuto di una maggioranza

di Massimo Villone    





 Una valanga di 7000 emen­da­menti può sem­brare un osta­colo insor­mon­ta­bile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Rego­la­mento e prassi cono­scono raf­fi­nate tec­ni­che anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostru­zio­ni­smo di mino­ranza che bloc­chi l’assemblea non è pos­si­bile. Siamo di fronte a qual­che giorno di lavoro par­la­men­tare, niente che non si possa gestire accor­ciando (di poco) le vacanze. A meno che la mag­gio­ranza rifor­ma­trice non si dis­solva. Per que­sto è deci­siva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due sti­pu­lanti a spada tratta, accada quel che accada.

In qual­che misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rap­pre­sen­ta­zione tea­trale la sopo­ri­fera assem­blea di Renzi con i par­la­men­tari Pd, e rima­nendo alta la feb­bre in Fi. C’è da spe­rare che la migliore poli­tica ritrovi fiato e ini­zia­tiva. Per­ché il testo appro­vato in com­mis­sione pre­fi­gura un’architettura isti­tu­zio­nale distorta e priva di equi­li­brio. Si è par­lato di blando auto­ri­ta­ri­smo, si è richia­mato il pro­getto Gelli-P2. Di certo, si può temere una ridu­zione degli spazi di democrazia.

Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azze­ra­mento della rap­pre­sen­ta­ti­vità e del peso politico-istituzionale del senato con il carat­tere non elet­tivo e il taglio dei poteri; ridu­zione della camera a obbe­diente brac­cio armato del governo attra­verso una legge elet­to­rale che riduce la rap­pre­sen­ta­ti­vità, taglia le voci in dis­senso, crea una arti­fi­ciale mag­gio­ranza nume­rica, garan­ti­sce la fedeltà al capo attra­verso le liste bloc­cate; potere di ghi­gliot­tina per­ma­nente del governo, che può stroz­zare a suo pia­ci­mento il dibat­tito impo­nendo il voto a data certa su un testo pro­po­sto o comun­que accet­tato dal governo; innal­za­mento del numero di firme richie­sto per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare a 250.000 (ora 50.000); innal­za­mento delle firme richie­ste per il refe­ren­dum abro­ga­tivo a 800.000 (ora 500.000).

Un colpo grave ed evi­dente alla rap­pre­sen­tanza poli­tica da un lato, alla par­te­ci­pa­zione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le dispo­si­zioni che rin­viano ai rego­la­menti par­la­men­tari la garan­zia dell’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare, o ridu­cono in qual­che misura il requi­sito del quo­rum strut­tu­rale per il refe­ren­dum. Assai più con­tano altri effetti, magari indotti e non imme­dia­ta­mente visi­bili, delle modi­fi­che pro­po­ste. Ad esem­pio, il Capo dello Stato viene eletto da depu­tati e sena­tori. Ma la ridu­zione dra­stica del numero dei sena­tori, rima­nendo immu­tato quello dei depu­tati, lascia in sostanza la ele­zione del capo dello stato nelle mani della sola camera, con­se­gnata alla mag­gio­ranza di governo dalla legge elet­to­rale, con l’aggiunta di una man­ciata di sin­daci e con­si­glieri regio­nali amici. Basterà aspet­tare il nono scru­ti­nio per avere un capo dello stato di mag­gio­ranza, rima­nendo mero fla­tus vocis che sia rap­pre­sen­tante dell’unità nazio­nale, e garante della costi­tu­zione. E non dimen­ti­chiamo che il capo dello stato pre­siede il Csm, organo di auto­go­verno della magi­stra­tura. E che per gli stessi com­po­nenti elet­tivi del Csm vale il discorso appena fatto. Men­tre i tre mem­bri della Corte Costi­tu­zio­nale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della mag­gio­ranza garan­tita dal pre­mio, con qual­che soste­gno sot­to­banco che non si nega a nes­suno. Per non dire della revi­sione della Costi­tu­zione ancora rimessa alla mag­gio­ranza di governo della camera, e agli equi­li­bri poli­tici del tutto occa­sio­nali e impre­ve­di­bili del senato. In quali mani fini­ranno diritti e libertà? La Costi­tu­zione come sta­tuto di una maggioranza?

Una strut­tura priva di equi­li­brio. Dove sono i checks and balan­ces? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esem­pio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale di leggi non limi­tata alla legge elet­to­rale, da parte di una mino­ranza par­la­men­tare (come in Fran­cia); o il ricorso diretto del cit­ta­dino alla stessa Corte in mate­ria di diritti e libertà (Ger­ma­nia e altri paesi); o il refe­ren­dum popo­lare appro­va­tivo auto­ma­tico in caso che l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare venga disat­tesa dal legi­sla­tore (Sviz­zera); o l’anticipo del giu­di­zio di ammis­si­bi­lità della Corte sul refe­ren­dum in base all’avvenuta rac­colta di un numero infe­riore di firme rispetto al totale di quelle richie­ste (ad esem­pio, cen­to­mila), in modo da con­sen­tire ai pro­mo­tori di rac­co­gliere le restanti firme a que­siti ammessi.

Né va dimen­ti­cato il con­te­sto più gene­rale, e l’indebolimento di par­titi poli­tici, sin­da­cati, asso­cia­zioni. Si pensi alla can­cel­la­zione del finan­zia­mento pub­blico, alla dia­triba sui con­tratti nazio­nali di lavoro, al rifiuto di con­cer­ta­zione. La stessa ascesa di Renzi è stata la nega­zione della fun­zione tipica e pro­pria di un par­tito poli­tico. In sostanza, nelle pri­ma­rie Renzi ha usato il voto dei non iscritti con­tro il voto degli iscritti, per con­qui­stare il par­tito degli iscritti.

Un tempo, se qual­cuno voleva met­ter mano alla costi­tu­zione si par­lava di inge­gne­ria isti­tu­zio­nale. Ma almeno si pre­sup­po­neva una lau­rea. Capiamo bene che oggi è chie­dere troppo. Ma almeno dateci un geo­me­tra o un capomastro. 


Da   Il manifesto, 17 luglio 2014

HOMERO ARIDJIS: LA FORMA DEL MIO SOGNO





Ha la forma del mio sogno
gli occhi della mia infanzia
ama cio che amo
cio che non ritorna
cio che ancora non arriva
si alza dalle mie palpebre e da li fa volare i suoi sogni Va e rimane lei e sempre e ovunque e saluta l’universo Riempie ogni giorno del mondo e non nasce perché non ha fine La incontro nel silenzio nel perdono ma lei e sparsa in ogni respiro Se un giorno riusciro a penetrare la sua anima vendemmiero il suo corpo uomo prato e nebbia

HOMERO ARIDJIS

L' ATTESA AMOROSA



 Nelle settimane scorse è uscito presso Carocci il saggio di Elisabetta Abignente Quando il tempo si fa lento. L’attesa amorosa nel romanzo del Novecento: M. Proust, Th. Mann, G. García Márquez. 
Prendiamo dal sito  http://www.leparoleelecose.it/ alcune pagine tratte dal primo capitolo.


QUANDO IL TEMPO SI FA LENTO

di Elisabetta Abignente
 


È giunto il momento di definire il preciso oggetto di questo studio: l’attesa amorosa, ovvero l’attesa della persona amata. Ad accompagnarci lungo questo percorso sarà un testo che, prendendo in prestito un’espressione del suo stesso autore, potrei definire come “texte-tuteur”[1]. Si tratta dei celebri Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, alla cui lettura è fortemente legata la genesi di questo lavoro. Non c’è forse definizione migliore di quella offerta da Barthes nel suo “dizionario” per indicare cosa si intende qui con l’espressione “attesa amorosa”: «attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)»[2].
La riflessione che Barthes dedica, a più riprese, alla “figura amorosa” dell’attesa comincia ben prima della stesura dei Frammenti, che non rappresentano se non l’ultima, definitiva versione, destinata a un incredibile successo di pubblico, di un percorso iniziato dal Barthes professore alcuni anni prima della loro pubblicazione nel 1977. Il discorso amoroso era stato infatti l’argomento di due anni di seminari tenuti all’École pratique des hautes études nel biennio 1974-76. La pubblicazione, piuttosto recente, del vastissimo materiale di preparazione ai due corsi[3] – appunti, schemi, riflessioni teoriche e un nutrito gruppo di figure inedite – offre la possibilità di penetrare con profondità nel laboratorio dei Frammenti per ricostruirne l’interessante genesi, e rivela come, ben più di quanto emerga dal testo finale, inclassificabile eppure in fondo piuttosto vicino, nella lettura, a un vero e proprio romanzo, dietro la versione del ’77 si celi una lunga e profonda riflessione teorica.
È significativo notare come, nel tentativo di tracciare un repertorio di “figure” tipiche del discorso dell’innamorato, Barthes vi includa da subito quella dell’attesa[4], che riconosce come uno dei momenti topici e fondanti della dinamica amorosa. Barthes torna sulla stessa figura un anno dopo, per il secondo corso sul discorso amoroso[5], dove arricchisce la voce con una grande quantità di spunti raccolti in un anno di lavoro e tratti, in parte, anche dai suggerimenti degli allievi dei suoi seminari, per giungere infine alla versione definitiva, più asciutta e meno argomentativa, che la figura assume nei Frammenti[6]. È soprattutto nella seconda versione della figura dell’attesa, la più ampia e sviluppata, come si trattasse del secondo tempo di una sonata, che si addensano gli spunti più interessanti per un’attenta riflessione sull’attesa amorosa. A partire dalla lettura di questa seconda versione è possibile individuare alcuni tratti caratteristici e peculiari che distinguono l’attesa d’amore dalle altre tipologie precedentemente elencate.
Ecco dunque un “identikit” dell’attesa amorosa, articolato in otto punti.
1.2.1. Aspetto dunque amo
L’attesa d’amore non rappresenta semplicemente una delle fasi della dinamica amorosa tra l’io e il tu: essa tocca l’essenza stessa dell’amore e del discorso amoroso. L’innamorato riconosce infatti sé stesso come colui che attende: «Sono innamorato? – Sì, poiché sto aspettando»[7]è il discorso che egli pronuncia a sé stesso. L’attesa, dunque, all’interno della dinamica amorosa, non va intesa come un incidente, un equivoco, una fastidiosa perdita di tempo ma, al contrario, come la dimensione fondativa e identitaria del sentimento amoroso, che si configura sin dal suo sorgere come attesa dell’altro e aspettativa nei suoi confronti:
Se fosse possibile dare un’unica definizione del soggetto innamorato, diremmo che il soggetto innamorato è colui che attende, in tutti i modi possibili. Dall’attesa fondamentale e quasi permanente dell’appagamento, della presenza, fino alle attese più contingenti, non meno angoscianti: l’attesa di un appuntamento, di una lettera, di una telefonata[8].
Questa considerazione invita immediatamente a riflettere sul rapporto dell’attesa d’amore con il suo oggetto. Se l’amore si configura, prima di tutto, per il suo essere attesa dell’altro, l’attesa d’amore dovrebbe porsi senza dubbio nell’ambito delle attese strettamente dipendenti dal proprio oggetto. Eppure, proprio il carattere identitario che lega l’innamorato al suo statuto di soggetto che aspetta può finire paradossalmente per affrancare l’attesa d’amore dal proprio oggetto. In alcuni casi aspettare diventa una dimensione in cui il soggetto si riconosce e si identifica a tal punto da far passare del tutto in secondo piano l’obiettivo per cui quell’attesa era cominciata. In altre parole, per l’innamorato che attende, il senso dell’attesa può non risiedere nel raggiungimento dell’obiettivo ma realizzarsi ed esaurirsi nel suo stesso svolgersi – come direbbe Barthes, nel suo stesso “copione”. Un caso limite è offerto, in questo senso, dell’aneddoto cinese che Barthes riporta nei Frammenti[9]:
Un mandarino era innamorato di una cortigiana. «Sarò vostra – disse lei – solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra». Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n’andò.
1.2.2. Non ti muovere
L’innamorato che aspetta è immobile. Ne bouge pas! è il suo imperativo. Aspettare significa infatti rimanere in un luogo nell’attesa dell’arrivo, del ritorno o di un segnale da parte dell’altro. La persona attesa si muove, è un être de fuite, l’inafferrabilità è la sua cifra caratteristica. Chi aspetta, al contrario, non può muoversi perché rischierebbe di mancare proprio il momento, a volte del tutto imprevisto, in cui la sua attesa sarebbe potuta giungere a compimento.
L’attesa finisce dunque per assomigliare a «un’immobilizzazione ipnotica, un incantesimo»[10], dove la parola enchantement dell’originale, andrebbe intesa nella doppia accezione di sortilegio che ha il potere di pietrificare chi ne è vittima ma anche di stato di ipnosi che coglie chi è incantato da qualcosa o qualcuno e durante il quale si è costretti a restare immobili senza conoscerne il motivo: sarebbe allora più indicato ricorrere, in questo senso, al termine italiano “incantamento”[11].
L’immobilismo, che avevamo già individuato come uno dei tratti caratteristici dell’attesa di Penelope e che potrebbe in un certo senso trovare un altro suo archetipo nella Niobe della mitologia greca, pietrificata sul monte Sipilo nell’attesa vana del ritorno dei suoi sette figli uccisi da Leto[12], incontra una delle sue immagini letterarie più efficaci nella metafora del leone in gabbia, su cui avrò modo di tornare in seguito occupandomi dello spazio, in particolar modo proustiano, dell’attesa. Per avere conferma di quanto esso rappresenti uno degli aspetti costitutivi di ogni attesa d’amore basta volgere lo sguardo, però – suggerisce Barthes –, a uno dei topoi più moderni dell’attesa, che chiunque sia stato innamorato può riconoscere nella propria concreta esperienza biografica. Si tratta dell’immobilismo legato a quella che si potrebbe definire come la più novecentesca delle attese: l’attesa al telefono (precedente, certo, all’avvento della telefonia cellulare):
Il soggetto che attende: «non oso uscire, non oso muovermi per paura di…». Attesa al telefono (strumento che implica, in modo particolare, un’irruzione puntuale e tiene il soggetto alla mercé di una suoneria che può sopraggiungere in qualsiasi momento), che produce una serie ossessiva di divieti (di muoversi). Ossessiva perché può dettagliarsi all’infinito, fino all’inconfessabile: non uscire, non andare in bagno, non telefonare (per tenere la linea libera), soffrire se qualcuno telefona (perché tiene occupata la linea). [...] L’Angoscia dell’Attesa, nella sua purezza, è stare seduti in poltrona, con il telefono a portata di mano, senza fare nulla[13].
L’insistenza sull’immobilismo come uno dei tratti decisivi dell’attesa si rivela certo un utile criterio per distinguere l’attesa da altre dinamiche della relazione amorosa che potrebbero essere a prima vista confuse con questa: penso ad esempio ai riti di corteggiamento o alla conquista, che però presuppongono, come è chiaro, che l’innamorato prenda l’iniziativa, si sposti e “rincorra” l’essere amato in fuga. Porre l’accento sull’immobilismo dell’attesa non deve però far correre il rischio di assimilare l’attesa d’amore a uno stato di passività. Seppur costretto all’immobilità, il soggetto che aspetta non interrompe mai la propria attività: il suo stato di continua attenzione, la sua capacità di percezione non conoscono tregua. L’attesa è dunque un’immobilità inquieta. L’innamorato che aspetta è un leone in gabbia, è vero, ma è anche un gufo che, immobile sul ramo, non smette mai di spiare nelle tenebre[14].
1.2.3. il potere di chi è atteso
Far attendere è una forma di potere che colui che è atteso esercita, più o meno consapevolmente, su chi attende. Aspettare, al contrario, è segno di dipendenza e di assoggettamento rispetto alle condizioni dettate dall’altro. Nella dinamica dell’attesa amorosa il potere è, infatti, nelle mani di chi fugge: è lui che detta i tempi, mentre chi aspetta ne è schiavo. Uno dei momenti più drammatici dell’attesa è quello in cui ci si accorge di non poter più fare a meno dell’altro. Alla nostalgia per la distanza o per l’assenza si aggiunge in questi casi la dolorosa sensazione, simile a una ferita, di aver perso la propria libertà: «L’attesa – scrive Barthes – comporta una ferita (una prova) supplementare in quanto manifesta al soggetto innamorato la sua dipendenza nei riguardi dell’oggetto amato»[15].
A partire dal momento in cui si accorge di essere caduto nella trappola della dipendenza – «sono perso! Può fare di me ciò che le pare»[16]–, il soggetto innamorato inizia però talvolta, paradossalmente, a usare tutti i mezzi che ha a disposizione per «preservare lo stesso spazio della dipendenza»[17]. Sentirsi dipendenti significa infatti non recidere il filo che ci lega indissolubilmente alla persona amata. La promessa di fedeltà, che impareremo a riconoscere come uno dei riti caratteristici delle attese romanzesche di cui ci occupiamo, è proprio una delle strategie messe più o meno consapevolmente in atto dal soggetto per mantenere in vita il proprio stato di dipendenza. Non è un caso allora che, per descrivere il fortissimo senso di privazione da cui il soggetto innamorato è colpito nell’attesa, Barthes non esiti a parlare di «sévrage»[18], termine che indica, nella lingua francese, tanto lo svezzamento dal seno materno, il primo vero distacco dalla madre, quanto il percorso di disintossicazione a cui viene sottoposto chi è affetto da tossicodipendenza.
Per la speciale dinamica che vi entra in gioco, l’attesa può essere sfruttata però, in altri casi, anche come un momento di riequilibrio tra le parti: lì dove il potere era concentrato esclusivamente nelle mani di uno dei due membri della coppia, la fuga diventa lo strumento attraverso cui ridisegnare i ruoli. È il caso emblematico, come vedremo, del rapporto del Narratore proustiano con Albertine: se nella Prigioniera il potere era concentrato esclusivamente nelle mani del Narratore geloso, la fuga offre ad Albertine la possibilità di riequilibrare le parti. Fuggendo, è lei a poter dettare i tempi e, da prigioniera quale era, rendere schiavo il Narratore.
Per la sua capacità di mettere in luce la dinamica potere-dipendenza, l’attesa amorosa riflette e amplifica, portandolo alle estreme conseguenze, un carattere che è intrinseco, a ben guardare, in ogni attesa. Nella società e nella storia, l’attesa è infatti il destino degli umili e degli ultimi. Riesce a non sottostare alle attese, grandi e piccole, estemporanee o pluriennali che siano, solo colui che è in grado di affrancarsene, ovvero chi ha il potere per farlo. Il sociologo Giovanni Gasparini descrive in termini molto chiari ed esatti il modo in cui l’attesa si fa specchio, nella società e nella storia, di una forte dinamica di squilibrio tra le parti:
L’attesa si può interpretare come un fenomeno di scambio e di potere tra attori, nel senso che chi detiene più potere riesce a non attendere ma a far attendere. [...] L’osservazione corrente e il sentimento comune indicano che sono soprattutto i de-privilegiati e i senza potere quelli che attendono, e che «il segreto della non-attesa è il talento di saper far attendere gli altri»[19].
Vi è una grande varietà di situazioni di attesa, tratte dalle pagine della letteratura ma anche dalle esperienze quotidiane degli individui nella società, in cui lo squilibrio legato a questa dinamica di potere e dipendenza emerge con particolare evidenza. In un numero tematico dedicato all’attente, la rivista francese di sociologia e letteratura “Autrement” individua alcune situazioni esemplari in cui chi aspetta si ritrova a sottostare, in uno stato di profonda impotenza, a condizioni che non è assolutamente in potere di modificare a suo favore:
Se l’attesa ci appare ingloriosa, e quasi anacronistica, è perché essa è la sorte dei più umili, di coloro che, a un certo punto, sono spossessati del minimo potere di agire, di fare avvenire un determinato avvenimento attraverso il loro operare. Non è il pilota che attende l’arrivo dell’aereo ma il passeggero; non è il chirurgo che attende ma la famiglia. E, dopo il suo risveglio, l’operato. Non è il giudice, è l’accusato che attende il verdetto; il carcerato, non la guardia, che attende la liberazione. Lo studente, il “paziente”, il disoccupato, l’innamorata, la madre, il popolo… È Penelope che attende Ulisse. Ad ogni attesa, il bambino che è in noi si risveglia. Dipendenza, impotenza, sconforto. Aspettare [...] è lasciare agli altri, e a volte solo al tempo, il potere[20].
Oltre a generare un inevitabile senso di impotenza, dovuto essenzialmente all’impossibilità per il soggetto di accorciare il tempo che lo separa dalla realizzazione di ciò che aspetta – in questo senso il vero nemico, come suggeriva la citazione, non è tanto l’altro quanto il tempo stesso –, la sensazione di dipendenza provata da chi attende può provocare, però, anche un effetto di vero e proprio panico, come se in gioco fosse, ben più che l’appagamento di un bisogno accessorio, la possibilità stessa di sopravvivere. La metafora animale più adatta, allora, a indicare questo stato è senza dubbio quella del “pesce fuor d’acqua”[21].
1.2.4. Immaginazione e irrealtà
Ogni attesa d’amore si connota per una spiccata propensione allo sviluppo dell’immaginazione, della rêverie, della fantasticheria. L’innamorato che attende non conosce strumenti più efficaci dell’immaginazione per sanare, se pur in modo ingannevole ed effimero, l’assenza della persona amata. Durante l’attesa, l’innamorato “manipola” l’oggetto del suo amore, dandogli un volto, un carattere, delle intenzioni, delle parole, che difficilmente corrispondono a un’effettiva realtà. Lo stesso oggetto dell’attesa, baricentro fondamentale della dinamica amorosa, può rivelarsi, in realtà, nient’altro che un oggetto immaginato: chi è mai Albertine per il Narratore se non il prodotto della propria immaginazione? Non è un’Albertine irreale, evanescente, quella che il Narratore effettivamente aspetta? La persona attesa sembra non essere dotata di una propria oggettività: la sua immagine è legata, per sua stessa natura, alla soggettività di chi la pensa.
Talvolta l’immaginazione di chi aspetta non soltanto modifica nella memoria i tratti della persona attesa, ma può addirittura far diventare oggetto della propria attesa una persona che ne è del tutto inconsapevole, come accade nel caso del romanzo di García Márquez di cui ci si occuperà più avanti. In altri casi, invece, il potere dell’immaginazione legato a una situazione di attesa può essere tale da determinare da solo il sorgere di un amore: non ci si innamora forse prima di tutto dei propri pensieri, delle proprie fantasticherie, dell’immagine mentale che si è costruita dell’altro pensando a lui in sua assenza? Il momento dell’attesa, che si presta in modo particolare allo sviluppo senza freni dell’immaginazione, diventa allora il punto di svolta per il sorgere di un amore – non c’è amore senza almeno un episodio di attesa – ma anche per il suo risorgere, grazie allo stacco che il tempo anomalo dell’attesa riesce a creare nella routine di un tempo altrimenti sempre uguale. Come suggerisce Gaston Bachelard nella Dialettica della durata, l’attesa, stimolando l’immaginazione e ponendo l’amore in relazione con la dimensione del tempo, può restituire il fascino della novità anche al più fedele degli amori.
È sufficiente amare abbastanza, temere tutto, attendere nella più folle delle inquietudini, affinché ciò che tarda appaia d’improvviso più bello, più certo, più attraente. L’attesa, scavando il tempo, rende l’amore più profondo. Essa colloca l’amore più costante nella dialettica degli istanti e degli intervalli. Rende a un amore fedele il fascino della novità. Allora gli eventi ansiosamente attesi si fissano nella memoria; assumono un senso nella nostra vita[22].
Se è vero che ogni esperienza di amore si colloca sulla linea di confine tra le tre sfere del simbolico, dell’immaginario e del reale[23], nell’attesa il piano dell’immaginazione può però rischiare di prendere il sopravvento su quello della realtà. Colui che aspetta è affetto da una forte mancanza di senso delle proporzioni: un’attesa anche breve e banale può essere sentita come un problema esistenziale, un arco di tempo limitato essere vissuto come se si trattasse di un’eternità. Un eccessivo abbandono all’immaginazione può comportare, in questi casi, un progressivo distacco dalla realtà e finire per assomigliare, in modo sempre più inquietante, a uno stato di allucinazione. L’arrivo o il ritorno della persona amata è creato e ricreato nella mente di chi attende per un numero di volte potenzialmente infinito e con una tale dovizia di particolari da rendere difficile distinguere tra persona reale e fantasma. L’attesa amorosa può muoversi, dunque, in base al grado di immaginazione che vi entra in gioco, tra i due estremi opposti dell’innocua rêverie e dell’allucinazione patologica. In questo secondo caso, suggerisce Barthes riportando ancora una volta l’esempio del telefono, l’attesa diventa un vero e proprio delirio[24].
1.2.5. Ripetizione, riti, tic, manie
Tanto le attese d’amore lunghe – l’attesa del ritorno del soldato dalla guerra, l’attesa del matrimonio o del sospirato ricambio del sentimento amoroso – quanto quelle brevi – la microattesa di una telefonata – vengono riempite dal soggetto dalla ripetizione, talvolta ossessiva, di gesti sempre uguali, che chi è innamorato non si stanca mai di continuare a compiere. A variare tra attese lunghe e microattese è certamente il diverso grado di angoscia: acuta e incontrollabile nel caso delle attese brevi, interiorizzata e più simile alla nostalgia nel caso delle attese lunghe. Non cambia però la struttura interna dell’attesa, che si configura come la ripetizione quasi codificata di gesti e situazioni ben riconoscibili e individuabili: «Esistono delle situazioni ripetute di attesa, dei topoi di attesa», suggerisce Barthes[25].
Attese brevi e attese lunghe condividono dunque una medesima struttura interna, uno stesso meccanismo, indipendentemente dalla loro diversa estensione temporale. Esse si configurano nei termini di una coazione a ripetere da cui il soggetto non ha il potere di liberarsi.
Nel caso delle attese brevi, la ripetizione può assumere tratti quasi nevrotici. I tic correlati alle attese brevi e pure sono tipici e ben noti: fumare, controllare l’orologio, alzarsi e sedersi, camminare avanti e indietro ripetendo infinite volte lo stesso percorso, guardare fuori dalla finestra, fischiettare, dedicarsi a una lettura che richieda un grado di attenzione non elevato ecc. Tutte azioni che vanno ricondotte a un triplice intento: far sì che il tempo passi, che è l’obiettivo principale di chi aspetta; dedicarsi a un’attività pratica, magari anche fisica, che aiuti a impiegare il tempo (passatempo) senza distogliere l’attenzione dall’obiettivo; ostentare indifferenza, per fingere con gli altri e tentare di simulare anche con sé stessi un certo distacco.
Nel caso delle attese lunghe questa coazione a ripetere si traduce in una vocazione alla ritualità, che nella ripresentazione quotidiana o periodica di gesti aiuta a riconoscere ogni giorno sé stessi e a trovare alimento per rinnovare continuamente la propria attesa. I riti e le manie di tali attese consistono dunque nel condurre una vita regolare, ripetitiva, priva di cambiamenti radicali e di spostamenti improvvisi. Nelle attese lunghe, il trascorrere del tempo è scandito dall’avvicendarsi delle pagine del calendario e delle stagioni, dai cambiamenti che si riconoscono nel mondo esterno che va avanti, al contrario del proprio tempo interno che resta immobile. Ogni rito – la ristrutturazione della casa, la fedeltà ai luoghi e alle abitudini –, di cui incontreremo meravigliosi esempi nei testi letterari presi in esame, va ricondotto a un’unica preoccupazione: quella di non prendere impegni a lungo termine, di non spezzare il filo con l’altro e farsi trovare pronti per il suo “arrivo”, che potrebbe realizzarsi, in modo talvolta del tutto imprevedibile, da un momento all’altro.
1.2.6. In attesa di segni: l’innamorato semiologo
Prima ancora che come attesa di un evento o di una persona, l’attesa d’amore si configura come una continua e faticosa attesa di segni da parte dell’altro. Segni della sua presenza, segni di riconoscimento, segni che dimostrino un seppur minimo gesto di risposta. Chi attende sa che per arrivare al proprio obiettivo non potrà contare soltanto su sé stesso: la strategia da mettere in atto è dunque quella di farsi interprete dei segni che l’altro emette e invia[26].
Ma quali sono questi segni? Per l’innamorato che aspetta ogni minimo particolare, ogni traccia della presenza dell’altro, può farsi “segno”: un’espressione sul viso della persona amata, i suoi passi che si avvicinano, oggetti dotati di un particolare valore simbolico. La volontà di decifrarne il significato è così forte per l’innamorato da fargli talvolta addirittura sperare che l’attesa si prolunghi:
Cosa aspettiamo? Dei Segni. Se il segno arriva, da dove viene? Nuova attesa. E se il segno non arriva, lo invento. Cosa indicano i tratti del viso che ci è davanti? I tratti, il tono, i rumori dell’essere amato, non le parole che sono recepite come segni falsi. Il rumore della porta, lo scricchiolio dei passi: quanto è dolorosa la loro attesa ma quanto è cara l’attesa dolorosa! Quest’attesa che rimugina il godimento e a volte trae piacere dal “non subito” è al di là del principio di piacere[27].
Ciò che distingue l’attesa amorosa dalla rêverie o dall’utopia è il bisogno di risposta da parte della persona amata, la necessità di una prova concreta e tangibile della presenza, anche se distante, di chi si ama. L’incertezza della risposta – risponderà? quando? in che modo? – diventa in questo senso il vero motore di ogni attesa amorosa[28].
Se l’innamorato che aspetta è costantemente avido di segni da parte dell’altro, il suo sforzo ermeneutico può arrivare, per un eccesso di zelo vicino alla paranoia, a una vera e propria “vertigine decifratoria”. Semiologo appassionato e maniacale, per lui ogni particolare, apparentemente insignificante, diventa segno e si carica di senso. Può prodursi così un accumulo di segni che annulla ogni possibilità di decifrazione lucida e conduce l’innamorato, lo spiega bene Barthes, in un circolo vizioso senza alcuna via di uscita:
L’innamorato è il semiologo selvaggio allo stato puro! Passa il proprio tempo a leggere segni. Fa solo questo: segni di felicità, segni di infelicità. Sul viso dell’altro, nei suoi comportamenti. È veramente in preda ai segni. [...] L’amore non è cieco. Al contrario, ha una potenza di decifrazione incredibile, che dipende dall’elemento paranoico che è in ogni innamorato. Un innamorato [...] coniuga estremi di nevrosi e di psicosi: è un tormentato e un pazzo. Vede chiaramente, ma il risultato è spesso lo stesso che se fosse cieco. [...] Perché non sa dove né come fermare i segni. Decifra perfettamente, ma non sa fermarsi su una certa decifrazione. Viene ripreso in un circolo perpetuo, che niente viene mai a placare[29].
1.2.7. “Comme si”: attesa e messa in scena
L’innamorato che attende non è esente da una forma di autocompiacimento del proprio stato. Consapevole del proprio ruolo, egli lo impersona con grande maestria, come se si trovasse su un palcoscenico drammatico. Nell’attesa amorosa è immediatamente possibile riconoscere, osserva Barthes, alcuni elementi tipici di una messa in scena teatrale – l’allestimento della scenografia, la recita di un copione, l’intento mimetico:
Vi è una scenografia dell’attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell’oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita[30].
Autore, attore, regista e scenografo del proprio dramma, il soggetto che aspetta organizza lo spazio che ha a disposizione trasformandolo in una vera e propria “scena dell’attesa”. Anche dal punto di vista temporale, l’innamorato organizza la propria attesa in una sequenza precisa di gesti, congetture, stati d’animo che scandiscono la sua durata. L’attesa d’amore si presenta così, per Barthes, come un vero e proprio «copione drammatico, strettamente diacronico» costituito da «un prologo, tre atti e un epilogo»[31].
Nella pièce dell’innamorato che attende, il passaggio da un atto all’altro è determinato dal mutamento di stati d’animo e atteggiamenti: se l’attesa è il momento privilegiato per l’immaginazione e la “manipolazione” dell’altro, il suo andamento diacronico fa sì che il tipo di pensieri e le congetture sull’altro, e di conseguenza i gesti nervosi di chi aspetta, mutino nel corso dell’attesa, come in un crescendo drammatico.
Si procede così dal Prologo, in cui il soggetto, controllando freneticamente l’orologio, prende atto del ritardo dell’amato/a e dà inizio all’angoscia dell’attesa, fino all’Epilogo in cui si sarebbe pronti a ricorrere a un sortilegio o a un voto per far sì che l’altro arrivi: tra i due estremi intercorrono tre atti caratterizzati rispettivamente da congetture e ipotesi di un possibile malinteso (i atto), da collera e rabbia (ii atto), e infine da un’angoscia profonda, consapevole del fatto che in gioco non vi sia più l’attesa ma piuttosto l’assenza e l’abbandono (iii atto). Il copione descritto da Barthes è quello di un’attesa al tavolino del bar: insieme all’attesa della telefonata, «l’attente au café»[32]rappresenta per Barthes un vero e proprio topos dell’attesa. Essa è infatti in grado di condensare, nella sua breve ma articolata durata, un copione che torna, seppur con infinite varianti, in molte altre situazioni, apparentemente assai diverse, di attesa amorosa reale o letteraria.
Ma vi è di più: l’attesa amorosa non è una performance soltanto in quanto messa in scena dell’azione di aspettare ma anche in quanto imitazione, sulla scena, di qualcos’altro. Aspettare significa fare i conti con il distacco e con l’assenza dell’altro, significa avere a che fare con un interlocutore che potrebbe non rispondere mai, significa accettare l’idea della separazione, della solitudine, dell’abbandono. In questo senso l’attesa diventa la messa in scena di una perdita ben più drammatica perché definitiva, diventa prova generale del lutto: «L’attesa – scrive Barthes – è un segmento puro di tempo in cui si mima la perdita dell’oggetto amato, il lutto e l’orrore dello svezzamento»[33]. È per questa sua capacità di rievocare il momento più doloroso e inaccettabile dell’esperienza umana – la perdita di una persona amata – che l’angoscia dell’attesa si fa così acuta e incontrollabile: «Ogni attesa è un piccolo lutto [...]. Questa è la forza, l’energia di angoscia del discorso amoroso»[34].
In molte sue rappresentazioni letterarie l’attesa si rivela anticipazione o persino annuncio del distacco definitivo dalla persona amata. Per limitarsi a un solo esempio emblematico, basti pensare al Narratore della Recherche che nell’attesa di lettere e telegrammi da parte di Albertine già si prepara all’idea di un oblio definitivo e si “allena” a tal scopo. L’attesa di Albertine diventa così anche un percorso di «apprendistato della separazione»[35].
Anche per la protagonista di Erwartung, il dramma musicale di Arnold Schönberg citato dallo stesso Barthes nei Frammenti, l’attesa si fa profezia di morte. Dopo una lunga erranza, la donna, sola sulla scena, trova ai limiti del bosco il corpo senza vita dell’amato. La sua attesa è però così vicina al delirio che, anche dopo la scoperta del corpo, la donna non smette di aspettare e di mettere in scena la propria attesa. Nonostante la morte vi abbia messo fine, ella continua a recitare il tipico copione dell’attesa fatto di un’alternanza di congetture, suppliche e scatti di rabbia nei confronti dell’altro che non arriva[36]. Prova generale dell’assenza definitiva, l’attesa sembra estendere così i propri tratti caratteristici anche alla primissima fase del lutto, quella in cui l’inconscio spera ancora che ci si trovi in uno stato provvisorio e revocabile come quello dell’attesa del ritorno.
1.2.8. Una questione di genere?
La scena dell’attesa amorosa è spesso ricondotta, tanto nell’immaginario collettivo quanto nella storia letteraria, all’idea che protagonista dell’attesa sia una donna. Da Penelope in poi, l’attesa viene sentita e rappresentata, infatti, come un’attività peculiarmente femminile, naturalmente legata alla sfera domestica, in contrasto con la sfera del viaggio, della guerra, dell’avventura, tipicamente maschili. Il topos della donna che aspetta ha attraversato così la letteratura e l’arte figurativa di ogni tempo articolandosi anche in motivi specifici, come quello della donna che attende alla finestra, su cui ci sarà modo di tornare più avanti.
I romanzi che costituiscono il corpus di questo lavoro raccontano al contrario tre storie di attesa amorosa che hanno per protagonista un uomo che attende una donna. Come si spiega questa apparente anomalia condivisa da tre grandi capolavori del Novecento e da diverse altre attese d’amore letterarie dell’ultimo secolo? Si può parlare di un’inversione di tendenza che l’irruzione della modernità ha prodotto rivoluzionando i ruoli tradizionali della relazione amorosa?
Una delle possibili risposte a questa anomalia novecentesca potrebbe essere ricondotta ai decisivi cambiamenti sociali che hanno prodotto, nell’ultimo secolo, l’emancipazione femminile e il ripensamento del ruolo della donna nella società. Se l’attesa amorosa si realizza laddove uno dei due componenti della coppia è per qualche motivo lontano o assente dalla scena dell’attesa, o si sottrae alla relazione, nell’ultimo secolo la donna ha imparato a trasformarsi da “angelo del focolare” a être de fuite, inafferrabile e fiero della propria volontà di movimento. L’immobilismo dell’attesa sarebbe toccato, dunque, all’uomo.
Non è questa la sede per addentrarsi in questioni di genere che necessiterebbero di un approfondito livello di analisi per non cadere nel pericolo di banalizzare questioni complesse. Il genere di chi aspetta non è infatti un aspetto rilevante ai fini della nostra indagine, come non lo è neanche il tipo di amore – eterosessuale o omosessuale – che provano gli innamorati in attesa. Sulla scia di Barthes si è deciso infatti di adottare, in questo lavoro, una prospettiva “neutra”.
Se l’intento della presente indagine è quello di cogliere, al di là delle varianti che necessariamente intervengono nei diversi testi, quella che si potrebbe definire come l’“essenza” dell’attesa amorosa, tentando di delineare un modello della sua rappresentazione in letteratura, si è ritenuto non rilevante operare una distinzione tra le attese amorose vissute da un soggetto maschile o femminile, eterosessuale o omosessuale. Al di là delle differenze che ogni individuo, secondo il proprio genere e le proprie inclinazioni sessuali, può imprimere alla propria attesa, il presupposto che guida questa ricerca è l’esistenza di una struttura profonda e invariabile di ogni attesa amorosa, una struttura che ogni individuo che sia mai stato innamorato possa riconoscere come vera nella propria biografia. L’adozione di un’ottica “neutra” si traduce anche in una scelta di tipo terminologico: così come spiega Barthes in un’intervista pubblicata in appendice all’edizione italiana dei Frammenti, anche nel mio lavoro, come si è già visto, si preferisce parlare di “soggetto che aspetta” e “oggetto atteso”, di “altro” e di “persona amata”, senza ulteriori specificazioni di genere:
Penso che si ritroverà esattamente la stessa tonalità nell’uomo che ama una donna, nella donna che ama un uomo, nell’uomo che ama un uomo e nella donna che ama una donna. E quindi ho avuto cura di sottolineare il meno possibile la differenza dei sessi. [...] L’«oggetto amato» ha il vantaggio di essere un’espressione che non prende posizione sul sesso di chi si ama[37].
Nota
[1]      È il ruolo che, negli appunti preparatori ai Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes riconosce ai Dolori del giovane Werther di Goethe.
[2]      Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 40.
[3]      Barthes, Le discours amoureux, cit.
[4]      La prima figura dell’attesa risale agli appunti scritti da Barthes per la lezione del 23 gennaio 1975: cfr. ivi, pp. 99-101.
[5]      Nella lezione del 26 febbraio 1976: cfr. ivi, pp. 477-82.
30.
[6]      Cfr. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., pp. 40-2.
[7]      Ivi, p. 42.
[8]      Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 100 (qui e infra trad. mia).
[9]      Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 42.
[10]     Ivi, p. 482.
[11] Cfr. “Incantamento”: «Condizione di chi è incantato, attonito, imbambolato (Treccani); «Stato di assenza mentale provocato da una persistente distrazione» (Devoto-Oli). Una conferma verrebbe in tal senso dalle parole dello stesso Barthes che ragionando sulla figura dell’Enchantement, poi non pubblicata nei Frammenti, così precisava: «Prendere qui incantamento nel senso forte di cattura immobilizzante: essere tenuti immobili da qualcosa di invisibile, senza sapere perché (Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 141). Ringrazio Ornella Tajani per il prezioso suggerimento.
[12]     Cfr. J. de Visscher, En attendant Albertine: une petite phénoménologie de l’attente à propos de Proust, in “Cahiers du cirp”, 1, 2006, p. 7.
[13]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 482. Di quest’aspetto mi sono occupata in L’amore appeso a un filo. Il topos dell’attesa al telefono, in “Strumenti critici”, 2, 2013, pp. 233-54.
[14]     La metafora del gufo, di derivazione proustiana, è ripresa da Mario Lavagetto a commento del celebre episodio delle Rose del Bengala (cfr. M. Lavagetto, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, Torino 1991, pp. 57 ss.) proprio per mettere in luce due fondamentali qualità che Proust attribuiva al poeta, all’innamorato e alla spia: l’immobilismo e il vedere senza essere visti.
[15]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 478.
[16]     La frase, tratta dal Werther di Goethe, è posta da Barthes come enseigne della figura “Dépendance” (ivi, p. 132).
[17]     Ibid.
[18]     Ivi, p. 477.
[19]     Gasparini, Sociologia degli interstizi, cit., p. 55.
[20]     A. Chalanset, C. Danziger, Editorial, in “Autrement”, L’attente. Et si demain…, série Mutations, 141, janvier 1994, p. 14 (trad. mia). Tra le attese individuate nell’editoriale della rivista ve n’è una che anche Roland Barthes aveva riconosciuto come fortemente simbolica dello stato di impotenza, dipendenza e “cosificazione” che affligge chi aspetta: l’attesa in aeroporto (cfr. Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 478).
[21]     Cfr. ivi, p. 100.
[22]     Cfr. G. Bachelard, La dialettica della durata, Bompiani, Milano 2010, p. 155 (ed. or. 1989).
[23]     Cfr. J. Kristeva, Storie d’amore, Donzelli, Roma 2013 (ed. or. 1983).
[24]     Cfr. Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 481.
[25]     Cfr. ivi, p. 479.
[26]     Se, come insegna Deleuze, «ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni o di geroglifici», l’attesa si rivelerebbe in questo senso come una tappa fondamentale lungo il percorso di apprentissage dell’amore; cfr. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001, p. 6 (ed. or. 1964).
[27]     L’attente, “Nouvelle revue di Psychanalyse”, cit., p. 6.
[28]     Sull’attesa come dipendenza dalla risposta dell’altro cfr. A. Puck Petitier, On dit qu’un prompt départ vous éloigne de nous, ivi, pp. 99-100.
[29]     Barthes, Il più grande decrittatore di miti, cit., p. 241.
[30]     Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 40.
[31]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 479.
[32]     Ibid.
[33]     Ivi, p. 477.
[34]     Ibid.
[35]     Cfr. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, note di A. Beretta Anguissola, D. Galateria, Mondadori, Milano 1995, p. 39: «E ad ogni sia pur minimo atto, che prima fosse stato immerso nell’atmosfera felice della presenza di Albertine, mi toccava ogni volta ricominciare da capo, con lo stesso dolore, l’apprendistato della separazione» [À la recherche du temps perdu, iv, éd. publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1987-89, p. 31: «Pour chaque acte, même le plus minime, mais qui baignait auparavant dans l’atmosphère heureuse qu’était la présence d’Albertine, il me fallait chaque fois, à nouveaux frais, avec la même douleur, recommencer l’apprentissage de la séparation»].
[36]     Cfr. A. Schönberg, Erwartung: Monodram, op. 17 (1909), Dichtung von M. Pappenheim, Universal Edition, 1950.
[37]     Barthes, Il più grande decrittatore di miti, cit., p. 231.